Quanto c'è di me in ciò che faccio?

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Quanto c'è di me in ciò che faccio?
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Sono un romantico. Nel senso più stretto del termine, ciò non riesco a fare la differenza tra ciò che faccio e ciò che sono.

Lo sono così tanto che ho deciso di fare del mio lavoro la mia indole. Dell'arte la mia espressione. Questo approccio, così emozionante, fa si che una critica al mio operato come artista, spesso si ripercuota su di me come persona. Sono terribile ad accettare le critiche.

Poco fa ho scritto una pagina in cui parlavo di come fare delle critiche un punto di costruzione, un momento di opportunità per crescere. Ma in realtà io faccio fatica ad accettarle, perchè le prendo sul personale. Quando frequentavo gli Stati Uniti per promuovere la società di videogiochi che ho aiutato a fondare, e incontravo giornalisti per il videogioco che avevamo sviluppato, mi resi conto che questa caratteristica è molto comune negli italiani.

Addirittura è noto, nel mondo del lavoro statunitense, che gli italiani sono creativi, passionali e divertenti, ma hanno un grande difetto: prendono tutto sul personale. Gli statunitensi invece, così pragmatici, hanno ben chiara la delimitazione tra personale e lavoro.

Una critica lavorativa è esclusivamente mirata ad un certo aspetto della vita, quella del lavoro appunto. Da noi, una critica lavorativa rischia di finire con citazione di madri e insulti che farebbero rivoltare nella tomba i nostri avi in men che non si dica.

Quindi, alla domanda quanto c'è di me in ciò che faccio come artista, dovrei dire "tutto". Ciò che faccio è ciò che sono. Non c'è nessuna distinzione. I personaggi che scrivo sono frammenti di me, come pezzi di uno specchio rotto, che riflettono una parte più o meno sepolta del mio io.

Ogni volta che vengo attraversato da un sentimento o da un'idea, un agente dentro di me se la ricorda, ne prende nota. É un processo inconscio, al quale non faccio più nemmeno caso. Ma è come se sepolto sotto il mio io, ci fosse una valigia di ricordi, emozioni, sensazioni, che al momento giusto, mentre sono nella furia descrittiva di una scena, prendono il sopravvento e cominciano a riversarsi nelle pagine. A volte rimango stupito da quello che ho scritto, non perchè sia trascendentale o stupefacente in sé, ma perchè non mi sembravano idee o emozioni presenti al momento in cui posavo le dita sulla tastiera.

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Per esempio, mi succede che nel recitare una scena, io venga travolto da qualcosa che in quel momento emerge in me, per via delle parole dette. Come se vi fosse un lato mio nascosto a me stesso, che attraverso il mio operato artistico si manifesta. Ricordo che quando girai cenerentola, mio nonno era mancato da poco. Alcune scene, che non erano legate al tema del lutto, furono invece delle valvole di sfogo durante le quali riuscii ad andare in un profondo contatto con questa parte ferita di me.

Oggi ho scritto una scena tra due personaggi del mio prossimo libro. Due donne sui 60 anni, Rosa e Flora. Entrambe con un bagaglio di odio e non detti lungo quanto una vita nei confronti l'una dell'altra. Mi aspettavo che dalla scena emergesse un'energia nervosa, violenta quasi. Un litigio almeno. Invece, le due donne hanno trovato un punto in comune nel loro dolore, qualcosa che poi le ha unite il tempo di un silenzio. E la scena si è conclusa con un invito a bere il tè e parlare. Non me lo aspettavo proprio. Chissà, forse significa che anche io ho bisogno di riappacificarmi? 

Personalmente, non penso che un artista possa distanziarsi a tal punto dalla sua opera da dire "è tutta tecnica". Almeno, io non vorrei diventare quell'artista. Penso che la tecnica, come ho detto più volte, sia necessaria, ma non sufficiente. Bisogna cedere qualcosa in questo scambio continuo con il lettore, con lo spettatore. L'essere umano riconosce l'autenticità. Siamo costruiti per essere i più abili e sopraffini analizzatori della realtà. Non ci facciamo fregare facilmente, almeno, non nel profondo. Per coloro che sono alla ricerca di un senso, di poesia, che hanno allenato il loro cuore a frequentare l'autenticità, non c è verso di fregarli: l'artista deve donare qualcosa di sé. Persino nell'arte concettuale.

Per me l'arte è fondamentalmente un processo romantico, la manifestazione empirica di un sentimento interiore ineffabile. Mistico, ma reale. E per voi, cosa è l'arte? Perchè c'è questa necessità di fruire e fare arte nel nostro mondo?

Alla prossima pagina.

Articolo scritto da  Flavio Parenti
Sono un attore, scrittore e regista nato a Parigi e cresciuto in Italia. Ho lavorato in film, serie TV e teatro, collaborando con registi di fama internazionale. Sono appassionato di storytelling e amo sperimentare con diverse forme d'arte per raccontare storie.
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