Filo unico o filo multiplo

Sono a un bivio.

Ho scritto il primo volume della mia prossima saga, “Il Labirinto della Speranza”. Ora mi sono fermato un attimo per respirare e pianificare il prossimo.

E nel frattempo, mi diletto in quella che potrebbe essere lo stile delle copertine. Immagino il progetto, non solo la storia. Mi conoscete, sono un vulcano.

Ma ora, quello che conta, più di ogni altra cosa, è la storia.

Ho già in testa cosa raccontare nei volumi successivi, ma devo strutturare la narrazione.

Cosa intendo per strutturare?

Voglio dire spezzare il racconto in piccoli pezzi, frammenti sempre più piccoli: capitoli, scene, momenti, frasi, parole…

E le possibilità sono due: posso frammentare aggiungendo altre linee narrative, oppure evitare di aggiungerne e seguire un filo unico.

In quale caso conviene l’una, e in quale l’altra?

Soprattutto quando si parla di una saga, non è una risposta semplice.

Il filo multiplo permette di immergere il lettore in un mondo complesso, favorisce lo sviluppo parallelo di molti personaggi, anche secondari, e crea varietà di ritmi.

Potrei passare da un registro tragico a uno leggero con un semplice cambio di “linea narrativa”, e questo vale anche per le tematiche.

Se la linea “giovane” parla di problematiche adolescenziali, la linea “adulti” potrà affrontare temi più affini alla fascia d’età dei protagonisti.

Come potete immaginare, la linea multipla è la più usata nella scrittura moderna, per via dell’influenza della serialità televisiva.

Ma ci sono vantaggi anche nel buon vecchio filo unico.

Se il protagonista è forte e il suo percorso è ciò che conta davvero, allora passare a linee multiple è addirittura dannoso, perché non solo diluisce la storia, ma allontana dal cuore pulsante della narrazione.

Inoltre, se le azioni avvengono in modo sequenziale e progressivo, il filo unico è più potente.

La linea unica ha anche un altro vantaggio incredibile: è più semplice da seguire e rende il ritmo più veloce.

Io sono del team “filo unico”, perché amo Amleto, Otello, Don Chisciotte e i miti greci.

Mi piace la storia che diventa parabola e metafora, che imprime in pochi personaggi la nostra umanità, diventando simbolo di qualcosa di fantastico, filosofico e metafisico che ci riguarda tutti.

Fare la scelta del filo unico per una saga è la più difficile, perché non avrò l’orpello della scelta multipla, ma sono certo che se la storia è buona, sarà la scelta vincente.

In generale, io sono sempre stato amante delle linee singole, e credo che se scegliessi di usare linee multiple, rispecchierei solo la mia paura di non andare al sodo, di non essere radicale nel pensiero e nell’esecuzione. Non voglio fare giri inutili, né aggiungere ciò che non serve solo per compensare il mio timore di non essere abbastanza.

Ho scelto:

“Il Labirinto della Speranza” sarà una saga psicologica e thriller in 5 volumi, con una linea narrativa singola.

La tragedia a lieto fine

L’autore deve confrontarsi con il genere. Ma perché?

Perché il genere classifica la storia, la impacchetta in modo che si possa spiegare più in fretta.

• “È un libro per bambini” (Il piccolo principe).

• “È un romance ottocentesco” (Jane Eyre).

• “È un documentario marino d’avventura” (Moby Dick).

Che piccolezza!

Ma le riduzioni sono effettivamente molto utili, perché grazie alle categorie possiamo scegliere il nostro gusto preferito, come i gelati dal gelataio. Una carta del menù.

All’epoca dei Greci, avevamo la tragedia e la commedia. Ora abbiamo il gusto puffo.

Sta di fatto che mi sono chiesto a quale genere io appartenga, come scrittore.

Chi mi conosce può capire la mia avversione all’etichettatura. La odio.

Io non voglio appartenere. Non fa per me. Figuriamoci l’auto-etichettatura. Il peggio del peggio.

Vi svelo questo piccolo segreto:

da piccolo, quando ero in Francia, dicevo di essere italiano, e viceversa in Italia, dicevo di essere francese.

Sono bastian contrario nel cuore. Un tifoso del no.

Ma visto che porto il cappello da venditore e faccio pubblicità ai miei libri, confrontandomi anche con il lato mercantile dell’arte, ho deciso di scavare, anche in maniera creativa, tra le varie specie di genere, per capire in quali mi vorrei riconoscere.

Niente nicchie.

Mi piace viaggiare. Variare nell’offerta.

Non scrivo commedie. Nemmeno tragedie, almeno, non del tutto.

Amo pensare che la mia storia abbia curato i miei personaggi, e anche i miei lettori.

Il percorso narrativo deve essere un cammino sui carboni ardenti. Un rito di passaggio.

Vorrei che ci fosse un prima e un dopo.

(Soprattutto per i miei personaggi, quindi anche per me che me li vivo, ma se fortuna vuole che riesca a farlo fare anche a chi mi legge, sarebbe bellissimo).

E vorrei che, finita l’ultima pagina del libro, il lettore stesse davvero meglio.

Meglio con sé stesso, con il mondo, con il passato, il futuro.

Meglio con le sue paure.

Della tragedia, mi piace l’intensità, la potenza, l’ineluttabilità.

Mi piace l’altezza a cui parla, l’ampiezza della sua voce, la profondità dei suoi personaggi.

Ma della commedia, mi piace il lieto fine.

Da lettore/spettatore, voglio finire più felice di quando ho cominciato.

Ma questo non vuol dire ridere, anzi.

Voglio patire le pene dei personaggi, comprenderli. Voglio vederli splendere, crollare e risalire, come fenici.

Voglio tragedie a lieto fine.

Peccato che su Amazon la categoria non ci sia. 😂