La buona scrittura

Si dice di Shakespeare che, anche se recitato male, sia interessante.

Sto ripensando a questo proprio ora: a come la potenza di una storia, una vera storia, trascenda da come viene eseguita.

Una buona storia funziona anche se girata male, letta sul treno con le pagine ingiallite o guardata su un piccolo televisore catodico.

Una buona storia funziona perché è lo scheletro dell’intrattenimento.

Non vi può essere sospensione della credulità senza una buona storia, credibile, forte, colma di trasformazione ed emozione.

Per questo spendo così tanto tempo a strutturare le mie storie.

Le definisco e costruisco una griglia, come il ferro armato per il cemento.

La storia, intesa come una struttura di avvenimenti che definisce personaggi, emozioni e significati, è l’anima di un libro, un film, un videogioco.

Ho in mente questa mia teoria della pizza. L'evoluzione da pasta a pizza, poi a prodotto farcito e cotto, come potrebbe essere vista un’opera d’arte: prima pensata, poi prodotta, farcita dal marketing e consegnata al consumatore.

E mi dico che mi sono fregato da solo.

La mia teoria della pizza, in realtà, è la teoria della pasta madre, che altro non è che una reazione chimica tra acqua, farina e sale.

Che altro non è che la vita.

Il ruolo dell’artista è mettere vita nelle sue opere.

Dare letteralmente vita: ecco la responsabilità che mi prefiggo.

Ho avuto un primo desiderio sei mesi fa: scrivere la storia di un uomo che trovava il potere di entrare nella mente della gente.

Uno psicanalista che riusciva a curare entrando fisicamente nella mente di chi voleva aiutare.

Un primo tema della paternità era presente, ma era solo l’inizio della ricerca.

L’inizio è un po’ come andare a scoprire “quello che si vuole scoprire”.

La ricerca della ricerca, in un certo senso.

In questi mesi ho lavorato sulla storia: un agglomerato di frasi, magari trenta.

Queste trenta frasi sono il frutto di strutturazione, modellazione e trasformazione, ma a livello alto.

“No, non in Francia, in Italia.”

Oppure: “No, non un fratello, ma un amico.”

Tutto muta come in una tempesta.

Ma lentamente un pezzo casca sulla carta. Poi un altro.

Ed emerge qualcosa di sfuocato, ma reale.

Si lascia riposare, così da guardarla un paio di mesi dopo con l’occhio di chi può dire:

“Ma tu davvero vuoi investire tutto questo tempo in questa roba?”

Oppure, più ottimista:

“Hm… sì, mi piace.”

E così, tra cinquanta idee cancellate e un paio sopravvissute, si passa alla seconda stesura “dell’idea”.

Poi, stesura dopo stesura, nell’ultimo mese ho concluso la prima “definizione a larghe trame della mia nuova saga in cinque volumi”.

E da un mesetto ho cominciato a scrivere le prime pagine.

Vomito generico, sfuocato anch’esso, ma piano piano comincio a vedere i personaggi, a conoscerli, a scoprirli.

Devo ammettere: poche cose nella vita mi danno tanta soddisfazione.

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La ricetta di una buona storia

Oggi parlo di scrittura.

Mi capita sempre di più di rifletterci, segno che non solo comincio a ragionare in questi termini – cosa che facevo già da anni – ma ho anche il coraggio di condividere i pensieri appresi e forgiati nel tempo.

Qual è il segreto di una buona storia?

Esistono numerosi manuali per scrivere. "On Writing" di Stephen King è sicuramente un buon inizio; Mamet è eccellente, esiste una sua masterclass online molto interessante sulla scrittura. E poi ci sono i maestri nascosti, quelli che devi scoprire da solo. Ma per farlo, devi prima conoscere bene l'ambito. Più sappiamo, meglio siamo in grado di identificare i nostri maestri, coloro che realmente possono aiutarci a progredire nella nostra arte.

La domanda che mi pongo è, ovviamente, senza una risposta univoca. In realtà, ha mille risposte diverse. È una questione aperta, che non può essere risolta con una formula matematica, ripetibile e immutabile.

Ci sono storie che colpiscono per l'idea, altre per la prosa, altre ancora per i personaggi o per il ritmo. Insomma, le variabili sono innumerevoli. Quindi, anziché elencarle tutte, mi limiterò a esplorare quanto più possibile per capire quale, tra tutte queste variabili, sia la più importante.

Per chi conosce il mio "metodo della pizza", sa che ho un'inclinazione per le metafore culinarie. Mi piace andare al ristorante e gustare piatti squisiti, immergermi completamente in esperienze gastronomiche, spesso stellate. Quando mi siedo a tavola, dopo aver appoggiato la giacca, ciò che mi colpisce immediatamente è il pane.

Il pane è il biglietto da visita della cucina. In esso, c'è la semplicità di un piatto umile, composto solamente da tre elementi. Ma quante varietà di pane esistono! Quante fragranze, sapori e consistenze si possono scoprire con semplice acqua, farina e sale! Pane integrale, focaccia, schiacciatina, grissino, pane al latte, morbido, ruvido: quando mi viene servita una cesta di pane, non necessariamente abbondante, ma variegata e piacevole, mi lascio conquistare e affronto con maggiore apertura ciò che seguirà.

Ora vi chiederete: cosa c'entra tutto questo con una buona storia?

Una storia non può funzionare senza personaggi solidi. Puoi elaborare quanto vuoi una trama, inserire esplosioni, far crollare civiltà, creare incidenti drammatici. Ma se queste vicende accadono a personaggi che il lettore non ha avuto modo di apprezzare, allora tutto risulta vano.

I personaggi sono il moltiplicatore dell'emozione che una storia può trasmettere. Sono il pane della narrazione: semplici, comprensibili, ma difficili da scrivere. Devono essere autentici, avere desideri, difetti, fragilità. Devono interagire tra loro in modo credibile, superare ostacoli, unirsi o dividersi.

Ma cosa rende davvero umano un personaggio? Parlando dalla mia esperienza attoriale - io non credo nella recitazione come maschera, bensì come manifestazione di sincerità, di autenticità - la magia della recitazione sta nel creare una relazione autentica con il partner di scena, stabilendo un legame che permetta di agire liberamente, senza timore.

L'arte della recitazione risiede proprio in quello spazio di fiducia che consente di essere veramente se stessi. Lo stesso vale per i personaggi di un libro: ciò che li rende amabili o meno sono le loro relazioni, perché è attraverso di esse che ci identifichiamo con loro.

Dunque, una buona storia si basa su relazioni autentiche. Poi, si può procedere con qualsiasi tecnica narrativa per rendere i primi, i secondi e il dessert indimenticabili.

Che cos'è l'originalità?

Ricorderò sempre le parole di Anna Laura Messeri, che fu la direttrice della scuola del teatro stabile di Genova, nella quale ho avuto la mia prima vera infarinatura artistica.

Ognuno dei miei maestri aveva una cultura teatrale, artistica - e attoriale - davvero vasta. Aver potuto frequentare queste persone, ascoltarle, il tutto gratuitamente, è stato per me una fonte inesauribile di creatività per gli anni a seguire. Ogni volta che mi sento perso, oppure che non so quale scelta fare, tendo a ritornare a quei momenti, a quelle discussione che avevo con ognuno di loro, e ricordo i consigli fantastici che ricevevo.

Insomma, un giorno la direttrice, notando la mia ossessiva ricerca di originalità, mi disse una cosa che mi colpì davvero molto: "Flavio, essere originali non vuol dire non copiare. Essere originali vuol dire non essere copiabile!"

Una frase che sembrò un tuono per quanto scosse le mie certezze. Ma come, l'originalità quindi non è un rifugiarsi in luoghi dove nessuno è andato? Non è tentare nuove strade che nessuno hai mai osato?

Ero confuso. Avevo sempre visto l'originalità nell'arte come un segno di distinzione, di ricerca. Poi, compresi meglio cosa intendeva con quella frase. Rimuginando per giorni, cercando di spiegarmi meglio cosa intendeva, compresi: l'originalità è nella capacità dell'artista di far emergere la propria essenza, poiché essa non può essere copiata, in quanto perfettamente allineata con l'anima e la tecnica dell'artista.

L'originalità non è nel gesto tecnico e nemmeno nel concetto espresso e neanche nella potenza - o qualità - interpretativa, ma è in tutte queste sfaccettature insieme. Solo un approccio olistico può essere così complesso e originale da non essere "copiabile". L'artista diventa unico quando la sua espressione tecnica è naturale come il suo respiro, quando la sua immaginazione è libera - proprio grazie alla tecnica - di farsi comprendere da coloro che sono "fuori" dalla sua anima.

Ecco cos'è l'originalità. Non è una moda, non è una ricerca ossessiva del diverso. No. Siamo noi e tanto olio di gomito. Così tanto che finisce per sparire e fa emergere il diamante che ognuno di noi ha dentro.

Se davvero vogliamo essere originali, dobbiamo essere fedeli ai nostri desideri, a quello che sognavamo di essere a 5 anni, ma non è sufficiente. Poi dobbiamo studiare, studiare così tanto che non ce la facciamo più, e poi ancora e ancora. Fino a che lo studio diventa la forma naturale del nostro procedere, fino a che non siamo, noi stessi, l'espressione della tecnica che abbiamo fatto nostra. Solo in quel momento, potremmo, forse, ambiare all'originalità.

Questo pensiero sembra in una posizione quasi diametralmente opposta con un'altra famosa, attribuita a Picasso (sebbene la provenienza sia oggetti di dibattito): "Il bravi artisti copiano. Il grandi artisti rubano".

Cosa vuol dire? Che il grande artista deve avare una sensibilità capace di cogliere l'unicum di ciò che ha di fronte. Questo non vuol dire però che, fatto questo "furto" (se davvero possiamo chiamarlo così), allora l'artista produce arte originale. No. Quello che intende dire la frase è che il processo di imitazione è sì, alla base della creatività, ma non è la punta.

Si parte dall'imitazione, proprio per un giorno farla così tanto nostra da reinventarla, da produrre qualcosa di originale, proprio perchè intrisa della nostra essenza, della nostra anima.

E invece per voi, che cosa è l'originalità? Vi aspetto nei commenti.