Quando muore l'arte

Sapete cosa dicevano gli amanuensi e i copisti quando l’invenzione di Gutenberg (la stampa) arrivò a sconquassare l’industria dei libri scritti a mano?

«Scriptores pereunt, ars moritur.»

I copisti scompaiono, l’arte muore.

Molti ritenevano che i libri stampati fossero oggetti meccanici, privi di anima o di bellezza. Filippo di Strata, ad esempio, scriveva nel XV secolo: «Libri impressi sunt meretrices; scripti sunt virgines.»

I libri stampati sono meretrici, quelli scritti a mano, vergini.

Vi ricorda qualcosa? Le parole che vengono spese nei confronti dell’IA generativa sono spesso molto simili. Il disprezzo che generano (piccolo gioco di parole) può essere ridotto a questo: è un prodotto senz’anima, che sostituirà gli artisti.

Ma in realtà la stampa ha fatto esplodere la scrittura. Mai così tanti libri furono scritti, stampati e soprattutto letti dopo l’avvento di Gutenberg. A lui dobbiamo la letteratura moderna. A lui lo sviluppo esponenziale della conoscenza, che ha portato, nei secoli successivi, alla trasformazione radicale della società, del benessere, dell’uomo.

Il dibattito sull’arte e sull’intelligenza artificiale è spesso affrontato in maniera pregiudizievole, perché mette in discussione uno dei tasselli fondamentali dell’artista (proprio come la stampa): l’esecuzione.

Si dice che l’arte sia nel gesto, e che se il gesto viene sostituito dalla macchina, allora di arte non ve n’è più traccia.

Io oso pensare qualcosa di diverso. Qualcosa che cerca di andare oltre la coltre di nebbia davanti alla quale ci troviamo tutti.

L’arte non è nell’esecuzione di uno dei blocchi fondamentali, ma nell’intento, nell'idea, nell’esecuzione, nella distribuzione e nella consegna.

Mi spiego. Se una macchina può fare in pochi secondi ciò che un uomo può fare in mesi, allora il valore di quella cosa decade immediatamente. Ed è lì che nasce la paura dei concept artist, degli scrittori, e persino degli attori. Ormai ci siamo: la tecnologia è così avanzata che si potranno sostituire anche loro (nei prodotti digitali, il teatro, per ora, è intoccato).

Quindi siamo sostituibili? No. Perché è il processo nella sua interezza a produrre vero valore, non il singolo elemento all'interno del processo di creazione.

Questo pensiero è radicale, e richiede un cambio netto di prospettiva: È quello che viene chiamato un cambio di paradigma.

L’IA è qui. È come l’elettricità, il computer, la ruota. Ormai c’è.

Il mio scopo è capire come sopravvivere e, non solo, come prosperare, ora che il terreno è cambiato così grandemente.

Da artista, sono costretto a rivalutare cosa significa essere un artista.

Fare arte non si limita più alla produzione del singolo elemento dell'esecuzione (il testo, la canzone, il disegno, ecc., qualsiasi cosa che potrebbe essere riprodotto dalla IA).
C'è molto di più.
Quell’elemento deve essere parte di un intento più grande, che parta dall’anima dell’artista (l’intento), si propaghi nella risposta umana al mondo dell'artista (l'idea), passi attraverso la realizzazione di quella risposta (l'esecuzione) ma non finisce qui. Serve che l'artista incarni l’impatto che vuole avere sul mondo (la consegna).

In sostanza, si tratta di avere un’idea, di realizzarla e poi di far sapere che esiste. E poi ripetere questo processo, migliorando ogni passo, ogni volta.

L’artista diventa quindi il fautore del proprio successo, colui che viene chiamato non solo per la produzione artigianale degli elementi, ma per l’intera filiera artistica: dall’intento, all’idea, alla realizzazione, alla distribuzione e alla consegna.

L'artista è la manifestazione umana del processo di tutta la filiera.

E lì, l’intelligenza artificiale diventa un compagno di viaggio che permette - per la prima volta da sempre, proprio come la stampa - di aprire le porte, di dare all’artista che lo desidera, le ali per volare da solo.

Non sarà facile.

Ma se prima volare da soli, per gli artisti, era un sogno irrealizzabile, questa rivoluzione restituisce a coloro che hanno intento, idee, spirito critico e anima artistica la possibilità di farcela da soli.

Lo ripeto:
1. Intento (che si alimenta con cultura, lettura, incontri, cibo dell'anima)
2. Idea (hce nasce dall’ascolto di ciò che ci circonda e di ciò che abbiamo dentro)
3. Esecuzione (la nostra risposta, come artisti. Il nostro segno: scrittura, canto, recitazione, quello che vi piace di più.)
4. Distribuzione (marketing, piattaforme digitali, strategia per far conoscere la nostra risposta, per dare impatto.)
5. Discussione con il pubblico (interazioni, social network, un sito, un diario d’artista dove scambiarsi opinioni)

L'arte non è morta. Al contrario.

Stiamo per vivere un’esplosione di artisti indipendenti che riusciranno ad essere grandi quanto (o più) delle major, poiché detentori di ciò che conta e vale davvero all'interno della filiera: l’intento. Il fuoco primigeneo, la luce.

Successo o Prestigio?

Come dice il caro Eraclito, noi vediamo il mondo in modalità binaria. Esiste questo o quello. La luce o le tenebre. La fame o la sazietà.

Tendiamo ad andare per esclusione logica e abbiamo costruito il mondo usando queste esclusioni per creare ordinela porta, la scatola. Fuori o dentro.

Nella dimensione in cui mi sto muovendo (l’editoria), lo scrittore (io) è straziato da un’ambivalenza vecchia come il cucco:

Prestigio o successo commerciale?

A quanto sembra, uno esclude l’altro. Sia mai che i salotti intellettuali riconoscano in un’opera di successo popolare un merito letterario! E Dio non voglia che un’opera di eccelsa prosa e tematica venda centinaia di migliaia di copie.

No, non può essere. O l’uno, o l’altro.

Un esempio lampante sono i premi letterari. Lo Strega, per esempio. Ricordo un’immagine che mostrava il numero di copie vendute dei selezionati. Se ben ricordo, della dozzina, solo tre superavano le 10.000 copie.

Capirete quindi quanto sia presente nel cuore di ogni scrittore il dilemma: successo commerciale o prestigio?

A me piace pensare che uno non escluda l’altro. Non tanto perché oso immaginare uno scenario in cui un successo commerciale enorme vinca il Premio Strega – non sono così illuso – ma perché, per me, il prestigio autoriale è qualcosa che si ottiene, se si ottiene, a lavoro finito.

Il prestigio è la medaglia al valore del soldato morto tra le trincee d’inchiostro. Non la pacca sulla spalla dei suoi commilitoni.

Il prestigio sono i libri di storia.

Il successo, invece, come diceva il grande Carmelo Bene, “è già successo”, sta in un presente che è già passato.

Dovrei quindi chiedermi: cos’è il successo commerciale per me?

Quante copie? Quanto profitto?

Credo che il successo commerciale, per un artista, sia il momento in cui, con la propria arte, riesce ad essere autonomo. A camminare da solo.

Questo significa guadagnare abbastanza da dire:

“Sono felice? Mi basta?”

E rispondersi:

“Sì.”

Poi, se si eccede, è grasso che cola, ma se ho una qualità nascosta, è quella di essere grato per quello che ho.

Tornando alle mie paturnie d’autoresuccesso commerciale o prestigio?

Come spesso succede, questo diario mi permette, nel momento in cui espleto i miei pensieri, di fare chiarezza. Il testo è la fotografia di questa mia ricerca.

E la risposta la sento chiara dentro di me:

Se potessi scegliere, sceglierei il successo commerciale in vita, e il prestigio post mortem.

Ora che ho fatto chiarezza su questo punto, non mi resta che affrontare la fase successiva:

Scrittore per casa editrice media, casa editrice grande, o scrittore indipendente?

Come sapete, recito, ho poco tempo. Non riesco a dedicarmi alle faccende per le quali un autore dovrebbe investire tutto il suo tempo: incontri, salotti, presentazioni, firmacopie.

Sono tutti compiti ai quali non riesco ad adempiere come vorrei.

E quindi mi dico che forse dovrei andare al 100% da soloDiventare un autopubblicato e rinunciare a quella parte di mondo e prestigio, per dedicarmi al 100% al sito, ai libri online e al successo commerciale personale.

I vantaggi sarebbero:

• Controllo totale sulle pubblicazioni

• Guadagno maggiore per copia venduta

• Controllo a lungo termine sulle opere e sui diritti

• Possibilità di scegliere la copertina e investire in marketing

L’altra opzione è continuare con la PaV con la prossima saga (Il Labirinto della Speranzathriller psicologico), con le stesse modalità de L’Anello di Saturno.

Sembra aver funzionato. Un detto dice:

“Squadra che vince non si cambia.”

Chissà. Con la PaV mi sono trovato bene. Aurora e il suo team mi hanno appoggiato, aiutato e introdotto nel mondo della letteratura.

Abbiamo un contratto che giova a entrambi e che, se immutato, mi regala una libertà simile a quella di un indipendente “puro”.

La terza opzione sarebbe tentare con una grande casa editrice (Feltrinelli, Mondadori, Nave di Teseo).

Un altro tipo di gioco.

• Le percentuali sulle copie vendute calerebbero drasticamente

• I tempi di pubblicazione si allungherebbero

• Perderei il controllo su aspetti come copertina, impaginazione, tempistiche, diritti e persino il testo, che passerebbe sotto la lente di un editor della CE

In compenso, mi aprirebbe a un mercato più ampio, che garantirebbe volumi in grado di compensare le royalties inferiori.

Ma io chi sono?

Di queste tre scelte, quale mi rappresenta meglio?

L’ho detto in un’intervista, tempo fa, con Antonella su Instagram:

“Io non sono uno specialista di nulla. Un factotum sui generis.”

Vi lascio, e mi lascio, con un famoso proverbio inglese:

“Jack of all trades, master of none.”

(Chi sa fare un po’ di tutto non è maestro in nulla)

Ma pochi sanno che la frase continua:

“...But often times better than a master of one.”

(ma spesso è superiore di chi è maestro in una cosa sola.)

Giù le mani dal passato

Ho riletto il quinto volume de L’Anello di Saturno. La sua conclusione.

È un volume che ho scritto tempo addietro e, come sapete, ora sto lavorando su Il Labirinto della Speranza. Una saga del tutto diversa, con tempi, ritmi, personaggi e temi diametralmente opposti a quelli così morbidi de L’Anello.

Mi ritrovo quindi davanti a una vecchia fotografia di me. Non aggiornata al presente, mi rimanda a un me distante, diverso. Uno scrittore che cercava di espandere la sua prosa, di rallentare il ritmo del racconto, di indugiare nella descrizione, nella narrazione dell’umanità dei personaggi.

La tentazione di rimettere le mani sul testo per aggiornarlo al mio nuovo stile è forte, e devo resistere. Non tanto perché non sarebbe un miglioramento, quanto perché mi voglio imporre di rimanere fedele al me che ha voluto raccontare l’amore.

Rileggere il volume mi ha messo in una piccola crisi. Sono passati alcuni mesi, più di cinque, da quando l’avevo finito di scrivere, e il ricordo che avevo era diverso. Più forte, più intenso. Invece, ho trovato morbidezza, tranquillità.

In un certo senso, ne sono felice. È una piccola dimostrazione che la natura della saga de L’Anello di Saturno è autentica, genuina. Come può essere la risoluzione dell’amore vero, se non nella morbidezza tragica della nostra vita?

Come scoprirete, il quinto volume ha una sua natura particolare, intensa, autonoma quasi.

“Vive di vita propria”, si potrebbe dire.

Che bello rileggersi a distanza di tempo. Non tanto per osservare la prosa o la trama, ma per ricordare quel me che si struggeva nella scrittura delle parole. Per rivivere, in un certo senso, il Flavio d’un tempo.

La scrittura è un viaggio profondo, che non finisce con la fine del libro. Perché ogni libro è un eco di un frammento di me.

Un tuffo nel passato.

L’arte è uno specchio, davanti al quale l’artista ha l’opportunità non solo di esplorare il mondo attorno a sé o il proprio mondo interiore, ma ha la fortuna di vederne una manifestazione tangibile, reale.

Una proiezione in carne, che gli ricorda chi è, da dove viene, cosa ha fatto per arrivare al presente.

Può essere una prigione come un’opportunità.

Un mio maestro mi diceva spesso che “non bisogna affezionarsi alle proprie idee”. E questo vale anche per le parti di noi.

E rileggendomi, provo grande tenerezza per il me che ero, che sono e che, spero, sarò.

Voglio un luogo comune

Il luogo comune... prima di tutto cos'è?

Un luogo comune, noto anche come cliché o banalità, è un'idea, espressione, opinione o elemento narrativo che, a causa del suo uso eccessivo, ha perso di originalità, impatto ed efficacia. Si tratta di un pensiero o un concetto che è diventato così familiare e ripetitivo che non suscita più interesse o riflessione critica. I luoghi comuni possono essere trovati in vari contesti, dalla letteratura alla conversazione quotidiana, e spesso servono come scorciatoie per esprimere pensieri complessi in modo semplice, anche se a volte superficiali.

Una definizione tutto sommato negativa, che induce a pensare che il luogo comune sia tanto banale da dover essere bandito dal discorso collettivo.

Eppure, ieri, ragionando, mi sono reso conto che se non ci fossero i luoghi comuni, luoghi che per tutti noi vogliono dire la stessa cosa, non potremo discutere. Il luogo comune è un ponte che possiamo attraversare insieme, un luogo in cui non serve discutere, perché siamo già d'accordo. É un luogo di pace.

Persino la parola è luogo comune. I nomi delle cose non sono forse luoghi comuni? Se ognuno di noi chiamasse la rosa per un altro nome, potremmo davvero discutere della sua bellezza senza incappare in complicati malintesi?

In un momento così teso della società, in cui muoiono persone per volontà altrui, dove le bombe sono giustificate dall'odio, e l'odio è giustificato dalla fede, come si può non amare il luogo comune? Perchè alla fine, è proprio di questo che abbiamo bisogno.

Di un luogo comune.

E ce lo abbiamo, è qui. É attorno a noi. É un ragionamento utopico, idealista, ne sono consapevole, ma lasciatemi almeno una volta sognare il desiderio di un'umanità unita, che accetti che la terra sia la terra di tutti, che possa vivere insieme, in pace, collaborando, senza che individui pretendano ciò che è di altri come se fosse loro. Un'umanità che non eserciti più violenza, ma provi sempre, in ogni momento, a cercare un dialogo, un punto d'incontro: un unico luogo comune.

Forse un giorno ci arriveremo, grazie alla tecnologia, grazie ad un rinnovato umanesimo che, confrontato con i suoi limiti, porterà l'uomo alla consapevolezza di ciò che è: un piccolo granello di sabbia tra le ruote del cosmo, insignificante, periferico, fragile come una scintilla nei fondi del mare. E in quel momento, chissà, forse un granello si alzerà, aprirà le braccia e chiederà all'altro granello accanto a lui di prendergli la mano.

E tutti rimarranno a guardarsi, ad abbracciarsi, e a godere di quel poco di fortuna che ci è stata data.

I bambini non hanno colpe.