La mia voce narrante

Il narratore, "la voce", come dicono. Colui che racconta la storia.

Si dice che una storia non sia soltanto la storia dei protagonisti, ma anche la relazione tra colui che narra e colui che legge.

Da qualche giorno mi sto impegnando a definire meglio il tipo di narratore che voglio avere nella prossima saga. Chi ha letto La Divina Avventura e L’Anello di Saturno già conosce il mio amore per le prospettive originali.

Nella Divina Avventura, la storia viene narrata in una prospettiva di narratore limitato in terza persona al passato remoto, da Kato, l'antagonista.

Nell’Anello di Saturno, ancora in corso, ho invece optato per un narratore onnisciente in terza persona al passato remoto, nemmeno tanto limitato a Luca, visto che di tanto in tanto il Destino bazzica anche nelle anime di AnnaRonnieGeppoFloyd e il resto della combriccola.

Penso che ogni storia debba avere il narratore giusto. Un po’ come le lenti in fotografia. Se si fa un primo piano, bisogna usare un teleobiettivo, in modo che la prospettiva della figura non sia troppo distorta; se invece si inquadrano luoghi architettonici, meglio usare lenti larghe, addirittura grandangolari. Poi si possono anche fare esperimenti (come inquadrare un volto con un grandangolare, creando una specie di mostro), ma per una saga in cinque volumi, la scelta deve essere ponderata ed equilibrata.

Questa volta non voglio usare un personaggio per narrare la storia; voglio fondermi del tutto con il racconto, senza creare un filtro esterno. Questo mi toglierà la possibilità di filosofeggiare, ma creerà sicuramente più immediatezza. E considerando che sarà un thriller psicologico paranormale, voglio stare il più vicino possibile ai miei personaggi.

L’opzione classica sarebbe usare un narratore onnisciente in terza persona con il passato remoto:

Erik si fermò davanti alla porta. Il silenzio lo avvolse, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo. La porta portava ancora i segni di una vita che non c’era più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo. Tentò di respirare, ma l’aria gli sembrò improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna gettava riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”. Erik serrò i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fece un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posò sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormorò, mentre il respiro gli si spezzava in gola.

Questa opzione è un evergreen, che però ha il “difetto”, se vogliamo, di perdere di immediatezza, poiché la storia è “già avvenuta”.

L’altra opzione, molto in voga in questo periodo, è il narratore limitato in prima persona al presente:

Mi fermo davanti alla porta. Il silenzio mi avvolge, denso, opprimente, come una coperta troppo pesante. La porta ha ancora quel segno, quel ricordo di un tempo che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Provo a respirare, ma l’aria sembra non arrivarmi ai polmoni.
Dalla finestra, la luce fioca della luna riflette bagliori argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Stringo i pugni. Le unghie mi scavano nei palmi, ma non mollo la presa.
Faccio un passo avanti. Solo uno, e già sento il sangue gelarmi quando la mia mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», sussurro, con il respiro spezzato e la gola che brucia.

Interessante, ma ha un problema piuttosto enorme. Sono limitato ogni volta dal narratore. Non posso raccontare quello che passa nella testa di terzi se non cambiando del tutto prospettiva. Diventa molto, troppo limitante per i miei gusti.

Così, sono andato a cercare tra i miei romanzi in libreria se avessi qualcosa di ibrido. Niente… Mi metto quindi alla ricerca di una forma alternativa che mi possa dare la sensazione di immediatezza del presente, con la flessibilità della terza persona.

Ecco a voi il narratore limitato in terza persona al presente:

Erik si ferma davanti alla porta.
Il silenzio lo avvolge, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo.
La porta porta ancora i segni di una vita che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Tenta di respirare, ma l’aria gli sembra improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna getta riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Erik serra i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fa un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormora, mentre il respiro gli si spezza in gola.

Scrivete nei commenti quale stile vi piace di più.

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Flavio

L'inverno e le stagioni dell'anima

Siamo animali stagionali. Fino a pochi anni fa, cinquemila, circa, noi uomini sapiens, eravamo schiavi della migrazione, ci spostavamo, da landa a landa, navigavamo la terra con la forza dei nostri piedi, in piccole tribù nomadi, alla ricerca dell'eterna primavera.

Le stagioni sono dentro di noi, sono parte di noi, della vita. É come se la stagionalità fosse una manifestazione del decorso naturale di un'opera d'arte.

Pensateci. Tutto nasce con la primavera, lo sbocciare dei fiori, il nascere dei profumi, la nascita di un amore, di un incontro, della magia.

In estate poi, tutto si scalda, l'amore diventa eros, il conflitto battaglia, la potenza del sole accende la vita, ma la brucia, l'intensità della luce che non solo fa esplodere la natura, ma la punisce.

E poi, dopo che l'intensità del sentire si spegne, le lente vibrazioni dell'autunno emergono dentro di noi. I pensieri sull'estate vissuta, la percezione di qualcosa dentro di noi, l'autunno della vita, l'esistenzialismo, l'umanesimo.

Infine, ed è proprio il caso di dirlo, arriva l'inverno. Quello che a breve incontreremo anche noi. Un momento dove il freddo ferma la natura, i pensieri. Un momento in cui tutto rallenta, in cui la dolce neve degli anni, che cade sui capelli d'argento, ovatta il rumore del mondo, e ci culla, verso l'eterno dormire.

Ma ecco che, sotto la coltre di freddo, di bruma e di neve, un bocciolo è ancora vivo. Non solo, è proprio grazie a questo freddo che è riuscito ad accumulare le energie per sbucare fuori, per tornare a vivere! La primavera è tornata! E tornerà sempre. Noi siamo la vita, e la nostra anima, persino il nostro ciclo artistico, trova in questi quattro movimenti un ordine, un senso.

Ognuno di noi è un vettore autonomo, che si muove, certo, tra le stagioni del mondo, ma che ha, dentro di sé, quelle che chiamo le stagioni dell'anima. E a volte, anzi, il più delle volte, queste stagioni discostano da quelle della natura.

In questi cinquemila anni ci siamo evoluti, abbiamo cominciato a coltivare, siamo diventati sedentari, abbiamo costruito strumenti per creare società sempre più stanziali e forti, e il nostro orizzonte degli eventi (cioè la nostra capacità di vedere il futuro) si è espansa oltre la velocità della luce. Sappiamo addirittura quando andare via dal sistema solare prima che il sole ci inghiotta tutti diventando una gigante rossa (per vostra informazione, sono circa cinque miliardi di anni nel futuro, quindi c'è tempo).

Insomma, siamo diventati autonomi dalla natura, ma ci portiamo ancora dentro questi movimenti atavici, questo sentire il ciclo della vita. Soprattutto chi vive in città (io per primo) non si rende davvero conto di quanto la natura cambi con le stagioni. Abbiamo il condizionatore, i termosifoni, la televisione, internet, la realtà virtuale. Tutte cose che ci permettono di fuggire dal presente, dal momento, dalla finestra sul mondo, quella vera, quella che avete accanto, quella fatta di vetro.

Ogni volta che vado dai miei genitori, in campagna, mi rendo conto di quanto sia importante il contatto con la natura, non tanto per una questione etico-filosofica, morale o politica, no. Per una questione umanista, animista, oserei dire.

Stare a contatto con le stagioni, sentirsi abbracciati da esse ci permette di riallineare il nostro mondo interiore con i cicli naturali del caldo, del freddo, del sole e della luna, dell'inverno, dell'estate. Ci fa tornare alla nostra natura, a quell'equilibrio che in fondo giace in tutti noi, ma che tendiamo a dimenticare, così presi da noi stessi e dal nostro mondo interiore.

Mi piace pensare che l'equilibrio, se mai esistesse, non venga raggiunto attraverso un percorso personale di isolamento, ma attraverso la connessione con ciò che ci circonda. Con le Idee, gli uomini e le donne. La vita, la natura. Esularci da essa, pensare che davvero noi siamo come i chip dei nostri smartphone, è limitare la nostra essenza, la nostra natura. Noi siamo vita, e abbiamo bisogno di vita per sentirci bene. Il vento freddo sulle guance, il suono del mare, la neve tra i palmi delle mani, i piedi immersi nel bagnasciuga di giugno, il calore di un falò, il profumo del carbone sul quale il cibo cuoce.

Insomma, spegniamo il telefono e godiamoci questa fantastica parentesi che ci è stata donata, provando ad allinearci con la natura. Sta arrivando l'inverno? E che inverno sia anche per la nostra anima, così da prepararci alla rinascita che, sicuramente, arriverà!