Parto per la tangente

Mi capita spesso di partire per la tangente, e devo dire che non so se sia il mio più grande difetto o una qualità intrinseca del mio processo.
Sono un ossessivo compulsivo, non mi fermo finché non sono soddisfatto totalmente, oppure talmente esausto che è il mio corpo a impormi la pace.

In queste ultime settimane, per esempio, mi sono addentrato in un territorio a me consono, ma che non frequentavo dai tempi dell’università. Sto sviluppando un app che mi aiuterà in questa impresa editoriale.
Per app intendo strumenti che mi permettono, in poco tempo, di fare analisi dei numeri, oppure servire a voi che mi leggete per trovare il volume giusto della saga giusta, o ancora farvi una domanda che mi aiuta a capire a che punto siete con la lettura (questo piccolo intermezzo che arriva a fine articolo).

Visto che negli ultimi anni mi sono dedicato anima e corpo non solo alla recitazione e alla scrittura, ma anche al marketing, ho deciso che era venuto il tempo di fare le cose sul serio, e di creare una mia suite di strumenti per «facilitarmi» il lavoro.

Mi viene da ridere, perché se forse è vero (forse) che mi faciliteranno il lavoro, è certo che ad oggi mi stanno consumando vivo. Sono almeno due settimane che passo ogni ora del giorno e della notte libera a raffinare, togliere e mettere cose che mi servono.

Da vero ossessivo compulsivo non riesco a resistere alla chiamata di introdurre una nuova cosa, sempre sperando che questa non si riveli un altro labirinto nel quale mi infilo e che mi richiederà dieci volte il tempo pensato.
E, puntualmente, è esattamente questo che mi aspetta.

Ma ora che ho immaginato cosa voglio, che ho salivato all’idea di avere questa nuova possibilità, come posso rinunciarvi?
Impossibile.

E quindi la mia personale scalata all’Everest prende un bivio ancora più rischioso, una diramazione che allunga di nuovo il viaggio.
E poi un’altra.
E un’altra ancora.

Per fortuna tengo bene a mente perché lo sto facendo. Credo che il «perché» sia l’unica domanda salvifica per l’artista. Lo costringe a una frontiera, a un limite che si allinea con la sua anima.

«Perché?»
«Perché scrivo? Perché recito? Perché?»

Perché mi piace comunicare, mi piace emozionare, mi piace vedere e sentire nell’altro un contatto che va oltre la molecola. Qualcosa che si muove nell’etere, nello spazio vuoto tra gli atomi. L’arte.

È per questo che lo faccio. Per esistere e coesistere nel presente con la recitazione e anche altrove, in voi che mi leggete.

Ho accumulato un ritardo di parecchie settimane sulla mia scaletta da scrittore. Dovrei già essere in mezzo alla scrittura del quarto volume del Labirinto della Speranza, ma non ho ancora consegnato il terzo ai beta reader.

In compenso, ho già la scaletta, quindi oso sperare che, arrivato al quarto volume, i personaggi siano ora più a fuoco e mi richiedano meno fatica. È bella, questa fase.

C’è da dire che in questa saga ho usato molto meccanismi narrativi moderni (il flashback, per esempio), che hanno la qualità di permettermi di scoprire il passato dei personaggi e capirne meglio il presente.

E ovviamente, per rendermi la vita facile (come avete capito, è la mia specialità :D), ho deciso che nell’ultimo volume avrò due linee temporali, e il flashback sarà incentrato (per la prima volta) sul protagonista.

Cosa significa?
Che il mio protagonista lo scoprirò davvero, sia nel passato che nel presente, a saga conclusa.

La seconda stesura sarà uno spasso.

Poco ma buono

Ho smesso di postare sui social.
Chi mi segue lo avrà notato: mi sono fatto silenzioso, invisibile.
Posto alcune stories, di tanto in tanto, in cui condivido momenti speciali, il set, la famiglia, la vita.

C’è un motivo dietro a tutto questo, e penso che il diario sia il luogo perfetto per spiegarlo.
A un certo punto, nella vita, bisogna fare delle scelte. Non si può fare tutto.
Il nostro tempo sulla terra è limitato, e i desideri che ci animano invece no.
(Come diceva Einstein, ci sono due cose infinite: l’universo e la stupidità umana. Non sono certo della prima.)

Insomma, io ho la tendenza a voler fare un po’ di tutto.
A essere presente sui social e anche a scrivere un blog, che è un podcast con contenuti profondi.
Ma postare quotidianamente sui social è estenuante, e soprattutto, non valorizza.

La continua esposizione non è per forza un esempio positivo.
Per mille motivi: il primo è che, a un certo punto, non hai più niente da dire.
O dici la stessa cosa in varie salse.
O dici qualcosa che hanno già detto.
O qualcosa che non aveva bisogno di essere detto.

E visto che cerco, qui, in questo nostro giardino privato, di aprire il cuore e l’anima, di mostrarmi per chi sono, con la mia voce, e fare in modo che il mio messaggio sia, per chi mi legge, un conforto, un momento di fuga, un momento anche di riflessione, ho capito che il social network non fa per me.

In realtà già lo sapevo.
Io sono uno di quelli che alle feste se ne sta con la schiena contro il muro, nell’ombra, ad aspettare di poter parlare di qualcosa di interessante con una persona.
Sono timido, schivo e taciturno.
I social non sono il mio ambiente.
La scrittura invece sì.

Per legarmi al titolo dell’articolo: amo il segnale, non il rumore.
Per segnale intendo il contenuto sottostante la forma. L’arte. Il pensiero, il motivo.
Il rumore invece è quello che si fa quando non si ha nulla da dire, ma si sente il bisogno di farlo per avere l’illusione di esistere.

E credo che sia una delle piaghe di questa sovrabbondanza di esposizione.
Ci esaurisce. Sia chi ascolta che chi scrive.

Quante volte ci ritroviamo sui social ad ascoltare le solite cose, che piano piano ci spengono invece di accenderci.
Certo, a volte si trova la perla, ed è per questo che ci torniamo.
Ma la maggior parte delle volte mi annoio.

Allora ho scelto.
Meglio poco ma buono.
Ho l’età giusta.
E soprattutto l’esposizione l’ho già vissuta come attore.

È un discorso che facevo con Paola, (che mi legge il lunedì mattina, sul treno, con un caffè).
Allora mi dico che, in questo futuro che mischia scrittura e recitazione, la relazione perfetta tra me e voi sia proprio questa: il testo, la voce.

Chi mi scrive sui social sa che rispondo spesso.
Un po’ perché sono spesso al computer, un po’ perché la scrittura è un mezzo per me naturale.
E infine perché adoro comunicare con chi mi segue.

Che strano… per uno che ha fatto della voce il suo lavoro, amare così tanto il silenzio.
Ma chi recita lo sa. È dal silenzio che nasce tutto.

Spero che questa ambivalenza continui ad arricchirmi, ad arricchirvi e a darmi la spinta di andare avanti.

Senza il blu

Ai tempi di Omero, non esisteva la parola “blu”.

Quella che può sembrare un aneddoto privo di reale interesse, invece, mi ha aperto una porta creativa.

Immaginate di dover raccontare la storia di un uomo. L’uomo più intelligente di tutti, colui che non usa la forza degli eroi, colui che non è figlio di un dio. Un uomo che, con le sue sole forze limitate e il suo ingegno, è capace di superare ciclopi, maghi e animali mitologici.

Ulisse ha viaggiato per il Mediterraneo per anni, affrontando mille peripezie. E mai una volta, nell’Odissea, viene menzionato il colore “blu”.

Provate a immaginare di raccontare una storia che si svolge in mare e non menzionare mai il suo colore. L’Odissea è questo. E lo trovo un esempio formidabile di come i limiti alla nostra creatività siano imposti da noi stessi.

Se Omero è stato capace di raccontare una storia evitando il suo colore dominante, e non una storia qualsiasi, ma la storia che dà inizio all’umanità che vede se stessa come centrale nel mondo, allora ogni limite, paura o dubbio che possiamo avere sulla nostra creazione è artificiale. Ma superabile.

Può capitare di rimanere bloccati dentro un meccanismo, vuoi per volontà — cioè non siamo disposti a mollare un’idea e forziamo la realtà per farla funzionare — vuoi per richieste esterne. Per esempio, la volte mi pongo domande sull'opera che esulano dall’estetica o dalla tecnica, ma si focalizzano sull’aspetto del mercato o della fattibilità.

Tutti abbiamo paletti e limiti, voluti o imposti.

Il fatto che siamo consapevoli di questi limiti influenza la nostra capacità di superarli. Omero non aveva la parola “blu” e questo non gli ha impedito di scrivere la storia di mare più bella di tutte.

Questo significa che qualsiasi limite vi siate imposti, qualsiasi ostacolo creativo vi troviate ad affrontare, può essere superato semplicemente dimenticandone l’esistenza.

C’è un momento in “The Matrix” in cui un ragazzino piega un cucchiaio con il pensiero. Come fa? Dimentica che è un cucchiaio.

Il primo ostacolo da superare siamo noi.

Certo... esistono ostacoli tangibili, troppo reali per essere ignorati, e questo ci richiede di continuare il nostro percorso di crescita per poterci voltare verso questi ostacoli come il gigante verso la formica.

Ricordo che da bambino certe cose mi sembravano insormontabili, ora non le prendo nemmeno in considerazione.

Ma altre lo sono ancora: il timore di parlare a qualcuno, di chiedere quello che mi spetta, di farmi valere.

Faccio fatica a farmi valere.

Spesso lascio a Eleonora l’onere di andare a “rompere” — che poi è solo chiedere ciò che spetta. Sono fatto così, mi vergogno. Ho il difetto di farmi andare bene le cose, anche quando non dovrebbero essere così.

Forse è una forma di pigrizia: mi faccio andare bene le cose per non dover affrontare quel momento in cui rischio di sembrare antipatico.

Ma non c’è antipatia nel chiedere ciò che è dovuto, no?

Faccio ancora fatica, a 45 anni, ad accettarlo.

Come posso associare il “non blu” della Grecia antica a questo pensiero?

Forse quel desiderio di essere simpatico a tutti i costi è un limite che mi sono imposto. Per superarlo, dovrei trovare il piacere di farmi valere.

Un po’ negli anni sono migliorato, ma ho tanta strada da fare e poco tempo.

Sto concludendo la prima stesura del terzo volume de Il Labirinto della Speranza, ma sono indeciso sulle copertine, sull’approccio… più concettuale o più pittorico? Ancora non lo so. Oscillo tra caldo e freddo, tra forma e sostanza.

Nel chiudere il terzo, immagino già il quarto (era già stata stesa una prima stesura, ma è stata completamente trasformata dall'evoluzione dei personaggi). Più mi avvicino alla fine, più si fa chiaro il cuore della verità, il grande segreto che ho trovato sepolto al centro del labirinto.

Dopo di esso, i miei personaggi non saranno mai più gli stessi, e questo preparerà il terreno per l’ultimo volume: l’ineluttabile scontro finale.

Dalla bozza alla prima stesura

Oggi voglio condividere con voi il mio processo di scrittura.
Come sapete, scrivo saghe. Pentalogie. Cinque volumi, ognuno dei quali rappresenta un atto della mia grande storia.
Questo richiede un profondo ed elaborato lavoro di strutturazione: atto per atto, capitolo per capitolo, scena per scena.

Oggi però voglio mostrarvi il processo che porta dalla bozza «vomito» di una scena alla prima stesura.
Quindi la pagina scritta seguendo le indicazioni della scena.

Una specie di «Prima e Dopo», come nelle pubblicità dei prodotti dimagranti.
Ho scelto, per l’occasione, una scena descrittiva. Esse sono, per quanto mi riguarda, le più difficili, perché rischiano di essere prolisse e noiose.
Il segreto? Dare una personalità a ciò che descrivo e far vivere la sensazione del protagonista al lettore.

Come sempre, l’immedesimazione è centrale.
Vi mostrerò un estratto della bozza e poi della prima stesura.

PS: La prima stesura non è definitiva. Sarà seguita, a fine saga, dalla seconda stesura.
E poi, infine, il tutto passerà all’editing esterno di Antonella Cavuoto, che mi ha seguito nell’Anello di Saturno.

BOZZA:
Erik spinge la porta, che cigola su cardini ossidati. La cucina del castello è immersa in una penombra polverosa. Al centro troneggia un enorme camino annerito, abbastanza grande da arrostire un cervo intero. Pentole e padelle di rame, opache e incrostate, pendono da ganci arrugginiti, come trofei abbandonati. Il pavimento è cosparso di cenere secca e detriti, le mattonelle spaccate dal tempo. Sul tavolo di pietra, un coltello arrugginito giace accanto a una vecchia zuppiera incrinata. Ragnatele spesse come veli pendono dagli angoli del soffitto e si allungano sui mobili. L’odore è una commistione di muffa, legno marcio e legno affumicato. Da lontano, sente gli scricchiolii del legno gonfio di umidità, che sembra spingere sulle pareti di roccia pesante. «Nessuno cucina qui da secoli.», pensa, adocchiando la porta d’ingresso. La supera, infilandosi in un piccolo corridoio stretto e soffocante, e finalmente fuoriesce davanti all’ingresso maestoso.

PRIMA STESURA:
Erik spinge la porta, che cigola sui cardini ossidati. La cucina del castello è immersa in una penombra polverosa, densa come neve. Al centro troneggia un enorme camino annerito, grande abbastanza da arrostire un cervo intero. Ora giace spento, dimenticato come la selvaggina che nei secoli vi è stata divorata. Sui muri, pentole e padelle di rame, opache e incrostate, pendono da ganci arrugginiti come trofei abbandonati. Il pavimento è cosparso di cenere secca, schegge di legno e detriti. Le mattonelle, spezzate dal tempo, sostengono un tavolo di pietra: sopra, un coltello arrugginito giace accanto a una vecchia zuppiera incrinata, come un cimelio dimenticato in un altare domestico. Dalla finestra filtrano nubi scure. In controluce, ragnatele spesse come veli si tendono tra gli infissi. L’odore è un intreccio acre di muffa, legno marcio e fumo spento. Ascolta. Scricchiolii sommessi. Forse il legno gonfio d’umidità, forse presenze invisibili che ancora abitano il luogo. «Nessuno cucina qui da secoli», pensa, fissando la porta che conduce altrove. La attraversa, infilandosi in un corridoio stretto e soffocante. Le mura spesse sembrano stringersi su di lui, come se il castello volesse strangolarlo. Cammina a lungo, finché non emerge nell’ingresso principale: un luogo maestoso, congelato nel tempo.

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Come potete notare, sono passato da una dimensione documentativa e meramente descrittiva, a una dimensione più consona al genere della saga, thriller psicologico. Quindi più simbolica e sensoriale.
Le penombre rafforzano l’immaginazione di chi legge e i dettagli non sono solo «fotografia», ma «atmosfera».

Sono curioso di sapere cosa ne pensate, quindi vi aspetto nei commenti.

Il mare

Il mare, oscuro, luminoso.

Tetro di notte, silenzioso e profondo come un abisso. Traditore, ammaliante.

Il mare che sto vedendo ora Fa mostra della sua potenza con tranquillità.

Onde dalla schiuma bianca, non troppo alte, il giusto perché i bambini possano prenderle, arrotolarsi, mangiare sabbia e sorridere allo sforzo.

Era tra le cose che più mi piacevano, da giovane, a Tellaro.

Prendere le onde. Tornare a casa la sera con la pelle graffiata dalla roccia, esausto, i capelli secchi di sale.

I giorni di mare alto erano quelli in cui ti svegliavi, sentivi gli amici e ti organizzavi per andare a prendere le onde.

Poi, nel pomeriggio uggioso, dopo poche gocce di pioggia calde, tra fiatoni e risate, un gelato.

Il Cucciolone, con le sue barzellette che non facevano ridere. Così ho scoperto il Cinquestelle. Un Cornetto al croccantino che, lo ammetto, ancora adoro.

Il mare, oggi, sulla spiaggia di Fregene ospita surfisti che aspettano onde troppo minute per le loro intenzioni. Il vento, dolce, riscaldato da un sole che sembra nascondersi dietro quel fresco solo per arrossarmi la pelle, è forte di un’energia salina e sahariana al contempo.

Le nuvole.

Illusione di forma e movimento. Immobili se le fissi, cangianti se cambi lo sguardo e torni da loro dopo un attimo. Sono altre.

Come gli uomini.

Spesso ci rendiamo conto delle differenze - del tempo e dell’età - solo quando lo spazio che ci distanzia da coloro che ci circondano aumenta.

Poi torniamo, e ci rendiamo conto di un neo, di una ruga, di una nuova parola, di un altro pensiero.

Siamo come le nuvole.

Fatti d’acqua di mare, ma privati della costanza immortale dell’oceano, perso a far l’amore con la terra. A volte dolce, a volte violento.

Una relazione che regge al tempo, la loro.

I Greci, nei miti di origine, avevano Urano e Gaia: il sole, il cielo, la terra, il mare.

Essi sono i motori della nostra esistenza. Decidono del vento, delle piogge, del nostro umore e desideri.

Cerco tra le nuvole una forma che richiami qualcosa.

Un effetto che si chiama «pareidolia».

Ma non vedo nulla.

Sono più attratto dalla pagina, dalle parole, dal desiderio di scavare attraverso il flusso, e trovare una pepita di pensiero, una nuova piuma da mettere al cappello.

Eccola!

Un volto di profilo. La bocca aperta, un naso.

Ecco che ora mi sono evidenti i movimenti delle nuvole attorno.

Perché vorrei che non cambiassero, ora che le ho fissate in qualcosa che riconosco.

Ora che tutto ha finalmente un senso.

Ma il naso, sparisce.

La bocca si è chiusa.

La nuvola è tornata nuvola.

Non importa, ne troverò un’altra.

Il paradiso degli attori

Fare l’attore… cosa vuol dire? Che strano mestiere, no?

Faccio finta di professione. Sono un esperto manipolatore dell’emozione oppure un sincero espositore della mia intimità?

Come diceva così bene Gassman: «L’attore è una via di mezzo tra un sacerdote e una puttana.»

Quando lo dissi a Greenaway, in uno dei nostri viaggi promozionali per il suo film in Italia, la citazione gli piacque molto. Scoppiò addirittura a ridere, quasi cedendo il suo aplomb inglese.

Ma c’è un fondo di verità in questa boutade.

L’attore dona il proprio corpo, come una meretrice, al prossimo personaggio, alla scena, al pubblico.

Esegue un atto, usando come mezzo il proprio corpo. A volte d’amore, a volte d’odio, a volte di semplice quotidianità.

Ma è pur sempre un atto in cui doniamo noi stessi.

Poi, la scena, la recitazione, il gesto, hanno una loro sacralità, qualcosa di profondamente umano, misterioso ed empatico.

Qualcosa che ha a che fare con il rito, con la magia dell’arte. E quindi sì, la citazione è corretta.

Ma recitare vuol dire anche tante altre cose.

Oggi mi sono svegliato alle 06:20, per poter essere sul set alle 07:00, pronto per vestirmi, farmi truccare e pettinare.

Che per un uomo è piuttosto veloce, ma essendo negli anni ’60, il mio nuovo baffo ha bisogno di essere sistemato e i miei capelli spesso tagliati quel poco che basta per mantenere una perfetta pulizia.

Poi, dopo un caffè ed essermi vestito di tutto punto, mi preparo le scene della giornata. Le rileggo.

A volte ripasso a memoria. Ma sono come quegli studenti che non studiano il giorno prima dell’esame.

Mi piace prepararmi con largo anticipo. La memoria è un tassello fondamentale della recitazione.

Essa deve essere come un muscolo: istintiva, priva di ogni passaggio razionale.

La memoria non deve essere ricordata dalla mente, ma dal corpo.

E così, con in testa tutte le scene del giorno (a volte possono anche essere 9 scene da 4 pagine l’una, quindi uno sforzo considerevole da un punto di vista mnemonico), parto per il set, per procedere all’atto della recitazione.

Sul set, si salutano il regista, la segretaria di edizione (colei che verifica che tutto sia in continuità), poi la troupe, i tecnici.

Un bicchiere d’acqua e via, si parte.

A quel punto, non bisogna perdere la concentrazione.

Io sono uno di quegli attori che, per non perderla, scherza.

Mi piace far ridere, giocare, mantenere quella leggerezza bambinesca.

Ma questo richiede di essersi ben preparati prima, e non tutti hanno lo stesso metodo.

Quindi bisogna stare all’occhio e non disturbare troppo il proprio partner.

Uno dei grandi segreti della recitazione, che poche scuole vi diranno, è che il talento di un attore si vede anche nella sua capacità di stabilire un’alchimia con gli altri attori con cui recita. Fondamentale.

E così, una scena dopo l’altra, arriva la pausa.

Io faccio il digiuno intermittente, a modo mio — in sostanza, non pranzo.

Quindi, con la mia bottiglia d’acqua, mi metto in camerino e indovinate cosa faccio… scrivo 🙂

Scrivo fino a che non viene qualcuno a bussare per dirmi che «sono pronti e mi aspettano».

Il pomeriggio si svolge con la stessa energia, lo stesso entusiasmo.

E poi, verso le 18, mi cambio, torno «l’uomo dal solito tempo» e vado a casa, dove mi aspettano spesso Eleonora ed Elettra.

Cucino io, quindi quando arrivo «mi tocca».

Ma in realtà è una buona occasione per stare con loro, per chiedere cosa vogliono, e renderle felici.

E poi, dopo cena, mi ritaglio un altro paio d’ore per scrivere o occuparmi del sito, o del marketing — insomma, di tutte le imprese a lato che affronto, come sapete, con lo stesso entusiasmo della recitazione.

Ecco, questa è una giornata nella vita di un attore.

Una di quelle che lo colmano di gratitudine.

Spoiler: Non aprite!

Da: «Il labirinto della speranza, vol.3»

L’aria di Cles è umida. Nel cielo, tracce di nuvole grigie hanno cancellato il candore degli ultimi giorni. Sembra avvicinarsi una tempesta. Un vento freddo accompagna Erik mentre avanza sulla ghiaia del cimitero, due rose in mano. Chiude il cancello alle sue spalle, quasi a ritagliarsi un momento di assoluta solitudine.
Fa un passo avanti. E guarda. Le tombe, le lapidi, le croci.
I nomi.
Sono tutti lì. «Chissà se stanno guardando.»
Alza gli occhi al cielo. Poi scende a terra e si perde nel vuoto.
«Alice…»
Un crampo gli stringe l’addome.
«Lea…»
«Quanti anni avrebbe adesso? Sarebbe già grande… Sarebbe andata via.» le lacrime gli scendono senza che nemmeno se ne accorga. «Cosa fanno le ragazze di sedici anni al giorno d’oggi?»
«Cosa fanno?» chiede con un filo di voce alla platea di anime che ascoltano in silenzio. Una lacrima scivola lungo la narice. Un’altra s’infila nell’angolo della bocca.
Il naso cola; si asciuga sulla barba ispida.
«Cosa fanno le ragazze di quindi anni al giorno d’oggi… Vorrei tanto saperlo.»
Singhiozza. Non ci riesce ad andare avanti. Gli manca l’aria.
Dovrebbe uscire, ma non vuole. Il suo posto è qui.
Respira.
Cerca un briciolo di forza per andare avanti. Si asciuga le lacrime. Sente di nuovo dolore. Una pressione nel petto. La testa gira, manca l’ossigeno. Si appoggia al muro.

Aspetta.

Fermo, immobile.

Una tirata di naso. Le ultime lacrime vengono spazzate via dal polso. Rimane il sapore di sale tra i peli.

«Dopo aver pianto si vede sempre meglio», pensa. «È come dopo la tempesta. Quando torna il sole, l’aria è cristallina, come un giorno nuovo.»

Cammina verso la tomba di Alice e Lea. Posa due rose.
Una rossa e una rosa. Una grande e una piccola.
Si trattiene.
Non riesce.
La mano sulla fronte, chiude gli occhi, piega la nuca come a nascondersi dal dolore del mondo.
Ma il dolore è dentro, e dentro non c’è via di fuga; è un labirinto chiuso, un cerchio senza uscita.
«Hey.. ciao.» sussurra un pensiero che si fa voce. «Qui è un casino… immagino lo sappiate già, con tutta la gente che vi arriva dall’altra parte. È morto anche un amico. Chissà… non capisco perché qualcuno voglia togliersi la vita. Perché? SaiJanda sembrava così a suo agio qui. Sorrideva sempre. Sorrideva anche da morto. Forse è così che si fa: si sorride fino alla fine, e poi si resta felici per sempre.»

«Dai, ciao. Ci si vede eh.»

Aspetta il solito segno che non è mai arrivato. O forse, pensa, che non ha mai realmente cercato.
Silenzio.
Solo un pò di vento e nessuno.
Erik sorride a se stesso. All’ingenuità.
S’incammina di nuovo sulla ghiaia, ma quando afferra la maniglia di ferro del cancello un tuono lontano rompe l’aria.
Erik lo guarda; nei suoi occhi, un lampo di speranza.
Il telefono vibra. Un messaggio.

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Erik cerca di riprendersi dall’assurdità del momento.
Nella solitudine, fisso su quello schermo paradossale, osserva il messaggio della sua palestra milanese. Non ricordava nemmeno di essere abbonato.
Sorride.
Esce dal cimitero e ne approfitta per scrivere ad Aurora.

«Tutto ok? Sto tornando.»

Nessuna risposta. Erik stringe le chiavi della macchina, guarda l’ora, è ancora in tempo per portarla in stazione, pensa.
Poi, un pensiero si libera.
Un sentore nuovo,
Un dispiacere sottile per la partenza della ragazza.
Un desiderio di rimanere,
Di stare.


Il testo è in primissima stesura, potrebbe sparire, cambiare, diventare una poesia in versi o una ricetta di cucina 🙂

Ovviamente, se vi è piaciuto, sentitevi libere e liberi di condividerlo. Magari conoscete lettori impazienti di masticare un po di parole.

Spoiler: Non aprite!

From: "The Labyrinth of Hope, vol.3"

The air in Cles is humid. In the sky, traces of gray clouds have erased the whiteness of recent days. A storm seems to be approaching. A cold wind accompanies Erik as he strides over the gravel of the cemetery, two roses in his hand. He closes the gate behind him, as if to carve out a moment of absolute solitude.
He takes a step forward. And looks. The graves, the headstones, the crosses.
The names.
They are all there. "I wonder if they're watching."
He looks up. Then he drops to the ground and is lost in the void.
"Alice..."
A cramp tightens in his abdomen.
"Lea..."
"How old would she be now? She'd be grown up by now--she'd be gone." tears roll down his face without him even noticing. "What do 16-year-old girls do nowadays?"
"What do they do?" he asks in a hushed voice to the audience of souls listening in silence. A tear slides down her nostril. Another slips into the corner of the mouth.
The nose runs; it dries on the shaggy beard.
"What so-and-so girls do nowadays -- I wish I knew."
She sobs. He can't go on. He runs out of air.
He should go outside, but he doesn't want to. He belongs here.
He breathes.
He looks for an ounce of strength to go on. He wipes away his tears. He feels pain again. A pressure in his chest. His head spins, lacking oxygen. She leans against the wall.

He waits.

Still, motionless.

A pull of the nose. The last tears are swept away by the pulse. The taste of salt remains in the hairs.

"After crying you always see better," he thinks. "It's like after the storm. When the sun comes back, the air is crystal clear, like a new day."

She walks to Alice and Lea's grave. She lays two roses.
One red and one rose. A big one and a small one.
She holds herself back.
She fails.
Her hand on her forehead, she closes her eyes, bends the back of her head as if to hide from the pain of the world.
But the pain is inside, and inside there is no escape; it is a closed labyrinth, a circle with no exit.
"Hey ... hello." whispers a thought that becomes a voice. "It's a mess here-I guess you already know, with all the people coming at you from the other side. A friend died, too. Who knows ... I don't understand why anyone would want to take their own life. Why? SaiJanda seemed so comfortable here. He was always smiling. He smiled even when he was dead. Maybe that's how you do it: you smile until the end, and then you stay happy forever."

"Come on, bye. See you eh."

He waits for the usual sign that never came. Or maybe, he thinks, that he never really looked for.
Silence.
Just a little wind and no one.
Erik smiles to himself. At naiveté.
He walks back out onto the gravel, but as he grasps the iron handle of the gate a distant thunder breaks the air.
Erik looks at him; in his eyes, a flash of hope.
The phone vibrates. A message.

"Hello [Name], we haven't seen you in EnerGym for 3 months 💪
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Erik tries to recover from the absurdity of the moment.
In the solitude, fixed on that paradoxical screen, he watches the message from his Milan gym. He did not even remember that he was a subscriber.
He smiles.
He leaves the cemetery and takes the opportunity to write to Aurora.

"Everything okay? I'm on my way back."

No response. Erik clutches the car keys, looks at the time, there is still time to take her to the station, he thinks.
Then, a thought breaks free.
A new inkling,
A subtle regret at the girl's departure.
A desire to stay,
To stay.


The text is in very early draft, it could disappear, change, become a verse poem or a cooking recipe 🙂

Of course, if you liked it, feel free and free to share it. Maybe you know readers eager to chew on some words.

Spoiler : Non aprite !

Extrait de : "Le labyrinthe de l'espoir, vol. 3"

L'air de Clès est humide. Dans le ciel, des traces de nuages gris ont effacé la blancheur des derniers jours. Un orage semble s'approcher. Un vent froid accompagne Erik qui marche sur les graviers du cimetière, deux roses à la main. Il referme la grille derrière lui, comme pour se ménager un moment de solitude absolue.
Il fait un pas en avant. Et regarde. Les tombes, les pierres tombales, les croix.
Les noms.
Ils sont tous là. "Je me demande s'ils nous observent."
Il lève les yeux vers le ciel. Puis il se laisse tomber au sol et se perd dans le vide.
"Alice..
Une crampe se resserre dans son abdomen.
"Léa..."
"Quel âge aurait-elle maintenant ? Elle serait adulte maintenant... Elle serait partie." Des larmes coulent sur son visage sans qu'il s'en aperçoive. "Que font les filles de seize ans de nos jours ?"
"Qu'est-ce qu'elles font ?" demande-t-il à voix basse aux âmes qui l'écoutent en silence. Une larme glisse le long de sa narine. Une autre se glisse au coin de la bouche.
Le nez coule ; il sèche sur la barbe hirsute.
"Ce que font les filles d'untel ou d'untel de nos jours... J'aimerais bien le savoir."
Elle sanglote. Il n'en peut plus. Il manque d'air.
Il devrait sortir, mais il ne veut pas. Sa place est ici.
Il respire.
Il cherche une once de force pour continuer. Il essuie ses larmes. Il ressent à nouveau une douleur. Une pression dans la poitrine. Sa tête tourne, manquant d'oxygène. Il s'appuie contre le mur.

Il attend.

Immobile, sans bouger.

Un reniflement. Les dernières larmes sont balayées de son poignet. Le goût du sel reste dans les poils.

après avoir pleuré, on voit toujours mieux, pense-t-il. c'est comme après l'orage. Quand le soleil revient, l'air est clair comme du cristal, comme un nouveau jour"

Il se rend sur la tombe d'Alice et de Léa. Elle dépose deux roses.
Une rouge et une rose. Une grande et une petite.
Il se retient.
Elle échoue.
La main sur le front, elle ferme les yeux, plie la nuque comme pour se cacher de la douleur du monde.
Mais la douleur est à l'intérieur, et à l'intérieur il n'y a pas d'échappatoire, c'est un labyrinthe fermé, un cercle sans sortie.
"Hé... bonjour", murmure une pensée qui devient une voix. "C'est le bordel ici... Je suppose que tu le sais déjà, avec tous les gens qui viennent vers toi de l'autre côté. Un ami est mort aussi. Qui sait... Je ne comprends pas pourquoi quelqu'un voudrait s'enlever la vie. Pourquoi ? SaiJanda semblait si à l'aise ici. Il souriait toujours. Il souriait même quand il était mort. Peut-être que c'est comme ça qu'on fait : on sourit jusqu'à la fin, et on reste heureux pour toujours."

"Allez, salut. À plus tard."

Il attend le signe habituel qui ne vient pas. Ou peut-être, pense-t-il, qu'il n'a jamais vraiment cherché.
Le silence.
Juste un peu de vent et personne.
Erik se sourit à lui-même. De sa naïveté.
Il retourne sur le gravier, mais au moment où il saisit la poignée en fer du portail, un tonnerre lointain déchire l'air.
Erik le regarde ; dans ses yeux, un éclair d'espoir.
Le téléphone vibre. Un message.

"Bonjour [Nom], cela fait trois mois que nous ne vous avons pas vu à EnerGym 💪
Nous vous offrons un cours gratuit avec un entraîneur pour repartir ensemble !
Réservez ici 👉"

Erik tente de se remettre de l'absurdité du moment.
Dans la solitude, le regard fixé sur cet écran paradoxal, il regarde le message de sa salle de sport milanaise. Il ne se souvient même pas d'être abonné.
Il sourit.
Il quitte le cimetière et en profite pour écrire à Aurora.

"Tout va bien ? Je suis sur le chemin du retour."

Pas de réponse. Erik serre les clés de la voiture, regarde l'heure, il a encore le temps de l'emmener à la gare, pense-t-il.
Puis, une pensée se libère.
Un nouveau pressentiment,
Un regret subtil du départ de la jeune fille.
Une envie de rester,
De rester.


Le texte est à l'état d'ébauche, il peut disparaître, changer, devenir un poème en vers ou une recette de cuisine 🙂

Bien sûr, si vous l'avez aimé, n'hésitez pas à le partager. Peut-être connaissez-vous des lecteurs désireux de mâcher quelques mots.

Spoiler: ¡Non aprite!

De: "El Laberinto de la Esperanza, vol. 3"

El aire en Cles es húmedo. En el cielo, rastros de nubes grises han borrado la blancura de los últimos días. Parece que se acerca una tormenta. Un viento frío acompaña a Erik mientras camina por la grava del cementerio, con dos rosas en la mano. Cierra la verja tras de sí, como si quisiera labrarse un momento de absoluta soledad.
Da un paso adelante. Y mira. Las tumbas, las lápidas, las cruces.
Los nombres.
Están todos allí. "Me pregunto si estarán mirando"
Levanta los ojos al cielo. Luego cae al suelo y se pierde en el vacío.
"Alice..."
Un calambre le aprieta el abdomen.
"Lea..."
"¿Qué edad tendría ahora? Ya habría crecido... Se habría ido". Las lágrimas corren por su rostro sin que él se dé cuenta. "¿Qué hacen las chicas de dieciséis años hoy en día?"
"¿Qué hacen?", pregunta en voz baja a la audiencia de almas que escuchan en silencio. Una lágrima resbala por su orificio nasal. Otra se desliza por la comisura de los labios.
La nariz gotea; se seca sobre la barba desgreñada.
"Lo que hacen las chicas de hoy en día... Ojalá lo supiera"
Solloza. No puede seguir. Se queda sin aire.
Debería salir, pero no quiere. Su sitio está aquí.
Respira.
Busca una pizca de fuerza para seguir. Se seca las lágrimas. Vuelve a sentir dolor. Una presión en el pecho. La cabeza le da vueltas, le falta oxígeno. Se apoya en la pared.

Espera.

Quieto, inmóvil.

Un resoplido. Las últimas lágrimas son barridas de su muñeca. El sabor a sal permanece en sus cabellos.

después de llorar siempre se ve mejor', piensa. es como después de la tormenta. Cuando vuelve el sol, el aire es cristalino, como un nuevo día"

Camina hacia la tumba de Alice y Lea. Deposita dos rosas.
Una roja y otra rosa. Una grande y otra pequeña.
Se contiene.
Falla.
Con la mano en la frente, cierra los ojos, dobla la nuca como si quisiera esconderse del dolor del mundo.
Pero el dolor está dentro, y dentro no hay escapatoria; es un laberinto cerrado, un círculo sin salida.
"Eh... hola." susurra un pensamiento que se convierte en voz. "Esto es un lío... supongo que ya lo sabes, con toda la gente que se te viene encima desde el otro lado. También murió un amigo. Quién sabe... No entiendo por qué alguien querría quitarse la vida. ¿Por qué? SaiJanda parecía tan cómodo aquí. Siempre estaba sonriendo. Sonreía incluso cuando estaba muerto. Tal vez así es como lo haces: sonríes hasta el final, y entonces te mantienes feliz para siempre."

"Vamos, adiós. Nos vemos eh."

Espera la señal habitual que nunca llegó. O quizás, piensa, que en realidad nunca buscó.
Silencio.
Sólo un poco de viento y nadie.
Erik sonríe para sí. De ingenuidad.
Vuelve a la grava, pero cuando agarra la manilla de hierro de la verja, un trueno lejano rompe el aire.
Erik lo mira; en sus ojos, un destello de esperanza.
El teléfono vibra. Un mensaje.

"Hola [Nombre], hace tres meses que no te vemos en EnerGym 💪
¡Te ofrecemos una clase gratis con un entrenador para empezar de nuevo juntos!
Reserva aquí 👉"

Erik intenta recuperarse de lo absurdo del momento.
En la soledad, mirando fijamente esa paradójica pantalla, observa el mensaje de su gimnasio de Milán. Ni siquiera recuerda haber sido abonado.
Sonríe.
Sale del cementerio y aprovecha para escribir a Aurora.

"¿Todo bien? Estoy volviendo"

No hay respuesta. Erik agarra las llaves del coche, mira la hora, aún hay tiempo para llevarla a la estación, piensa.
Entonces, un pensamiento se libera.
Un nuevo indicio,
Un sutil pesar por la partida de la chica.
Un deseo de quedarse,
De quedarse.


El texto está en un borrador muy temprano, podría desaparecer, cambiar, convertirse en un poema en verso o en una receta de cocina 🙂

Por supuesto, si te ha gustado, no dudes en compartirlo. Quizá conozcas lectores deseosos de masticar algunas palabras.

Senzatetto

Ancorato al passato
Proiettato nel futuro.
Ogni volta assillato
Da una noia assassina.
"Solitudine" è il male
E la vita è medicina.
"Abitudine" il virus
Che ti porta alla follia.
Pensi troppo, vivi poco
Senti solo le parole.
Quelle sì che sono tante,
Ma la vita
È una sola.

Sintropia

Il pensiero, affilato come lama
Taglia frontiere di cemento
Cuce distanze, come il vento
Piega i sensi e le montagne
Poi come il fumo, vola via
Lentamente, nella mente, assente,
Si dissolve in un ricordo,
In un eco, poi genetico.
Nell'erba, nella polvere, nelle stelle.

Piccolo

Delle ombre passano
Sopra la mia caverna,
Che non ha pareti come confini
Ma solo paure come burroni.
E si mescola la mia mente
Traccia linee casuali
Che disegnano solo
Ciò che l'io, solo, suppone.
Mentre tra i granelli di sabbia
Tra la schiuma e la spiaggia
C'è una vita arenata
Nelle onde del mare.

Splendente

Vivi d'immediati istinti presenti,
D'espedienti di niente,
D'ardori vivi e cuore di cristallo.
E quando l'anima quieta
Il buio infine abbraccia,
Degli abissi
Sii splendida lucciola.

Nunc

Come una scintilla
Negli abissi del mare
Siamo l'attimo vivo
Tra le erbacce del tempo.
L'urlo non udito
Il pugno mai sferrato,
Che infrange gli specchi
E sfonda porte aperte.
Mai come ora,
Brucia, il presente.

Phoenix

Io, Sole, brucio.
E come una Fenice
Rinasco dalle ceneri.
Fino a che sarò
Polvere di stelle.

SenzaNord

Nel caso tornassi
Semino pensieri luminosi
Tra le mura buie
Di questo labirinto di scelte.
E sento,
Sopra arcobaleni lastricati di cemento,
Che in questo cimitero di lucciole
Non tornerò.

Felice, ma insoddisfatto

Oggi, girovagando tra le pagine dei miei libri, ho letto questa frase: «Morirai senza aver raggiunto il tuo ultimo obiettivo.»

All'inizio ho pensato «Ma anche no!» Ma poi, soffermandomi un istante, mi sono reso conto che è così, perché so che continuerò a inseguire quell’orizzonte lontano e, a ogni traguardo raggiunto, ne nascerà un altro, più distante, più importante che mi attirerà, di nuovo, come una calamita.

Sono fatto così.

Questo pensiero ha fatto riemergere in me la consapevolezza antica che spesso mi concentro troppo sull’obiettivo, sulla vetta da raggiungere, invece che sul presente. E spesso sacrifico la mia felicità, dedicandomi esclusivamente sul raggiungimento di quello scopo, invece che godere del sorriso di mia figlia, del profumo di soffritto, del calore del sole in faccia.

Crescendo, ho imparato che, più che la destinazione, conta il viaggio.

E più del viaggio, la compagnia.

È una rotta di consapevolezza la cui traiettoria punta... al presente. Perché cos’è il viaggio se non un momento di transizione tra passato e futuro? E cos’è «la compagnia» se non la somma degli istanti presenti di questo viaggio?

La felicità è uno stato dell’essere, come la solitudine. Non c'entra con la soddisfazione. Difatti, possiamo sentirci soli in mezzo alla folla e infelici in un presente in cui abbiamo tutto.

Come fare, allora, a non confondere felicità e soddisfazione?
Con la semplice consapevolezza che la felicità non risiede nel successo, ma nel presente.

Possiamo essere felici e insoddisfatti. Mi spingerei a dire che dobbiamo esserlo.

Questo creato nel quale viviamo non è un’equazione risolvibile, ma un mistero con il quale convivere, una variabile costante nel suo essere imperscrutabile. Dobbiamo prendere atto della sua irrisolvibilità, e questo ci aiuta a spostare il peso dell'esistenza sul presente

Uno dei personaggi de Il Labirinto della Speranza, il protagonista, Erik, si trova a confrontarsi con «SaiJanda», un guru indiano, proprio davanti a questa questione.
E non è la prima volta che mi succede come autore.
Kato, ne La Divina Avventura, è anche lui «affetto» da questo esistenzialismo, da questa ricerca di senso.

In realtà, chi mi conosce sa bene che amo nuotare nell’oceano aperto, alimentando il ragionamento, la discussione, il pensiero creativo. Tenere accesa la scintilla girando come una trottola.
Perché la bellezza è proprio lì, nella ricerca.

«Morì felice, ma insoddisfatto».

Si, non sarebbe poi tanto male come epitaffio.

Happy, but dissatisfied

Today, wandering through the pages of my books, I read this sentence, "You will die without having achieved your ultimate goal."

At first I thought, "But then again, no!" But then, as I paused for a moment, I realized that it is so, because I know that I will keep chasing that distant horizon and, with each goal achieved, another, more distant, more important goal will arise that will draw me, again, like a magnet.

That's the way I am.

This thought resurrected in me the ancient awareness that I often focus too much on the goal, on the summit to be reached, instead of on the present. And I often sacrifice my happiness, devoting myself solely on achieving that goal, instead of enjoying my daughter's smile, the smell of soffritto, the warmth of the sun on my face.

Growing up, I learned that more than the destination, the journey matters.

And more than the journey, the companionship.

It is a course of awareness whose trajectory points -- to the present. For what is the journey if not a moment of transition between past and future? And what is "companionship" if not the sum of the present instants of this journey?

Happiness is a state of being, like loneliness. It has nothing to do with contentment. In fact, we can feel lonely in a crowd and unhappy in a present in which we have everything.

How, then, not to confuse happiness and contentment?
By the simple realization that happiness does not lie in success, but in the present.

We can be happy and dissatisfied. I would go so far as to say that we must be.

This creation in which we live is not a solvable equation, but a mystery to live with, a constant variable in its inscrutable being. We must take note of its unsolvability, and this helps us shift the weight of existence to the present

One of the characters in The Labyrinth of Hope, the main character, Erik, is confronted by "SaiJanda," an Indian guru, with this very question.
And this is not the first time this has happened to me as an author.
Kato, in The Divine Adventure, is also "affected" by this existentialism, this search for meaning.

Actually, those who know me know that I love to swim in the open ocean, fueling reasoning, discussion, creative thinking. Keeping the spark lit by spinning like a top.
Because the beauty is right there in the search.

"He died happy, but dissatisfied."

Yes, that wouldn't be such a bad epitaph.

Heureux, mais insatisfait

Aujourd'hui, en parcourant les pages de mes livres, j'ai lu cette phrase : "Vous mourrez sans avoir atteint votre but ultime"

J'ai d'abord pensé : "Mais aussi non !" Et puis, en m'arrêtant un instant, j'ai compris que c'était le cas, parce que je sais que je vais continuer à courir après cet horizon lointain et qu'à chaque objectif atteint, un autre, plus lointain, plus important, surgira et m'attirera, à nouveau, comme un aimant.

C'est ainsi que je suis.

Cette pensée a fait resurgir en moi l'ancienne conscience que je me concentre souvent trop sur le but, sur le sommet à atteindre, au lieu de me concentrer sur le présent. Et je sacrifie souvent mon bonheur, en me consacrant exclusivement à la réalisation de cet objectif, au lieu de profiter du sourire de ma fille, de l'odeur du soffritto, de la chaleur du soleil sur mon visage.

En grandissant, j'ai appris que plus que la destination, c'est le voyage qui compte.

Et plus que le voyage, la compagnie.

C'est un parcours de conscience dont la trajectoire pointe... vers le présent. Car qu'est-ce que le voyage si ce n'est un moment de transition entre le passé et le futur ? Et qu'est-ce que la "compagnie" si ce n'est la somme des moments présents de ce voyage ?

Le bonheur est un état d'être, comme la solitude. Il n'a rien à voir avec le contentement. En effet, on peut se sentir seul dans une foule et malheureux dans un présent où l'on a tout.

Comment, alors, ne pas confondre bonheur et contentement ?
En réalisant simplement que le bonheur ne réside pas dans la réussite, mais dans le présent.

On peut être heureux et insatisfait. Je dirais même que nous devons l'être.

Cette création dans laquelle nous vivons n'est pas une équation que l'on peut résoudre, mais un mystère avec lequel nous devons vivre, une variable constante dans son impénétrabilité. Nous devons prendre acte de son caractère insoluble, ce qui nous aide à déplacer le poids de l'existence sur le présent

L'un des personnages du Labyrinthe de l'espoir, le protagoniste Erik, est confronté à cette question par "SaiJanda", un gourou indien.
Et ce n'est pas la première fois que cela m'arrive en tant qu'auteur.
Kato, dans The Divine Adventure, est également "touché" par cet existentialisme, cette quête de sens.

En fait, ceux qui me connaissent bien savent que j'aime nager en pleine mer, nourrir le raisonnement, la discussion, la pensée créative. Entretenir l'étincelle en tournant comme une toupie.
Parce que la beauté est là, dans la recherche.

"Il est mort heureux, mais insatisfait.

Oui, ce ne serait pas une si mauvaise épitaphe.

Feliz, pero insatisfecho

Hoy, paseando por las páginas de mis libros, he leído esta frase: "Morirás sin haber alcanzado tu objetivo final"

Al principio pensé: "¡Pero tampoco!" Pero luego, al detenerme un momento, me he dado cuenta de que es así, porque sé que seguiré persiguiendo ese horizonte lejano y, con cada meta alcanzada, surgirá otra más lejana, más importante, que me atraerá, de nuevo, como un imán.

Así soy yo.

Este pensamiento ha resucitado en mí la antigua conciencia de que a menudo me centro demasiado en la meta, en la cumbre a alcanzar, en lugar de en el presente. Y a menudo sacrifico mi felicidad, dedicándome exclusivamente a alcanzar esa meta, en lugar de disfrutar de la sonrisa de mi hija, del olor a soffritto, del calor del sol en mi cara.

Al crecer, aprendí que más que el destino, lo que cuenta es el viaje.

Y más que el viaje, la compañía.

Es una ruta de conciencia cuya trayectoria apunta... al presente. Porque, ¿qué es el viaje sino un momento de transición entre el pasado y el futuro? ¿Y qué es la "compañía" sino la suma de los momentos presentes de este viaje?

La felicidad es un estado del ser, como la soledad. No tiene nada que ver con la satisfacción. De hecho, podemos sentirnos solos en una multitud e infelices en un presente en el que lo tenemos todo.

¿Cómo no confundir felicidad y satisfacción?
Simplemente comprendiendo que la felicidad no reside en el éxito, sino en el presente.

Podemos ser felices e insatisfechos. Me atrevería a decir que debemos serlo.

Esta creación en la que vivimos no es una ecuación resoluble, sino un misterio con el que tenemos que convivir, una variable constante en su inescrutabilidad. Debemos tomar nota de su insolubilidad, y esto nos ayuda a trasladar el peso de la existencia al presente..."

Uno de los personajes de El laberinto de la esperanza, el protagonista, Erik, es confrontado por "SaiJanda", un gurú indio, con esta misma pregunta.
Y no es la primera vez que me ocurre como autor.
Kato, en La aventura divina, también se ve "afectado" por este existencialismo, esta búsqueda de sentido.

En realidad, quienes me conocen bien saben que me encanta nadar en mar abierto, alimentando el razonamiento, la discusión, el pensamiento creativo. Mantener la chispa encendida girando como una peonza.
Porque la belleza está ahí, en la búsqueda.

"Murió feliz, pero insatisfecho".

Sí, no sería tan mal epitafio.

Seeing the invisible

The first time I went to Lucca Comics was for Genovese's film "Superheroes."
I was not familiar with it.

I was supposed to shoot a scene in the Lucca Comics, a giant fair of comics, manga and now video games: The places where you see otaku, Naruto, Ero Sennin, Dragon Ball.

In short, that was where I was shooting the scene.

While real cartoonists were signing copies in front of me, I was behind them, and I was lucky enough to see what they do while they are waiting to sign another copy: they draw. They have their notepads, and they draw.

The amazing thing was when the author in front of me opened his notebook and stopped on a page.
It was an anatomy.
I don't remember what part of the body, but it was not comic book style. But classical.

My untrained eye was amazed at the detail of the drawing. Crazy precision with the pencil. I could feel the fine texture of the muscles, the veins. But he drew on it.

My first reaction was to think, "No way, what are you doing! You're crazy! You risk ruining everything. It's the classic mistake: one continues when one should stop!"

But then-I was making the film. So, from time to time, I had to see if in the midst of the total chaos of Lucca Comics anyone needed me.

I didn't tell you this, but the set-which is a mess in itself-if you put it in the middle of a national fair full of other creatives, it comes out fireworks.

I mean, I look around, I'm still free, and I go back to the author to see what a mess he made.
He was still drawing on the sketch from earlier.
He was covering it with his shoulder, so I couldn't see well.

Then he stepped back for a moment and, leaning his back on the chair, allowed me to see his drawing well.

It was better than before. Even more detail, even more truth.

And he continued.
He continued.

Art, technique, is a magnifying glass on reality. Those who use it, who practice it, see hairs in eggs, break stones with thought, have a superpower.

That of moving forward.

There comes a time, I think for everyone, when we choose a path. Different from the one everyone has thought for us. Even different from the one we have always thought of.

In that moment, maybe a compass is the answer to that question, "Does this choice allow me to be able to draw reality better?"

Just like that cartoonist who improved from stroke to stroke, having the ability to return once, ten times, a thousand times to a stroke,
a word,
an expression,
a tone,
a note.

Until our whole life is but
a note,
a tone,
an expression,
a word,
a stroke.
A mark.

Voir l'invisible

La première fois que je suis allé à Lucca Comics, c'était pour le film de Genovese "Superheroes".
Je ne le savais pas.

Je devais tourner une scène au Lucca Comics, une gigantesque foire aux bandes dessinées, aux mangas et maintenant aux jeux vidéo : les endroits où l'on voit les otaku, Naruto, Ero Sennin, Dragon Ball.

Bref, c'est là que j'ai tourné la scène.

Pendant que les vrais dessinateurs signaient devant moi, j'étais derrière eux, et j'ai eu la chance de voir ce qu'ils font en attendant de signer un autre exemplaire : ils dessinent. Ils ont leur bloc-notes et ils dessinent.

Ce qui est étonnant, c'est que l'auteur devant moi a ouvert son carnet et s'est arrêté sur une page.
C'était une anatomie.
Je ne sais plus quelle partie du corps, mais ce n'était pas du style bande dessinée. Mais classique.

Mon œil non exercé a été stupéfait par les détails du dessin. Une précision folle avec le crayon. Je pouvais sentir la texture fine des muscles, des veines. Mais il a dessiné dessus.

Ma première réaction a été de penser : "Mais non, qu'est-ce que tu fais ! Tu es fou ! Tu risques de tout gâcher. C'est l'erreur classique : on continue alors qu'on devrait s'arrêter !"

Et puis... je tournais le film. Alors, de temps en temps, je devais voir si, au milieu du chaos total de Lucca Comics, quelqu'un avait besoin de moi.

Je ne vous l'ai pas dit, mais le plateau - qui est déjà un désordre en soi - si vous le mettez au milieu d'une foire nationale pleine d'autres créatifs, des feux d'artifice en sortent.

Je regarde donc autour de moi, je suis encore libre, et je retourne voir l'auteur pour constater le gâchis qu'il a fait.
Il était encore en train de dessiner sur le croquis de tout à l'heure.
Il le couvrait de son épaule, je ne voyais pas bien.

Puis il s'est reculé un instant et, en s'appuyant sur la chaise, il m'a permis de bien voir son dessin.

C'était encore mieux qu'avant. Encore plus de détails, encore plus de vérité.

Et il a continué.
Il a continué.

L'art, la technique, est une loupe sur la réalité. Celui qui s'en sert, qui la pratique, qui voit des cheveux dans des œufs, qui casse des pierres par la pensée, a un super pouvoir.

Celui d'aller de l'avant.

Il arrive un moment, je pense pour tout le monde, où l'on choisit une voie. Différente de celle que tout le monde a imaginée pour nous. Différent même de ce que nous avons toujours pensé.

À ce moment-là, la boussole est peut-être la réponse à cette question : "Ce choix me permet-il de mieux dessiner la réalité ?"

Comme ce dessinateur qui s'est amélioré d'AVC en AVC, en ayant la capacité de revenir une fois, dix fois, mille fois sur un AVC,
un mot,
une expression,
un ton,
une note.

Jusqu'à ce que toute notre vie ne soit qu'une
une note,
un ton,
une expression,
un mot,
un trait.
Un signe.

Ver lo invisible

La primera vez que fui a Lucca Comics fue por la película de Genovese "Superhéroes".
Yo no lo sabía.

Tenía que rodar una escena en el Lucca Comics, una gigantesca feria de cómics, manga y ahora videojuegos: los lugares donde ves otaku, Naruto, Ero Sennin, Dragon Ball.

En resumen, allí fue donde rodé la escena.

Mientras los dibujantes de verdad firmaban ejemplares delante de mí, yo estaba detrás, y tuve la suerte de ver lo que hacen mientras esperan para firmar otro ejemplar: dibujan. Tienen sus libretas y dibujan.

Lo sorprendente fue cuando el autor que tenía delante abrió su cuaderno y se detuvo en una página.
Era una anatomía.
No recuerdo qué parte del cuerpo, pero no era estilo cómic. Sino clásica.

Mi ojo inexperto se asombró del detalle del dibujo. Una precisión loca con el lápiz. Podía sentir la fina textura de los músculos, las venas. Pero lo dibujó.

Mi primera reacción fue pensar: '¡Pero no, qué haces! Estás loco Te arriesgas a estropearlo todo'. Es el clásico error: ¡uno continúa cuando debería parar!"

Pero entonces... estaba rodando la película. Así que, de vez en cuando, tenía que ver si en medio del caos total de Lucca Comics alguien me necesitaba.

No te lo he dicho, pero el plató -que ya es un caos de por sí- si lo pones en medio de una feria nacional llena de otros creativos, salen fuegos artificiales.

Así que miro a mi alrededor, todavía estoy libre, y vuelvo con el autor para ver el lío que ha montado.
Seguía dibujando sobre el boceto de antes.
Lo tapaba con el hombro, no podía ver bien.

Luego se apartó un momento y, apoyando la espalda en la silla, me permitió ver bien su dibujo.

Era mejor que antes. Aún más detalle, aún más verdad.

Y continuó.
Continuó.

El arte, la técnica, es una lupa sobre la realidad. Quien la usa, quien la practica, ve pelos en los huevos, rompe piedras con el pensamiento, tiene un superpoder.

El de avanzar.

Llega un momento, creo que para todos, en que elegimos un camino. Diferente del que todos han pensado para nosotros. Incluso diferente del que siempre hemos pensado.

En ese momento, quizá una brújula sea la respuesta a esa pregunta: "¿Esta elección me permite dibujar mejor la realidad?"

Como aquel dibujante que mejoraba de golpe en golpe, teniendo la capacidad de volver una vez, diez veces, mil veces a un golpe,
una palabra,
una expresión,
un tono,
una nota.

Hasta que toda nuestra vida no sea más que
una nota,
un tono,
una expresión,
una palabra,
un trazo.
Una señal.

Vedere l'invisibile

La prima volta che andai al Lucca Comics fu per il film di Genovese «Supereroi».
Non la conoscevo.

Dovevo girare una scena nel Lucca Comics, una gigantesca fiera del fumetto, del manga e ora anche dei videogiochi: I posti dove si vedono gli otaku, Naruto, Ero Sennin, Dragon Ball.

Insomma, era lì che giravo la scena.

Mentre dei veri fumettisti firmavano delle copie davanti a me, io ero dietro di loro, e ho avuto la fortuna di vedere cosa fanno mentre aspettano di firmare un’altra copia: disegnano. Hanno il loro bloc-notes, e disegnano.

La cosa incredibile è stata quando l’autore davanti a me ha aperto il suo taccuino e si è fermato su una pagina.
Era un’anatomia.
Non ricordo di che parte del corpo, ma non era in stile fumettistico. Ma classico.

Il mio occhio inesperto è rimasto a bocca aperta davanti al dettaglio del disegno. Una precisione pazzesca, con la matita. Potevo sentire la fine tessitura dei muscoli, le vene. Ma lui si è messo a disegnarci sopra.

La mia prima reazione è stata di pensare: «Ma no, cosa fai! Sei pazzo! Rischi di rovinare tutto. È l’errore classico: uno continua quando dovrebbe fermarsi!»

Ma poi... stavo girando il film. Quindi, di tanto in tanto, mi toccava vedere se in mezzo al caos totale del Lucca Comics qualcuno avesse bisogno di me.

Non ve l’ho detto, ma il set — che già di suo è un bel casino — se lo mettete in mezzo a una fiera nazionale piena di altri creativi, vengono fuori i fuochi d’artificio.

Insomma, mi guardo in giro, sono ancora libero, e torno dall’autore per vedere che disastro ha combinato.
Stava ancora disegnando sullo schizzo di prima.
Lo copriva con la spalla, non riuscivo a vedere bene.

Poi ha indietreggiato un attimo e, appoggiando la schiena sulla sedia, mi ha permesso di vedere bene il suo disegno.

Era meglio di prima. Ancora più dettaglio, ancora più verità.

E continuava.
Continuava.

L’arte, la tecnica, è una lente d’ingrandimento sulla realtà. Chi la usa, chi la pratica, vede peli nelle uova, spacca pietre col pensiero, ha un superpotere.

Quello di andare avanti.

Arriva un momento, credo per tutti, in cui scegliamo una strada. Diversa da quella che tutti hanno pensato per noi. Persino diversa da quella che noi abbiamo sempre pensato.

In quel momento, forse una bussola è la risposta a questa domanda: «Questa scelta mi permette di poter disegnare meglio la realtà?»

Proprio come quel fumettista che migliorava di tratto in tratto, avere la capacità di tornare una volta, dieci volte, mille volte su un tratto,
una parola,
un’espressione,
un tono,
una nota.

Fino a che l’intera nostra vita non è che
una nota,
un tono,
un’espressione,
una parola,
un tratto.
Un segno.

Crystal sparkle

Don't be intimidated.
An idea, when it is born, needs to be defended.
One is not born wrong: at most one becomes wrong.
It is the same with ideas: they need care, to be nurtured, like a living thing.

Ideas then imitate us.
As we behave, so they behave.
Ideas are us.

Most of the time, an idea will be considered good only after it is proven to work in reality.

But an idea is not reality any more than a map is territory.
Therefore, its realization is the natural development of the idea: the doing, the gestus.

And, after realizing it, it needs to be cleaned up and put into the world.

We cannot know how it will go in the gestational stage; we can only feel.

To feel that there is something inside us that quivers, that shines.

A spark.

On that spark blow with the beauty of knowledge.
Make it a reflection of your soul, of you.

Steal from the best, copy, follow the rhythm of the moment.

Study your surroundings, break down atoms into words, words into echoes of emotions that travel within you.

Emotion is not in a drawer: it is with you, inside you, there.

Right there.

And, like you, millions of others feel it.
Emotions unite us under the same banner, that of mystery.

We all walk toward an unknown destination.

I rarely think about the past.
I have the feeling that it is of no use, that it binds me to something that is not there.
Yet the fact that I always have this feeling is perhaps the clearest demonstration that there is something I cannot let go of.

A part of me always distances itself just enough to avoid suffering.

The fear of suffering.

Do you have it too?
I am not talking about the pain of a sting or a fall: I am talking about feeling that if you take one more step, the return, if there ever is one, will be with a broken heart.

In my life I have never broken anything, never a fracture.
My bones are made of titanium.
Maybe that's why I have a crystal heart, because my armor is better than that of the Knights of the Zodiac.

"Crystal heart" is an expression I also use in The Labyrinth of Hope.
The interesting thing is that I don't use it for one character, but for several.

Who knows, maybe for all of them.

I am writing this journal to warm up my engines.
I have finished writing the third volume.

After some comments from beta readers, I changed the ending of the second volume, but that's normal: the saga is being written, and that means changing important things: directions, endings, events.

Fortunately, the beacon that illuminates me on this journey is as bright as the moon.
Or maybe it is the moon itself.

Cristal scintillant

Ne vous laissez pas intimider.
Une idée, quand elle naît, a besoin d'être défendue.
On ne naît pas dans l'erreur, on le devient tout au plus.
Il en va de même pour les idées : elles ont besoin de soins, elles ont besoin d'être nourries, comme un être vivant.

Les idées nous imitent alors.
Elles se comportent comme nous.
Les idées sont nous.

La plupart du temps, une idée ne sera considérée comme bonne que lorsqu'elle aura fait ses preuves dans la réalité.

Mais une idée n'est pas la réalité, pas plus qu'une carte n'est un territoire.
Sa réalisation est donc le développement naturel de l'idée : le faire, le gestus.

Et après l'avoir réalisée, il faut la nettoyer et la mettre au monde.

Nous ne pouvons pas savoir comment se déroulera la phase de gestation, nous ne pouvons que la ressentir.

Sentir qu'il y a quelque chose en nous qui frémit, qui brille.

Une étincelle.

Soufflez sur cette étincelle avec la beauté de la connaissance.
Faites-en un reflet de votre âme, de vous.

Prenez exemple sur les meilleurs, copiez, suivez le rythme du moment.

Étudiez votre environnement, décomposez les atomes en mots, les mots en échos des émotions qui voyagent en vous.

L'émotion n'est pas dans un tiroir : elle est avec vous, en vous, là.

Elle est là.

Et comme vous, des millions d'autres la ressentent.
Les émotions nous unissent sous une même bannière, celle du mystère.

Nous marchons tous vers une destination inconnue.

Je pense rarement au passé.
J'ai le sentiment qu'il ne sert à rien, qu'il me lie à quelque chose qui n'existe pas.
Pourtant, le fait que j'aie toujours ce sentiment est peut-être la preuve la plus évidente qu'il y a quelque chose dont je ne peux pas me défaire.

Une partie de moi s'éloigne toujours juste assez pour éviter la souffrance.

La peur de souffrir.

L'avez-vous aussi ?
Je ne parle pas de la douleur d'une piqûre ou d'une chute : je parle du sentiment que si vous faites un pas de plus, le retour, s'il y en a un, se fera le cœur brisé.

De toute ma vie, je n'ai jamais rien cassé, jamais eu de fracture.
Mes os sont en titane.
C'est peut-être pour cela que j'ai un cœur de cristal, parce que mon armure est meilleure que celle des chevaliers du Zodiaque.

le "cœur de cristal" est une expression que j'utilise également dans Le labyrinthe de l'espoir.
Ce qui est intéressant, c'est que je ne l'utilise pas pour un seul personnage, mais pour plusieurs.

Qui sait, peut-être pour tous.

J'écris ce journal pour faire chauffer les moteurs.
J'ai terminé l'écriture du troisième volume.

Suite à des remarques de bêta-lecteurs, j'ai changé la fin du deuxième tome, mais c'est normal : la saga est en cours d'écriture, et cela implique de changer des choses importantes : des directions, des fins, des événements.

Heureusement, le phare qui m'éclaire dans ce voyage est aussi brillant que la lune.
Ou peut-être est-ce la lune elle-même.

Destellos de cristal

No se deje intimidar.
Una idea, cuando nace, necesita ser defendida.
No se nace equivocado: a lo sumo se llega a estarlo.
Lo mismo ocurre con las ideas: necesitan cuidados, necesitan ser alimentadas, como un ser vivo.

Las ideas nos imitan.
Se comportan como nosotros.
Las ideas somos nosotros.

La mayoría de las veces, una idea sólo se considera buena cuando se ha demostrado que funciona en la realidad.

Pero una idea no es la realidad, igual que un mapa no es un territorio.
Su realización es, por tanto, el desarrollo natural de la idea: el hacer, el gestus.

Y, después de realizarla, hay que limpiarla y traerla al mundo.

No podemos saber cómo irá en la fase de gestación; sólo podemos sentir.

Sentir que hay algo dentro de nosotros que tiembla, que brilla.

Una chispa.

Soplar esa chispa con la belleza del conocimiento.
Haz que sea un reflejo de tu alma, de ti.

Roba de los mejores, copia, sigue el ritmo del momento.

Estudia lo que te rodea, descompone los átomos en palabras, las palabras en ecos de emociones que viajan dentro de ti.

La emoción no está en un cajón: está contigo, dentro de ti, ahí.

Justo ahí.

Y, como tú, millones de personas más la sienten.
Las emociones nos unen bajo una misma bandera, la del misterio.

Todos caminamos hacia un destino desconocido.

Rara vez pienso en el pasado.
Tengo la sensación de que no sirve de nada, de que me ata a algo que no existe.
Sin embargo, el hecho de que siempre tenga esta sensación es quizá la prueba más clara de que hay algo de lo que no puedo desprenderme.

Una parte de mí siempre se distancia lo suficiente para evitar el sufrimiento.

El miedo a sufrir.

¿Usted también lo tiene?
No hablo del dolor de un pinchazo o una caída: hablo de la sensación de que si das un paso más, el regreso, si es que lo hay, será con el corazón roto.

En mi vida nunca me he roto nada, ni una fractura.
Mis huesos son de titanio.
Quizá por eso tengo un corazón de cristal, porque mi armadura es mejor que la de los Caballeros del Zodiaco.

"Corazón de cristal" es una expresión que también utilizo en El laberinto de la esperanza.
Lo interesante es que no la utilizo para un personaje, sino para varios.

Quién sabe, quizá para todos.

Escribo este diario para calentar motores.
He terminado de escribir el tercer volumen.

Tras algunos comentarios de los lectores beta, cambié el final del segundo volumen, pero eso es normal: la saga se está escribiendo, y eso significa cambiar cosas importantes: direcciones, finales, acontecimientos.

Afortunadamente, el faro que me ilumina en este viaje es tan brillante como la luna.
O tal vez sea la propia luna.

Scintilla di cristallo

Non fatevi intimidire.
Un’idea, quando nasce, ha bisogno di essere difesa.
Non si nasce sbagliati: al massimo lo si diventa.
È lo stesso per le idee: hanno bisogno di cure, di essere alimentate, come un essere vivente.

Le idee poi ci imitano.
Come ci comportiamo, così si comportano loro.
Le idee siamo noi.

La maggior parte delle volte, un’idea sarà considerata buona solo dopo aver dimostrato di funzionare nella realtà.

Ma un’idea non è la realtà, tanto quanto la mappa non è il territorio.
La sua realizzazione è quindi il naturale sviluppo dell’idea: il fare, il gestus.

E, dopo averla realizzata, bisogna pulirla e metterla al mondo.

Non possiamo sapere come andrà nella fase gestazionale; possiamo solo sentire.

Sentire che c’è qualcosa dentro di noi che freme, che brilla.

Una scintilla.

Su quella scintilla soffiate con la bellezza della conoscenza.
Fatene il riflesso della vostra anima, di voi.

Rubate ai più bravi, copiate, seguite il ritmo del momento.

Studiate ciò che vi circonda, scomponete gli atomi in parole, le parole in echi di emozioni che viaggiano dentro di voi.

L’emozione non è in un cassetto: è con voi, dentro di voi, lì.

Proprio lì.

E, come voi, la sentono milioni di altri.
Le emozioni ci uniscono sotto la stessa insegna, quella del mistero.

Tutti camminiamo verso una destinazione ignota.

Penso raramente al passato.
Ho la sensazione che non serva, che mi leghi a qualcosa che non c’è.
Eppure il fatto che io abbia sempre questa sensazione è forse la dimostrazione più evidente che c’è qualcosa che non riesco a lasciare andare.

Una parte di me si distanza sempre il giusto per evitare la sofferenza.

La paura di soffrire.

Ce l’avete anche voi?
Io non parlo del dolore di una puntura o di una caduta: parlo del sentire che, se fate un passo in più, il ritorno, se mai ci sarà, avverrà con il cuore rotto.

Nella mia vita non mi sono mai rotto niente, mai una frattura.
Ho le ossa di titanio.
Forse è per questo che ho il cuore di cristallo, perché la mia armatura è migliore di quella dei Cavalieri dello Zodiaco.

«Cuore di cristallo» è un’espressione che uso anche ne Il Labirinto della Speranza.
La cosa interessante è che non la uso per un solo personaggio, ma per diversi.

Chissà, forse per tutti.

Scrivo questo diario per scaldare i motori.
Ho finito la stesura del terzo volume.

Dopo alcuni commenti dei beta reader, ho cambiato il finale del secondo volume, ma è normale: la saga si sta scrivendo, e questo significa cambiare cose importanti: direzioni, finali, eventi.

Per fortuna, il faro che mi illumina in questo viaggio è luminoso come la luna.
O forse è proprio la luna.

La mia Jingle Bells

Ho appena letto la storia dell’uomo che ha scritto Jingle Bells: James Lord Pierpont, classe 1822.

Prima di tutto, ho scoperto che il brano non nasce come una canzone di Natale. Ma tutt’altro.

(E già lì, avrei dovuto capire che c’era qualcosa da scoprire, in quella storia.)

Quella che è una delle canzoni più famose di tutta la storia, e probabilmente la canzone di Natale più conosciuta di tutte, nasce come un brano che parla di corse di cavalli.

Ma non finisce qui: James ha avuto una vita tristissima.
Una vita all’insegna del fallimento e dell’insuccesso.

Da giovane partì per trovare l’oro verso il Klondike (la famosa corsa all’oro di Chaplin).
Poi però, al contrario di Charlot, tornò a mani vuote, senza aver trovato nulla, se non calli nelle mani e sogni infranti.

Perse presto la prima moglie, che lo lasciò solo a crescere i due figli.
Fu in quel momento che scrisse la canzone.
Quella canzone... così piena di campanellini e gioia, in realtà emerge dal lutto che l’uomo viveva al tempo.

Quanto è vero che l’arte lenisce il dolore.

Ma non è finita qui!

Lord Pierpont ebbe un rapporto terribile con il proprio fratello.
Durante la guerra, si ritrovarono su fronti opposti.
Che stupidaggine, la guerra.

E poi, ciliegina sulla torta: non ha mai guadagnato nulla da quella canzone.

Spesso, nel mondo della musica, si parla di Mariah Carey e della sua canzone di Natale, che le frutta probabilmente più di ogni altra canzone.

Pensate a Jingle Bells.
Pensate a quanto è importante quella canzone.
Come rappresenta il cuore della festa più amata da tutti, giovani e bambini.
Ma per James, niente.

Come Melville con Moby Dick, Kafka con i suoi testi, Lord Pierpont fa parte di quella infinita schiera di artisti che sono stati riconosciuti solo dopo la loro morte.

Perché questo aneddoto?

Perché mi chiedo se ne è valsa la pena.
Vale la pena fare una cosa che rimane nella cultura umana in cambio di una vita di frustrazione?

La fatica dell’impresa, la fatica dei sogni, del desiderio di lasciare un segno… fin dove ha senso?

Ora che ho scoperto questa storia, ci penserò.

Quando mi troverò davanti alla fatica dell’impresa, al momento in cui mi toccherà chiedermi:
«Ma ne vale davvero la pena?»
mi risponderò:
«Chi lo sa. Ma forse, tra vent’anni, avrai fatto la tua Jingle Bells.»

My Jingle Bells

I just read the story of the man who wrote Jingle Bells: James Lord Pierpont, born in 1822. First of all, I found out that the song did not start out as a Christmas song. But quite the opposite. (And already there, I should have known there was something to be discovered, in that story.) What is one of the most famous songs in all of history, and probably the best known Christmas song of all, began as a song about horse racing. But it doesn't end there: James had a very sad life. A life of failure and failure. As a young man, he set out to find gold to the Klondike (Chaplin's famous gold rush).
But then, unlike the Charlot, he returned empty-handed, having found nothing but calluses in his hands and broken dreams. He soon lost his first wife, who left him alone to raise their two children. It was at that time that he wrote the song.That song... so full of bells and joy, actually emerges from the grief the man was experiencing at the time. How true it is that art soothes pain. But it didn't end there! Lord Pierpont had a terrible relationship with his own brother. During the war, they found themselves on opposite sides.
What nonsense, war.And then, icing on the cake: he never made any money from that song.Often, in the music world, we talk about Mariah Carey and her Christmas song, which probably benefits her more than any other song.Think of Jingle Bells.
Think of how important that song is. How it represents the heart of the most beloved holiday for everyone, young and old. But for James, nothing. Like Melville with Moby Dick, Kafka with his lyrics, Lord Pierpont is one of that endless line of artists who have been recognized only after their deaths.

Why this anecdote? Because I wonder if it was worth it.Is it worth it to do something that remains in human culture in exchange for a lifetime of frustration? The toil of the endeavor, the toil of dreams, of the desire to leave a mark -- how far does it make sense? Now that I have discovered this story, I will think about it.When I am faced with the toil of the endeavor, at the moment when I have to ask myself, "But is it really worth it?" I will say to myself, "Who knows. But maybe, 20 years from now, you will have done your Jingle Bells."

Mon Jingle Bells

Je viens de lire l'histoire de l'homme qui a écrit Jingle Bells : James Lord Pierpont, né en 1822. Tout d'abord, j'ai découvert que la chanson n'a pas commencé par être une chanson de Noël (et déjà là, j'aurais dû me rendre compte qu'il y avait quelque chose à découvrir dans cette histoire). (Ce qui est l'une des chansons les plus célèbres de toute l'histoire, et probablement la chanson de Noël la plus connue, a commencé comme une chanson sur les courses de chevaux. Mais cela ne s'arrête pas là : James a eu une vie très triste. Une vie d'échecs et d'échecs. Jeune homme, il est parti chercher de l'or dans le Klondike (la fameuse ruée vers l'or de Chaplin).
Mais, contrairement au clochard, il revient bredouille, n'ayant trouvé que des cals aux mains et des rêves brisés. Il perd bientôt sa première femme, qui le laisse seul pour élever leurs deux enfants. C'est alors qu'il écrit la chanson - cette chanson si pleine de cloches et de joie, émerge en fait du deuil que l'homme vivait à l'époque. Comme il est vrai que l'art apaise la douleur. Mais ce n'est pas tout ! Lord Pierpont entretenait une relation terrible avec son propre frère. Pendant la guerre, ils se sont retrouvés dans des camps opposés.
Quelle absurdité, la guerre. Et puis, cerise sur le gâteau, il n'a jamais rien gagné avec cette chanson. Souvent, dans le monde de la musique, on parle de Mariah Carey et de sa chanson de Noël, qui lui rapporte probablement plus que n'importe quelle autre chanson. Pensez à Jingle Bells.
Pensez à l'importance de cette chanson, qui représente le cœur de la fête la plus aimée de tous, jeunes et vieux. Mais pour James, rien. Comme Melville avec Moby Dick, Kafka avec ses textes, Lord Pierpont fait partie de cette lignée infinie d'artistes qui n'ont été reconnus qu'après leur mort.

Pourquoi cette anecdote ? Parce que je me demande si cela en valait la peine. Cela vaut-il la peine de faire quelque chose qui reste dans la culture humaine en échange d'une vie de frustration ? La fatigue de l'effort, la fatigue des rêves, du désir de laisser une trace... jusqu'où cela a-t-il un sens ? Maintenant que j'ai découvert cette histoire, j'y penserai. Quand je serai confronté à la fatigue de l'effort, quand je devrai me demander : "Mais cela en vaut-il vraiment la peine ?", je me répondrai : "Qui sait. Mais peut-être que dans vingt ans, tu auras fait ton Jingle Bells"

Mis cascabeles

Acabo de leer la historia del hombre que escribió Jingle Bells: James Lord Pierpont, nacido en 1822. En primer lugar, he descubierto que la canción no empezó siendo una canción de Navidad. (Y ya ahí, debería haberme dado cuenta de que había algo que descubrir en esa historia.) La que es una de las canciones más famosas de toda la historia, y probablemente la canción navideña más conocida de todas, empezó como una canción sobre carreras de caballos. Pero la cosa no acaba ahí: James tuvo una vida muy triste. Una vida de fracasos y fracasos. De joven, se fue a buscar oro al Klondike (la famosa fiebre del oro de Chaplin).
Pero entonces, a diferencia del Vagabundo, regresó con las manos vacías, sin haber encontrado nada más que callos en las manos y sueños rotos. Pronto perdió a su primera esposa, que lo dejó solo para criar a sus dos hijos. Fue entonces cuando escribió la canción - esa canción tan llena de campanas y alegría, en realidad surge del luto que el hombre estaba experimentando en ese momento. Qué cierto es que el arte alivia el dolor. ¡Pero hay más! Lord Pierpont tenía una relación terrible con su propio hermano. Durante la guerra, se encontraron en bandos opuestos.
Qué tontería, la guerra. Y luego, la guinda del pastel: nunca ganó nada con esa canción. A menudo, en el mundo de la música, se habla de Mariah Carey y su canción de Navidad, que probablemente le hace ganar más que ninguna otra canción. Piensa en Jingle Bells.
Piense en lo importante que es esa canción. En cómo representa el corazón de la fiesta más querida por todos, jóvenes y mayores. Pero para James, nada. Como Melville con Moby Dick, Kafka con sus letras, Lord Pierpont forma parte de esa interminable fila de artistas que sólo han sido reconocidos después de su muerte.

¿Por qué esta anécdota? Porque me pregunto si valió la pena. ¿Merece la pena hacer algo que permanece en la cultura humana a cambio de una vida de frustraciones? La fatiga del empeño, la fatiga de los sueños, del deseo de dejar huella... ¿hasta qué punto tiene sentido? Ahora que he descubierto esta historia, pensaré en ella. Cuando me enfrente a la fatiga del empeño, cuando tenga que preguntarme: "Pero, ¿merece realmente la pena?", me responderé: "Quién sabe. Pero a lo mejor, dentro de veinte años, habrás hecho tus cascabeles"

Siamo esseri multidimensionali

Il mondo, la realtà, sono dei misteri che mai si sveleranno. Come il velo di Maya: dietro al velo non vi è la verità, bensì un altro velo da svelare.
La realtà, questa realtà, è determinata dai nostri sensi.

Ma i sensi, ci limitano.

Per fortuna c’è l’immaginazione.
La creatività è la nostra chiave di trascendenza. Con lei che ci guida, possiamo volare lì dove i sensi non ci portano: nel mondo dell’intuizione, degli archetipi, dei sentimenti, delle emozioni.

Luoghi che non hanno colori, né temperature, non hanno spazio e nemmeno tempo.
Luoghi non-luoghi, in cui la parola che determina i confini è: libertà.

Questo spesso ci spinge a immaginare che la realtà attorno a noi sia solo uno strato di un grande mosaico cangiante.
Nell’Anello di Saturno, Luca parte alla ricerca di un anello magico, e questo lo porterà a scoprire la multidimensionalità della realtà, la riscrittura del destino.

Anche ne Il Labirinto della Speranza affronto questo tema, in maniera — vedrete — molto più ambigua.
Rimango sul confine liminale tra percezione e realtà.
Tra proiezione ed empirico.
Lì dove «Ciò in cui credo definisce ciò che è».

Quindi lavoro sulla multidimensionalità del reale. A volte fantastico, a volte immaginato.
Ma poi, a pensarci bene, che differenza c’è?
Una fantasia è forse meno reale di una paura? Un sogno meno reale della realtà?
E come mi piace dire: un fantasma è forse meno reale di un senso di colpa?

Siamo esseri multidimensionali perché, vivendo nel regno della percezione, creiamo — ognuno di noi — la nostra dimensione, in cui le regole condivise sono tante, ma ci sono anche regole subliminali, nascoste, non dette, che ci guidano.

Quanti non camminano sotto una scala?
Quanti salutano le pecore sul lato della strada?
Quanti ascoltano il proprio oroscopo o chiedono consiglio a veggenti?

Siamo esseri multidimensionali e non sappiamo di esserlo.

Pensate alla dimensione — ora tanto di moda — del digitale.
Abbiamo un’identità che appartiene esclusivamente a quella dimensione. Amici che frequentiamo solo in quella dimensione.
Informazioni, arte, curiosità.

Il digitale è una dimensione del reale. Isolante nei confronti della realtà «vera», ma poi, in quella realtà, tessiamo legami, ci emozioniamo, cresciamo.
Quindi, come si fa a dire che è meno vera della realtà?

È diversa.
Siamo esseri multidimensionali anche in questo.

Non sono il primo a dirlo, e non sarò l’ultimo.
E chissà che un giorno la scienza non lo dimostri in maniera empirica: che questa realtà è condivisa con altre infinite realtà, in cui ogni cosa è diversa.

A quel punto, in quell’oceano di possibilità, la mia domanda principale rimane.
La stessa domanda che mi pongo ne La Divina Avventura, ne L’Anello di Saturno, e anche ne Il Labirinto della Speranza.

In questo mosaico infinito, ricorsivo, frattale…
L’anima è forse la costante?

Continuerò a cercare una risposta.

Nel frattempo,

We are multidimensional beings

The world, reality, are mysteries that will never be revealed. Like the veil of Maya: behind the veil there is not truth but another veil to be unveiled.
Reality, this reality, is determined by our senses.

But the senses, they limit us.

Fortunately, there is imagination.
Creativity is our key to transcendence. With her guiding us, we can fly there where the senses do not take us: into the world of intuition, archetypes, feelings, emotions.

Places that have no colors, no temperatures, no space and no time.
Places non-places, where the word that determines the boundaries is: freedom.

This often prompts us to imagine that the reality around us is just one layer of a great iridescent mosaic.
In Saturn's Ring, Luke sets out in search of a magic ring, and this will lead him to discover the multidimensionality of reality, the rewriting of destiny.

In The Labyrinth of Hope I also deal with this theme, in a way-you will see-much more ambiguous.
I stay on the liminal border between perception and reality.
Between projection and empirical.
There where "What I believe defines what is."

So I work on the multidimensionality of the real. Sometimes fantastic, sometimes imagined.
But then, come to think of it, what's the difference?
Is a fantasy less real than a fear? Is a dream less real than reality?
And as I like to say: is a ghost less real than a guilt?

We are multidimensional beings because, living in the realm of perception, we create -- each of us -- our own dimension, in which there are many shared rules, but there are also subliminal, hidden, unspoken rules that guide us.

How many do not walk under a ladder?
How many greet the sheep on the side of the road?
How many listen to their horoscope or seek advice from seers?

We are multidimensional beings and don't know that we are.

Think of the dimension-now so fashionable-of digital.
We have an identity that belongs exclusively to that dimension. Friends we hang out with only in that dimension.
Information, art, curiosity.

The digital is a dimension of the real. Isolating to "real" reality, but then, in that reality, we weave bonds, we get excited, we grow.
So how can you say it is less real than reality?

It is different.
We are multidimensional beings in that as well.

I'm not the first to say that, and I won't be the last.
And who knows, someday science may prove it empirically: that this reality is shared with other infinite realities, in which everything is different.

At that point, in that ocean of possibilities, my main question remains.
The same question I ask myself in The Divine Adventure, in The Ring of Saturn, and also in The Labyrinth of Hope.

In this infinite, recursive, fractal mosaic..
Is the soul perhaps the constant?

I will continue to search for an answer.

In the meantime,

Nous sommes des êtres multidimensionnels

Le monde, la réalité, sont des mystères qui ne seront jamais révélés. Comme le voile de Maya : derrière le voile, il n'y a pas de vérité, mais un autre voile à dévoiler.
La réalité, cette réalité, est déterminée par nos sens.

Mais les sens nous limitent.

Heureusement, il y a l'imagination.
La créativité est notre clé pour la transcendance. En la guidant, nous pouvons voler là où les sens ne nous emmènent pas : dans le monde de l'intuition, des archétypes, des sentiments, des émotions.

Des lieux qui n'ont pas de couleurs, pas de températures, pas d'espace et pas de temps.
Des lieux qui sont des non-lieux, où le mot qui détermine les frontières est : liberté.

Cela nous amène souvent à imaginer que la réalité qui nous entoure n'est qu'une couche d'une grande mosaïque irisée.
Dans L'anneau de Saturne, Luke part à la recherche d'un anneau magique qui lui fera découvrir la multidimensionnalité de la réalité, la réécriture du destin.

Dans Le labyrinthe de l'espoir, j'aborde également ce thème, mais d'une manière - vous le verrez - beaucoup plus ambiguë.
Je reste sur la frontière liminale entre la perception et la réalité.
Entre la projection et l'empirique.
Là où "ce que je crois définit ce qui est".

Je travaille donc sur la multidimensionnalité du réel. Parfois fantastique, parfois imaginé.
Mais alors, à bien y penser, quelle est la différence ?
Un fantasme est-il moins réel qu'une peur ? Un rêve est-il moins réel que la réalité ?
Et comme j'aime à le dire : un fantôme est-il moins réel qu'une culpabilité ?

Nous sommes des êtres multidimensionnels parce que, vivant dans le domaine de la perception, nous créons - chacun d'entre nous - notre propre dimension, dans laquelle il existe de nombreuses règles communes, mais aussi des règles subliminales, cachées, tacites, qui nous guident.

Combien ne passent pas sous une échelle ?
Combien saluent les moutons sur le bord de la route ?
Combien écoutent leur horoscope ou demandent conseil à des voyants ?

Nous sommes des êtres multidimensionnels et nous ne le savons pas.

Pensez à la dimension numérique, si à la mode aujourd'hui.
Nous avons une identité qui appartient exclusivement à cette dimension. Nous avons des amis que nous ne fréquentons que dans cette dimension.
L'information, l'art, la curiosité.

Le numérique est une dimension du réel. Il isole de la réalité "réelle", mais dans cette réalité, nous tissons des liens, nous nous enthousiasmons, nous grandissons.
Alors comment peut-on dire qu'il est moins réel que la réalité ?

C'est différent.
Nous sommes des êtres multidimensionnels dans ce domaine également.

Je ne suis pas le premier à le dire et je ne serai pas le dernier.
Et qui sait, un jour, la science le prouvera peut-être empiriquement : cette réalité est partagée avec d'autres réalités infinies, dans lesquelles tout est différent.

À ce moment-là, dans cet océan de possibilités, ma question principale demeure.
La même question que je me pose dans L'Aventure Divine, dans L'Anneau de Saturne, et aussi dans Le Labyrinthe de l'Espoir.

Dans cette mosaïque infinie, récursive, fractale..
L'âme est-elle la constante ?

Je continuerai à chercher une réponse.

En attendant,

Somos seres multidimensionales

El mundo, la realidad, son misterios que nunca serán revelados. Como el velo de Maya: tras el velo no hay verdad, sino otro velo por desvelar.
La realidad, esta realidad, está determinada por nuestros sentidos.

Pero los sentidos, nos limitan.

Afortunadamente, existe la imaginación.
La creatividad es nuestra llave a la trascendencia. Con ella como guía, podemos volar a donde los sentidos no nos llevan: al mundo de la intuición, de los arquetipos, de los sentimientos, de las emociones.

Lugares que no tienen colores, ni temperaturas, ni espacio, ni tiempo.
Lugares que son no-lugares, donde la palabra que determina los límites es: libertad.

Esto nos lleva a menudo a imaginar que la realidad que nos rodea no es más que una capa de un gran mosaico iridiscente.
En El anillo de Saturno, Lucas parte en busca de un anillo mágico, que le llevará a descubrir la multidimensionalidad de la realidad, la reescritura del destino.

En El laberinto de la esperanza también abordo este tema, de una forma -ya lo verán- mucho más ambigua.
Permanezco en la frontera liminal entre la percepción y la realidad.
Entre la proyección y lo empírico.
Allí donde "lo que creo define lo que es".

Así que trabajo sobre la multidimensionalidad de lo real. A veces fantástico, a veces imaginado.
Pero, pensándolo bien, ¿cuál es la diferencia?
¿Es una fantasía menos real que un miedo? ¿Es un sueño menos real que la realidad?
Y como me gusta decir: ¿es un fantasma menos real que la culpa?

Somos seres multidimensionales porque, al vivir en el reino de la percepción, creamos -cada uno de nosotros- nuestra propia dimensión, en la que hay muchas reglas compartidas, pero también hay reglas subliminales, ocultas, tácitas, que nos guían.

¿Cuántos no pasan por debajo de una escalera?
¿Cuántos saludan a las ovejas al borde de la carretera?
¿Cuántos escuchan su horóscopo o piden consejo a adivinos?

Somos seres multidimensionales y no sabemos que lo somos.

Pensemos en la -ahora tan de moda- dimensión digital.
Tenemos una identidad que pertenece exclusivamente a esa dimensión. Amigos con los que sólo nos relacionamos en esa dimensión.
Información, arte, curiosidad.

Lo digital es una dimensión de lo real. Aísla de la realidad "real", pero luego, en esa realidad, tejemos lazos, nos emocionamos, crecemos.
Entonces, ¿cómo se puede decir que es menos real que la realidad?

Es diferente.
También en eso somos seres multidimensionales.

No soy el primero en decirlo, ni seré el último.
Y quién sabe, algún día la ciencia podrá demostrarlo empíricamente: que esta realidad es compartida con otras realidades infinitas, en las que todo es diferente.

En ese punto, en ese océano de posibilidades, queda mi principal pregunta.
La misma pregunta que me hago en La aventura divina, en El anillo de Saturno y también en El laberinto de la esperanza.

En este mosaico infinito, recursivo, fractal..
¿es el alma la constante?

Seguiré buscando una respuesta.

Mientras tanto,

Quando muore l'arte

Sapete cosa dicevano gli amanuensi e i copisti quando l’invenzione di Gutenberg (la stampa) arrivò a sconquassare l’industria dei libri scritti a mano?

«Scriptores pereunt, ars moritur.»

I copisti scompaiono, l’arte muore.

Molti ritenevano che i libri stampati fossero oggetti meccanici, privi di anima o di bellezza. Filippo di Strata, ad esempio, scriveva nel XV secolo: «Libri impressi sunt meretrices; scripti sunt virgines.»

I libri stampati sono meretrici, quelli scritti a mano, vergini.

Vi ricorda qualcosa? Le parole che vengono spese nei confronti dell’IA generativa sono spesso molto simili. Il disprezzo che generano (piccolo gioco di parole) può essere ridotto a questo: è un prodotto senz’anima, che sostituirà gli artisti.

Ma in realtà la stampa ha fatto esplodere la scrittura. Mai così tanti libri furono scritti, stampati e soprattutto letti dopo l’avvento di Gutenberg. A lui dobbiamo la letteratura moderna. A lui lo sviluppo esponenziale della conoscenza, che ha portato, nei secoli successivi, alla trasformazione radicale della società, del benessere, dell’uomo.

Il dibattito sull’arte e sull’intelligenza artificiale è spesso affrontato in maniera pregiudizievole, perché mette in discussione uno dei tasselli fondamentali dell’artista (proprio come la stampa): l’esecuzione.

Si dice che l’arte sia nel gesto, e che se il gesto viene sostituito dalla macchina, allora di arte non ve n’è più traccia.

Io oso pensare qualcosa di diverso. Qualcosa che cerca di andare oltre la coltre di nebbia davanti alla quale ci troviamo tutti.

L’arte non è nell’esecuzione di uno dei blocchi fondamentali, ma nell’intento, nell'idea, nell’esecuzione, nella distribuzione e nella consegna.

Mi spiego. Se una macchina può fare in pochi secondi ciò che un uomo può fare in mesi, allora il valore di quella cosa decade immediatamente. Ed è lì che nasce la paura dei concept artist, degli scrittori, e persino degli attori. Ormai ci siamo: la tecnologia è così avanzata che si potranno sostituire anche loro (nei prodotti digitali, il teatro, per ora, è intoccato).

Quindi siamo sostituibili? No. Perché è il processo nella sua interezza a produrre vero valore, non il singolo elemento all'interno del processo di creazione.

Questo pensiero è radicale, e richiede un cambio netto di prospettiva: È quello che viene chiamato un cambio di paradigma.

L’IA è qui. È come l’elettricità, il computer, la ruota. Ormai c’è.

Il mio scopo è capire come sopravvivere e, non solo, come prosperare, ora che il terreno è cambiato così grandemente.

Da artista, sono costretto a rivalutare cosa significa essere un artista.

Fare arte non si limita più alla produzione del singolo elemento dell'esecuzione (il testo, la canzone, il disegno, ecc., qualsiasi cosa che potrebbe essere riprodotto dalla IA).
C'è molto di più.
Quell’elemento deve essere parte di un intento più grande, che parta dall’anima dell’artista (l’intento), si propaghi nella risposta umana al mondo dell'artista (l'idea), passi attraverso la realizzazione di quella risposta (l'esecuzione) ma non finisce qui. Serve che l'artista incarni l’impatto che vuole avere sul mondo (la consegna).

In sostanza, si tratta di avere un’idea, di realizzarla e poi di far sapere che esiste. E poi ripetere questo processo, migliorando ogni passo, ogni volta.

L’artista diventa quindi il fautore del proprio successo, colui che viene chiamato non solo per la produzione artigianale degli elementi, ma per l’intera filiera artistica: dall’intento, all’idea, alla realizzazione, alla distribuzione e alla consegna.

L'artista è la manifestazione umana del processo di tutta la filiera.

E lì, l’intelligenza artificiale diventa un compagno di viaggio che permette - per la prima volta da sempre, proprio come la stampa - di aprire le porte, di dare all’artista che lo desidera, le ali per volare da solo.

Non sarà facile.

Ma se prima volare da soli, per gli artisti, era un sogno irrealizzabile, questa rivoluzione restituisce a coloro che hanno intento, idee, spirito critico e anima artistica la possibilità di farcela da soli.

Lo ripeto:
1. Intento (che si alimenta con cultura, lettura, incontri, cibo dell'anima)
2. Idea (hce nasce dall’ascolto di ciò che ci circonda e di ciò che abbiamo dentro)
3. Esecuzione (la nostra risposta, come artisti. Il nostro segno: scrittura, canto, recitazione, quello che vi piace di più.)
4. Distribuzione (marketing, piattaforme digitali, strategia per far conoscere la nostra risposta, per dare impatto.)
5. Discussione con il pubblico (interazioni, social network, un sito, un diario d’artista dove scambiarsi opinioni)

L'arte non è morta. Al contrario.

Stiamo per vivere un’esplosione di artisti indipendenti che riusciranno ad essere grandi quanto (o più) delle major, poiché detentori di ciò che conta e vale davvero all'interno della filiera: l’intento. Il fuoco primigeneo, la luce.

When art dies

Do you know what the amanuenses and copyists were saying when Gutenberg's invention (printing) came to disrupt the handwritten book industry? "Scriptores pereunt, ars moritur." The copyists disappear, the art dies. Many believed that printed books were mechanical objects, devoid of soul or beauty. Philip of Strata, for example, wrote in the 15th century, "Libri impressi sunt meretrices; scripti sunt virgines." Printed books are meretrici; handwritten ones, virgines. Sound familiar? The words that are spent towards generative AI are often very similar. The contempt they generate (small pun) can be reduced to this: it is a soulless product that will replace artists. But in reality, printing has exploded writing. Never were so many books written, printed and especially read after the advent of Gutenberg. To him we owe modern literature. To him the exponential development of knowledge, which led, in the centuries that followed, to the radical transformation of society, of well-being, of man. The debate about art and artificial intelligence is often approached in a prejudiced way, because it questions one of the fundamental building blocks of the artist (just like printing): execution. It is said that art is in the gesture, and that if the gesture is replaced by the machine, then there is no more art. I dare to think something different. Something that tries to go beyond the blanket of fog before which we all stand. Art is not in the execution of one of the basic building blocks, but in the intent, the idea, the execution, the distribution and the delivery. Let me explain. If a machine can do in seconds what a man can do in months, then the value of that thing immediately decays. And that is where the fear of concept artists, writers, and even actors is born. We're there now: technology is so advanced that they too can be replaced (in digital products, theater, for now, is untouched.) So are we replaceable? No. Because it is the process in its entirety that produces true value, not the individual element within the creation process. This thinking is radical, and it requires a sharp shift in perspective: It is what is called a paradigm shift. AI is here. It is like electricity, the computer, the wheel. It's there now.My purpose is to figure out how to survive and, not only that, how to thrive, now that the terrain has changed so greatly.As an artist, I am forced to reevaluate what it means to be an artist.Making art is no longer limited to the production of the single element of performance (the lyric, the song, the drawing, etc.), but to the production of the anything that could be reproduced by AI.) There is so much more. That element must be part of a larger intent, one that starts from the artist's soul (the intent), propagates into the human response to the artist's world (the idea), goes through the realization of that response (the performance) but does not end there. It needs the artist to embody the impact he or she wants to have on the world (the delivery.) In essence, it is a matter of having an idea, executing it, and then letting people know it exists. And then repeating this process, improving every step, every time. The artist then becomes the advocate of his or her own success, the one who is called upon not only to craft the elements, but for the entire artistic supply chain: from intent, to idea, to realization, to distribution and delivery. The artist is the human manifestation of the process of the entire supply chain.

And there, artificial intelligence becomes a traveling companion that allows-for the first time in forever, just like printing-to open the doors, to give the artist who wants it, the wings to fly on his or her own. It won't be easy. But if flying on their own was previously a pipe dream for artists, this revolution gives back to those who have intent, ideas, critical spirit and artistic soul the ability to make it on their own. I repeat: 1. Intent (which is nourished by culture, reading, meetings, soul food) 2. Idea (hce comes from listening to our surroundings and what we have inside) 3. Execution (our response, as artists. Our mark: writing, singing, acting, whatever you like best) 4. Distribution (marketing, digital platforms, strategy to make our response known, to give impact.) 5. Discussion with the public (interactions, social networks, a site, an artist's diary where we can exchange opinions) Art is not dead. Quite the contrary. we are about to experience an explosion of independent artists who will succeed in being as big as (or bigger than) the majors because they hold what really matters and is valuable within the supply chain: intent. The primal fire, the light

Quand l'art meurt

Savez-vous ce que disaient les amanuensis et les copistes lorsque l'invention de Gutenberg (l'imprimerie) est venue bouleverser l'industrie du livre manuscrit ? "Scriptores pereunt, ars moritur" : les copistes disparaissent, l'art meurt. Nombreux étaient ceux qui pensaient que les livres imprimés étaient des objets mécaniques, dépourvus d'âme ou de beauté. Philippe de Strata, par exemple, écrivait au XVe siècle : "Libri impressi sunt meretrices ; scripti sunt virgines" : les livres imprimés sont des meretrici ; les livres manuscrits, des virgines. Cela vous rappelle quelque chose ? Les mots consacrés à l'IA générative sont souvent très similaires. Le mépris qu'ils suscitent (sans jeu de mots) se résume à ceci : c'est un produit sans âme, qui remplacera les artistes. Mais en réalité, l'imprimerie a fait exploser l'écriture. Jamais autant de livres n'ont été écrits, imprimés et surtout lus après l'avènement de Gutenberg. C'est à lui que l'on doit la littérature moderne. C'est à lui que l'on doit le développement exponentiel de la connaissance, qui a conduit, dans les siècles qui ont suivi, à la transformation radicale de la société, du bien-être, de l'homme. Le débat sur l'art et l'intelligence artificielle est souvent abordé avec des préjugés, parce qu'il remet en cause l'un des fondements de l'artiste (au même titre que l'imprimerie) : l'exécution. On dit que l'art est dans le geste, et que si le geste est remplacé par la machine, il n'y a plus de trace d'art. J'ose penser à quelque chose d'autre. L'art n'est pas dans l'exécution d'un des éléments de base, mais dans l'intention, l'idée, l'exécution, la distribution et la livraison. Je m'explique. Si une machine peut faire en quelques secondes ce qu'un homme peut faire en plusieurs mois, la valeur de cette chose diminue immédiatement. C'est de là que vient la crainte des concepteurs, des scénaristes et même des acteurs. Nous y sommes désormais : la technologie est si avancée qu'ils peuvent eux aussi être remplacés (dans les produits numériques, le théâtre, pour l'instant, n'est pas touché). Sommes-nous donc remplaçables ? Non. Parce que c'est le processus dans son ensemble qui produit la véritable valeur, et non l'élément individuel du processus de création. Cette réflexion est radicale et nécessite un changement de perspective clair : c'est ce qu'on appelle un changement de paradigme. L'IA est là. Elle est comme l'électricité, l'ordinateur, la roue, elle est là maintenant. Elle est là maintenant. Mon but est de trouver comment survivre, et pas seulement cela, comment prospérer, maintenant que le terrain a tellement changé. En tant qu'artiste, je suis obligé de réévaluer ce que signifie être un artiste. Faire de l'art ne se limite plus à la production de l'élément unique de la performance (le texte, la chanson, le dessin, etc.), mais à la production de l'élément unique de la performance (la chanson, le dessin, etc.), cet élément doit faire partie d'une plus grande intention, qui part de l'âme de l'artiste (l'intention), se propage dans la réponse humaine au monde de l'artiste (l'idée), passe par la réalisation de cette réponse (la performance), mais ne s'arrête pas là. L'artiste doit incarner l'impact qu'il souhaite avoir sur le monde (l'exécution). En substance, il s'agit d'avoir une idée, de la réaliser et de faire savoir qu'elle existe. L'artiste devient alors l'avocat de son propre succès, celui à qui l'on fait appel non seulement pour la fabrication manuelle des éléments, mais aussi pour l'ensemble de la chaîne d'approvisionnement artistique : depuis l'intention, l'idée, la réalisation, la distribution et la livraison. L'artiste est la manifestation humaine du processus de l'ensemble de la chaîne d'approvisionnement.

Et là, l'intelligence artificielle devient un compagnon de route qui permet - pour la première fois, tout comme l'imprimerie - d'ouvrir des portes, de donner à l'artiste qui le souhaite les ailes pour voler de ses propres ailes. Ce ne sera pas facile. Mais si voler de ses propres ailes était auparavant une chimère pour les artistes, cette révolution donne à ceux qui ont une intention, des idées, un esprit critique et une âme artistique la possibilité de se débrouiller seuls. Je répète : 1. L'intention (qui se nourrit de culture, de lecture, de rencontres, de nourriture de l'âme) 2. L'idée (elle naît de l'écoute de ce qui nous entoure et de ce que nous avons en nous) 3. L'exécution (notre réponse, en tant qu'artistes. Notre marque : écrire, chanter, jouer, ce que vous préférez) 4. Distribution (marketing, plateformes numériques, stratégie pour faire connaître notre réponse, pour lui donner un impact) 5. Discussion avec le public (interactions, réseaux sociaux, un site, un journal d'artiste où l'on peut échanger des opinions) L'art n'est pas mort. Au contraire, nous sommes sur le point de vivre une explosion d'artistes indépendants qui parviendront à être aussi grands (ou plus grands) que les majors, parce qu'ils détiennent ce qui compte vraiment et qui a de la valeur dans la chaîne d'approvisionnement : l'intention. Le feu primitif, la lumière

Cuando el arte muere

¿Sabe lo que decían los amanuenses y copistas cuando el invento de Gutenberg (la imprenta) vino a desbaratar la industria del libro manuscrito? "Scriptores pereunt, ars moritur". Desaparecen los copistas, muere el arte. Muchos creían que los libros impresos eran objetos mecánicos, carentes de alma o belleza. Felipe de Strata, por ejemplo, escribió en el siglo XV: "Libri impressi sunt meretrices; scripti sunt virgines." Los libros impresos son meretrici; los manuscritos, virgines. ¿Le suena? Las palabras que se gastan en IA generativa suelen ser muy parecidas. El desprecio que generan (poco juego de palabras) se reduce a esto: es un producto sin alma, que sustituirá a los artistas. Pero en realidad, la imprenta ha hecho explotar la escritura. Nunca se escribieron, imprimieron y, sobre todo, leyeron tantos libros tras la llegada de Gutenberg. A él debemos la literatura moderna. A él le debemos el desarrollo exponencial del conocimiento, que condujo, en los siglos posteriores, a la transformación radical de la sociedad, del bienestar, de la humanidad. El debate sobre el arte y la inteligencia artificial se aborda a menudo de forma prejuiciosa, porque cuestiona uno de los pilares fundamentales del artista (al igual que la imprenta): la ejecución. Se dice que el arte está en el gesto, y que si el gesto es sustituido por la máquina, entonces ya no queda rastro de arte. Yo me atrevo a pensar en algo diferente. Algo que intente ir más allá del manto de niebla ante el que todos nos encontramos. El arte no está en la ejecución de uno de los bloques básicos de construcción, sino en la intención, la idea, la ejecución, la distribución y la entrega. Permítanme que me explique. Si una máquina puede hacer en segundos lo que un hombre puede hacer en meses, entonces el valor de esa cosa cae inmediatamente. Y de ahí viene el miedo de los artistas conceptuales, los guionistas e incluso los actores. A estas alturas ya estamos ahí: la tecnología está tan avanzada que ellos también pueden ser sustituidos (en los productos digitales, el teatro, por ahora, no se toca). Entonces, ¿somos sustituibles? No. Porque es el proceso en su conjunto el que produce el verdadero valor, no el elemento individual dentro del proceso de creación. Este pensamiento es radical, y requiere un claro cambio de perspectiva: es lo que se llama un cambio de paradigma. La IA ya está aquí. Es como la electricidad, el ordenador o la rueda. Ya está ahí. Mi propósito es averiguar cómo sobrevivir, y no sólo eso, cómo prosperar, ahora que el terreno ha cambiado tanto. Como artista, me veo obligado a reevaluar lo que significa ser artista. Hacer arte ya no se limita a la producción de un único elemento de interpretación (la letra, la canción, el dibujo, etc.), sino a la producción de un único elemento de interpretación (la canción, el dibujo, etc.), hay mucho más. Ese elemento tiene que formar parte de una intención mayor, que parte del alma del artista (la intención), se propaga en la respuesta humana al mundo del artista (la idea), pasa por la realización de esa respuesta (la interpretación) pero no acaba ahí. En esencia, se trata de tener una idea, realizarla y hacer que se sepa que existe. Y luego repetir este proceso, mejorando cada paso, cada vez. El artista se convierte entonces en el abogado de su propio éxito, aquel a quien se recurre no sólo para la elaboración artesanal de los elementos, sino para toda la cadena de suministro artístico: desde la intención, la idea, la realización, la distribución y la entrega. El artista es la manifestación humana del proceso de toda la cadena de suministro.

Y ahí, la inteligencia artificial se convierte en una compañera de viaje que hace posible -por primera vez en la historia, como la imprenta- abrir puertas, dar al artista que lo desee las alas para volar solo. No será fácil, pero si volar solo era antes una quimera para los artistas, esta revolución da a los que tienen intención, ideas, espíritu crítico y alma artística la oportunidad de lograrlo por sí mismos. Repito: 1. La intención (que se nutre de la inteligencia artificial). 1. Intención (que se nutre de la cultura, la lectura, los encuentros, el alimento del alma). Idea (que nace de la escucha de lo que nos rodea y de lo que llevamos dentro) 3. Ejecución (nuestra respuesta, como artistas. Nuestro signo: escribir, cantar, actuar, lo que más te guste) 4. Distribución (marketing, plataformas digitales, estrategia para dar a conocer nuestra respuesta, para dar impacto.) 5. 6. Debate con el público (interacciones, redes sociales, un sitio, un diario del artista donde podamos intercambiar opiniones) El arte no ha muerto. Al contrario, estamos a punto de vivir una explosión de artistas independientes que conseguirán ser tan grandes (o más) que las majors, porque poseen lo que realmente cuenta y es valioso dentro de la cadena de suministro: la intención. El fuego primigenio, la luz

Il Cocktail perfetto

Ieri ho parlato con una scrittrice specializzata nella narrativa erotica (grazie Raffaella!). Le ho gentilmente chiesto di darmi un ritorno riguardo a una scena «spicy» del secondo volume de Il Labirinto della Speranza.

Non essendo io un lettore della narrativa erotica moderna, non sapevo dove mi collocassi, su una scala da 1 a 10.

Sono cresciuto con Manara, e chi mi conosce sa che l’eleganza verbale è un segno distintivo della mia poetica.

Senza troppo stupore, mi sono reso conto che il calore della scena si collocava intorno a un 5-6.

Con il generoso consiglio di «osare di più».

Ma in realtà — e qui scatta la tipicità del mio profilo di scrittore — a me 5-6 va benissimo!

Lo sapete: "il labirinto della speranza" è un thriller psicologico, un dark romance, ha un sapore paranormale, ma è narrativa moderna, con filosofia, citazioni colte e personaggi che mutano e si trasformano profondamente.

E ci sono scene spinte ("poco esplicite", e mi va alla grande 🙌).

Insomma, le mie saghe, proprio come L’Anello di Saturno, sono dei cocktail di generi.

Sono dei mojito, dei daiquiri alla fragola, delle pina colada, dei gin tonic.

Non sono un purista, non verso il whisky senza ghiaccio o il rum barricato 36 mesi in un bicchiere di cristallo direttamente da una botte di Cuba.

No.

Io faccio libri per tutti, che possano piacere a una varietà di persone, ognuna con la propria chiave di lettura.

È la mia forza, e anche la mia debolezza.

Questa mia scelta — derivata sia dal mio profilo personale artistico-psicologico, sia dal mio voler fare impresa — non è senza rischi.

Il primo rischio, quello preponderante che mi aspetta al varco, è di non piacere a nessuno.

Mi spiego.

Il lettore che cerca il thriller vuole subito la scena del cadavere che viene tirato via di notte nella foresta da un uomo affannato.
Chi vuole l’erotico, pretende descrizioni più spinte.
Chi cerca la psicologia approfondita magari disdegna la storia d’amore, et cetera…

Un cocktail rischia di scontentare tutti.

Ma chi mi sceglie, lo fa perché cerca qualcosa che non trova altrove: un cocktail fatto ad arte, con sapienza, equilibrio e sensibilità, può essere qualcosa di veramente esplosivo.

E ambizioso.

Poiché è proprio fondendo i generi tra loro, unendoli in un unico grande e nuovo sapore, che si può produrre un nuovo sapore: indistinto, morbido, unico, intenso e variegato, che lascia il desiderio di volerne ancora.

"L’Anello di Saturno" ne è un primo esempio embrionale, di questa mia ricerca.

Ho fuso il romance e il fantasy, con un tocco di filosofia, archeologia, avventura e thriller.

Io penso che il futuro della narrativa sia proprio lì, in questa strada di commistioni.

Non a caso esistono già parole che fanno la crasi dei generi (il romantasy).

E perché non crearne di nuove, e andare alla ricerca di nuovi sapori?

Eccomi, sono pronto.

Mettetevi al bancone, che vi servo un nuovo cocktail.

Se non mi avete già provato, ci sono sia La Divina Avventura (fantasy, fantascienza, spirituale, avventura) sia L’Anello di Saturno (romance, fantasy, avventura, archeologia) ad aspettarvi, nell’attesa di finire nel mio labirinto.

The Perfect Cocktail

Yesterday I spoke with a writer who specializes in erotic fiction (thank you Raffaella!). I kindly asked her to give me a return regarding a "spicy" scene in the second volume of The Labyrinth of Hope.

Since I am not a reader of modern erotic fiction, I did not know where I stood, on a scale of 1 to 10.

I grew up with Manara, and those who know me know that verbal elegance is a hallmark of my poetics.

Without too much surprise, I realized that the warmth of the scene ranked around a 5-6.

With the generous advice to "dare more."

But actually - and this is where the typicality of my writer's profile kicks in - 5-6 is just fine with me!

You know it: "The Labyrinth of Hope" is a psychological thriller, a dark romance, it has a paranormal flavor, but it is modern fiction, with philosophy, learned quotations and characters that change and transform deeply.

And there are thorny scenes ("not very explicit," and I'm okay with that 🙌).

In short, my sagas, just like The Ring of Saturn, are cocktails of genres.

They are mojitos, strawberry daiquiris, pina coladas, gin and tonics.

I'm not a purist, I don't pour whiskey without ice or 36-month barreled rum in a crystal glass straight from a barrel in Cuba.

No.

I make books for everyone, that can appeal to a variety of people, each with their own key.

It is my strength, and also my weakness.

This choice of mine-derived both from my personal artistic-psychological profile and from my wanting to do business-is not without risk.

The first risk, the preponderant one waiting in the wings for me, is that no one will like me.

Let me explain.

The reader looking for the thriller immediately wants the scene of the corpse being pulled away at night in the forest by a harried man.
Those who want the erotic demand thornier descriptions.
Those who seek in-depth psychology perhaps disdain romance, et cetera...

A cocktail is likely to displease everyone.

But those who choose me do so because they are looking for something they cannot find elsewhere: a cocktail artfully made, with wisdom, balance and sensitivity, can be something truly explosive.

And ambitious.

For it is precisely by fusing genres together, combining them into one great new flavor, that a new flavor can be produced: indistinct, smooth, unique, intense and varied, leaving one wanting more.

"Saturn's Ring" is an early embryonic example of this, of my quest.

I fused romance and fantasy, with a touch of philosophy, archaeology, adventure and thriller.

I think the future of fiction is right there, in this avenue of blending.

It's no coincidence that there are already words that do the crasis of genres (romance).

And why not create new ones, and go in search of new flavors?

Here I am, I'm ready.

Step up to the bar, and I will serve you a new cocktail.

If you haven't already tried me, there are both The Divine Adventure (fantasy, science fiction, spiritual, adventure) and The Ring of Saturn (romance, fantasy, adventure, archaeology) waiting for you, waiting for you to end up in my labyrinth.

Le cocktail parfait

Hier, j'ai parlé avec une écrivaine spécialisée dans la fiction érotique (merci Raffaella!). Je lui ai gentiment demandé de me faire un retour sur une scène "épicée" dans le deuxième volume du Labyrinthe de l'espoir.

N'étant pas une lectrice de fiction érotique moderne, je ne savais pas où je me situais, sur une échelle de 1 à 10.

J'ai grandi avec Manara, et ceux qui me connaissent savent que l'élégance verbale est une caractéristique de ma poétique.

Sans trop de surprise, j'ai réalisé que la chaleur de la scène se situait autour de 5-6.

Avec le généreux conseil d'"oser plus".

Mais en réalité - et c'est là qu'intervient la typicité de mon profil d'écriture - le 5-6 me convient parfaitement !

Vous le savez : "Le labyrinthe de l'espoir" est un thriller psychologique, une romance sombre, il a une saveur paranormale, mais c'est une fiction moderne, avec de la philosophie, des citations savantes et des personnages qui changent et se transforment profondément.

Et il y a des scènes coquines (" pas très explicites ", et je suis tout à fait d'accord avec ça 🙌).

Bref, mes sagas, tout comme L'Anneau de Saturne, sont des cocktails de genres.

Ce sont des mojitos, des daiquiris à la fraise, des pina coladas, des gin-tonics.

Je ne suis pas un puriste, je ne verse pas de whisky sans glace ou de rhum barricadé 36 mois dans un verre en cristal tout droit sorti d'un tonneau à Cuba.

Non.

Je fais des livres pour tout le monde, qui peuvent plaire à une variété de personnes, chacune avec sa propre clé.

C'est ma force, mais aussi ma faiblesse.

Ce choix - qui découle à la fois de mon profil artistico-psychologique personnel et de mon désir de faire des affaires - n'est pas sans risque.

Le premier risque, celui qui m'attend en priorité, c'est que personne ne m'aime.

Je m'explique.

Le lecteur qui cherche le thriller veut tout de suite la scène du cadavre tiré la nuit dans la forêt par un homme harassé.
Celui qui veut de l'érotisme exigera des descriptions plus épineuses.
Ceux qui recherchent une psychologie approfondie dédaigneront peut-être la romance, etc..

Un cocktail est susceptible de déplaire à tout le monde.

Mais ceux qui me choisissent le font parce qu'ils recherchent quelque chose qu'ils ne trouvent pas ailleurs : un cocktail fait avec art, avec sagesse, équilibre et sensibilité, peut être quelque chose de vraiment explosif.

Et ambitieux.

Car c'est précisément en mélangeant les genres, en les unissant dans une grande saveur nouvelle, que l'on peut produire un nouveau goût : indistinct, doux, unique, intense et varié, qui vous laissera sur votre faim.

the Ring of Saturn" est un premier exemple embryonnaire de cette quête.

J'ai fusionné le romantisme et le fantastique, avec une touche de philosophie, d'archéologie, d'aventure et de thriller.

Je pense que l'avenir de la fiction est là, dans cette voie du mélange.

Ce n'est pas un hasard s'il existe déjà des mots qui font le croisement des genres (romance).

Et pourquoi ne pas en créer de nouveaux, partir à la recherche de nouvelles saveurs ?

Me voici, je suis prêt.

Approchez-vous du bar, et je vous servirai un nouveau cocktail.

Si vous ne m'avez pas encore essayé, il y a The Divine Adventure (fantastique, science-fiction, spirituel, aventure) et The Ring of Saturn (romance, fantastique, aventure, archéologie) qui vous attendent, qui attendent que vous vous retrouviez dans mon labyrinthe.

El cóctel perfecto

Ayer hablé con una escritora especializada en ficción erótica (¡gracias Raffaella!). Le pedí amablemente que me diera una respuesta sobre una escena "picante" del segundo volumen de El laberinto de la esperanza.

Al no ser lectora de ficción erótica moderna, no sabía a qué atenerme, en una escala del 1 al 10.

Crecí con Manara, y quienes me conocen saben que la elegancia verbal es una seña de identidad de mi poética.

Sin demasiada sorpresa, me di cuenta de que la calidez de la escena rondaba el 5-6.

Con el generoso consejo de "atreverse a más".

Pero en realidad -y aquí es donde entra en juego la tipicidad de mi perfil de escritor-, ¡el 5-6 me va como anillo al dedo!

Ya lo sabes: "El laberinto de la esperanza" es un thriller psicológico, un romance oscuro, tiene un sabor paranormal, pero es ficción moderna, con filosofía, citas eruditas y personajes que cambian y se transforman profundamente.

Y hay escenas subidas de tono ('no muy explícitas', y yo estoy a favor de eso 🙌).

En definitiva, mis sagas, al igual que El anillo de Saturno, son cócteles de géneros.

Son mojitos, daiquiris de fresa, piñas coladas, gin tonics.

No soy purista, no sirvo whisky sin hielo ni ron de 36 meses atrincherado en una copa de cristal directamente de un barril en Cuba.

No.

Hago libros para todos, que pueden gustar a una gran variedad de personas, cada una con su propia clave.

Es mi fuerza, y también mi debilidad.

Esta elección mía -derivada tanto de mi perfil artístico-psicológico personal como de mi deseo de hacer negocios- no está exenta de riesgos.

El primer riesgo, el preponderante que me espera, es que no le guste a nadie.

Me explico.

El lector que busca el thriller quiere inmediatamente la escena del cadáver arrancado de noche en el bosque por un hombre acosado.
Los que quieren erotismo exigirán descripciones más espinosas.
Los que buscan psicología en profundidad quizá desdeñen el romance, etcétera..

Es probable que un cóctel desagrade a todos.

Pero los que me eligen lo hacen porque buscan algo que no encuentran en otra parte: un cóctel hecho con arte, con sabiduría, equilibrio y sensibilidad, puede ser algo verdaderamente explosivo.

Y ambicioso.

Porque es precisamente mezclando géneros, uniéndolos en un nuevo gran sabor, como se puede producir un nuevo sabor: indistinto, suave, único, intenso y variado, que te deja con ganas de más.

el anillo de Saturno" es un primer ejemplo embrionario de esta búsqueda mía.

He fusionado romance y fantasía, con un toque de filosofía, arqueología, aventura y thriller.

Creo que el futuro de la ficción está ahí, en esta vía de mezcla.

No es casualidad que ya existan palabras que hacen el cruce de géneros (romance).

¿Y por qué no crear otras nuevas e ir en busca de nuevos sabores?

Aquí estoy, estoy listo.

Acércate a la barra y te serviré un nuevo cóctel.

Si aún no me has probado, te esperan La aventura divina (fantasía, ciencia ficción, espiritual, aventura) y El anillo de Saturno (romance, fantasía, aventura, arqueología), esperando a que acabes en mi laberinto.

Effimeri come farfalle

Ho visto un video di Nadal, a cui viene dato l’onore, dopo aver vinto ben 14 Roland Garros, di avere una lastra incisa su uno dei campi ufficiali del torneo.

Questo mi ha fatto capire una cosa allo stesso tempo terribile e leggera, tragica ed effimera.

Nadal, tennista senza precedenti, me lo ricordo con i capelli lunghi e il braccio teso. La gamba lunga, il polsino giallo. Un gladiatore del campo, contro Federer, Djokovic, contro tutti.

Ora, davanti alla vista della sua impronta incisa nel marmo, sporca di terra battuta, rossa come il deserto al tramonto, davanti a una platea commossa quanto lui, scoppia a piangere. Accanto a lui, abbracci. Un momento che ha commosso anche me, ma che poi ha fatto emergere nel mio cuore una sensazione ambigua.

Siamo un battito d’ali,
e diventiamo una lastra
nel migliore dei casi.

Spesso l’artista si ritrova ad affrontare la sua mortalità. In realtà, l’arte è un piccolo sogno di immortalità, un desiderio di superare la soglia del tempo con un lascito, che anch’esso, prima o poi, diventerà, come dice tanto bene Rutger Hauer in Blade Runner: «lacrime nella pioggia».

Se non è ora, è tra cento anni. Se non sono cento saranno mille, o miliardi. Che importa il tempo, se confrontato con la nostra finitudine e l’immensità del creato?

Forse un giorno affronterò una «saga» che sia anche questo. Un procedere nel tempo, lasciando che i protagonisti di una pagina diventino un ricordo lontano pochi capitoli dopo, e infine, una statua, un’effigie, una frase, un pensiero a cui nessuno è più capace di collegare l’autore, ma che è ancora presente, che permea la coscienza.

La bellezza della vita è nel presente, nella scoperta dell’ignoto che ci circonderà sempre, sia nel tempo che nello spazio. L’arte è il simbolo della nostra finitudine: come farfalle estemporanee, voliamo d’idea in idea, verso una roccia stabile, che lanciamo tra le onde del tempo, sperando che qualcuno, dall’altra parte della soglia, continui il testimone.

Sì, un giorno affronterò questo tema con coraggio. Con una saga che avrà gli esseri umani come formiche, protagonisti di pagine nell’oceano del tempo. Non ne ho ancora i mezzi; è probabilmente qualcosa che mi richiederà tutta l’energia che ho, tutta la saggezza e la forza.

Perché, siamo onesti, affrontare «la leggerezza esistenziale» richiede un coraggio da leoni, la saggezza di Platone e una tecnica eccelsa.

Per ora, mi diletto nello strutturare il terzo volume de Il labirinto della speranza e mettere a posto il secondo volume. Che casino! Un castello intricato, pieno di trappole e illusioni, un labirinto di specchi dove vedo frammenti di me, di coloro che incontro.

Tra l’altro, mi rendo conto sempre di più che adoro ascoltare gli altri. Perché sono una continua fonte di ispirazione per i miei personaggi, le mie storie. Appena sento qualcosa di interessante, lo assorbo e lo inietto nel mio percorso.

E mi rendo conto che più tendo le orecchie e apro gli occhi, più il mondo mi regala perle da mettere alle mie collane.

Ephemeral as butterflies

I saw a video of Nadal, who is given the honor, after winning no fewer than 14 Roland Garros, of having a slab engraved on one of the tournament's official courts. This made me realize something at once terrible and light, tragic and ephemeral. Nadal, a tennis player without precedent, I remember him with his long hair and outstretched arm. The long leg, the yellow cuff. A gladiator of the court, against Federer, Djokovic, against everyone. Now, in front of the sight of his footprint etched in marble, dirty with clay, red as the desert at sunset, in front of an audience as moved as he was, he bursts into tears. Next to him, hugs. A moment that moved me too, but then brought out an ambiguous feeling in my heart. We are a flutter of wings, and we become a slab at best. Often the artist finds himself facing his mortality. In reality, art is a little dream of immortality, a desire to cross the threshold of time with a legacy, which too, sooner or later, will become, as Rutger Hauer says so well in Blade Runner: "tears in the rain." If it is not now, it is a hundred years from now. If it is not a hundred it will be a thousand, or billions. What does time matter when compared to our finitude and the immensity of creation? Perhaps one day I will tackle a "saga" that is also this. A proceeding through time, letting the protagonists of one page become a distant memory a few chapters later, and finally, a statue, an effigy, a sentence, a thought to which no one is able to connect the author anymore, but which is still present, permeating consciousness. The beauty of life is in the present, in the discovery of the unknown that will always surround us, both in time and space. Art is the symbol of our finitude: like extemporaneous butterflies, we fly from idea to idea, toward a stable rock, which we toss through the waves of time, hoping that someone on the other side of the threshold will continue the baton. Yes, someday I will boldly address this theme. With a saga that will have human beings as ants, protagonists of pages in the ocean of time. I don't have the means yet; it's probably something that will require all the energy I have, all the wisdom and strength. Because, let's be honest, tackling "existential lightness" requires lion courage, Plato's wisdom, and sublime technique. For now, I'm dabbling in structuring the third volume of The Labyrinth of Hope and putting the second volume in place. What a mess! A tangled castle, full of traps and illusions, a labyrinth of mirrors where I see fragments of me, of those I meet. By the way, I realize more and more that I love listening to others. Because they are a constant source of inspiration for my characters, my stories. As soon as I hear something interesting, I absorb it and inject it into my path. And I realize that the more I tense my ears and open my eyes, the more the world gives me pearls to put on my necklaces

Ephémère comme les papillons

J'ai vu une vidéo de Nadal, qui a l'honneur, après avoir gagné pas moins de 14 Roland Garros, d'avoir une dalle gravée sur l'un des courts officiels du tournoi. Cela m'a fait prendre conscience de quelque chose d'à la fois terrible et léger, tragique et éphémère. Nadal, joueur de tennis sans précédent, je me souviens de lui avec ses longs cheveux et son bras tendu. La longue jambe, la manchette jaune. Un gladiateur du court, contre Federer, Djokovic, contre tout le monde. Maintenant, devant la vue de son empreinte gravée dans le marbre, salie par la terre battue, rouge comme le désert au coucher du soleil, devant un public aussi ému que lui, il éclate en sanglots. A côté de lui, des accolades. Un moment qui m'a ému aussi, mais qui a fait naître un sentiment ambigu dans mon cœur. Nous sommes un battement d'ailes, et nous devenons au mieux une dalle. Souvent, l'artiste est confronté à sa propre mortalité. En réalité, l'art est un petit rêve d'immortalité, un désir de franchir le seuil du temps avec un héritage qui, tôt ou tard, deviendra lui aussi, comme l'a si bien dit Rutger Hauer dans Blade Runner : "des larmes sous la pluie". Si ce n'est pas maintenant, ce sera dans cent ans. Si ce n'est pas cent ans, ce sera mille ans, ou des milliards. Qu'importe le temps face à notre finitude et à l'immensité de la création ? Peut-être qu'un jour je m'attaquerai à une "saga" qui sera aussi cela. Une progression dans le temps, laissant les protagonistes d'une page devenir un lointain souvenir quelques chapitres plus loin, et enfin, une statue, une effigie, une phrase, une pensée dont plus personne ne peut relier l'auteur, mais qui est toujours présente, qui imprègne la conscience. La beauté de la vie est dans le présent, dans la découverte de l'inconnu qui nous entourera toujours, aussi bien dans le temps que dans l'espace. L'art est le symbole de notre finitude : tels des papillons improvisés, nous volons d'idée en idée, vers un rocher stable, que nous jetons dans les vagues du temps, en espérant que quelqu'un, de l'autre côté du seuil, reprendra le flambeau. Oui, un jour, je m'attaquerai hardiment à ce thème. Avec une saga où l'être humain sera une fourmi, protagoniste de pages dans l'océan du temps. Je n'en ai pas encore les moyens, c'est probablement quelque chose qui me demandera toute mon énergie, toute ma sagesse et toute ma force. Car, soyons honnêtes, s'attaquer à la " légèreté existentielle " demande un courage de lion, une sagesse de Platon et une technique sublime. Pour l'instant, je m'efforce de structurer le troisième tome du Labyrinthe de l'espoir et de mettre de l'ordre dans le deuxième tome. Quelle pagaille ! Un château complexe, plein de pièges et d'illusions, un labyrinthe de miroirs où je vois des fragments de moi, de ceux que je rencontre. D'ailleurs, je réalise de plus en plus que j'aime écouter les autres. Parce qu'ils sont une source constante d'inspiration pour mes personnages, mes histoires. Dès que j'entends quelque chose d'intéressant, je m'en imprègne et l'injecte dans mon parcours. Et je m'aperçois que plus je tend les oreilles et ouvre les yeux, plus le monde m'offre des perles à mettre sur mes colliers

Efímeros como mariposas

He visto un vídeo de Nadal, a quien se le concede el honor, tras ganar nada menos que 14 Roland Garros, de tener una losa grabada en una de las pistas oficiales del torneo. Esto me ha hecho darme cuenta de algo a la vez terrible y ligero, trágico y efímero. Nadal, un tenista sin precedentes, lo recuerdo con su pelo largo y su brazo extendido. La pierna larga, el puño amarillo. Un gladiador de la pista, contra Federer, Djokovic, contra todos. Ahora, ante la visión de su huella grabada en mármol, sucia de arcilla, roja como el desierto al atardecer, ante un público tan conmovido como él, rompe a llorar. A su lado, abrazos. Un momento que también me conmovió, pero que a continuación hizo aflorar un sentimiento ambiguo en mi corazón. A menudo, el artista se enfrenta a su propia mortalidad. En realidad, el arte es un pequeño sueño de inmortalidad, un deseo de cruzar el umbral del tiempo con un legado, que también, tarde o temprano, se convertirá, como Rutger Hauer dijo tan acertadamente en Blade Runner: "lágrimas en la lluvia". Si no es ahora, será dentro de cien años. Si no son cien, serán mil, o miles de millones. ¿Qué importa el tiempo en comparación con nuestra finitud y la inmensidad de la creación? Quizás algún día aborde una "saga" que también sea esto. Una progresión en el tiempo, dejando que los protagonistas de una página se conviertan en un recuerdo lejano unos capítulos más tarde, y finalmente, una estatua, una efigie, una frase, un pensamiento al que ya nadie es capaz de vincular al autor, pero que sigue presente, que impregna la conciencia. La belleza de la vida está en el presente, en el descubrimiento de lo desconocido que siempre nos rodeará, tanto en el tiempo como en el espacio. El arte es el símbolo de nuestra finitud: como mariposas improvisadas, volamos de idea en idea, hacia una roca estable, que lanzamos a las olas del tiempo, con la esperanza de que alguien, al otro lado del umbral, continúe el relevo. Sí, un día abordaré audazmente este tema. Con una saga que tendrá a los seres humanos como hormigas, protagonistas de páginas en el océano del tiempo. Aún no tengo los medios; probablemente sea algo que requerirá toda la energía de que dispongo, toda la sabiduría y la fuerza. Porque, seamos sinceros, abordar la "levedad existencial" requiere el coraje de un león, la sabiduría de Platón y una técnica sublime. Por ahora, estoy chapoteando en la estructuración del tercer volumen de El laberinto de la esperanza y poniendo en orden el segundo. ¡Menudo lío! Un castillo intrincado, lleno de trampas e ilusiones, un laberinto de espejos donde veo fragmentos de mí, de los que encuentro. Por cierto, cada vez me doy más cuenta de que me encanta escuchar a los demás. Porque son una fuente constante de inspiración para mis personajes, mis historias. En cuanto oigo algo interesante, lo absorbo y lo inyecto en mi viaje. Y me doy cuenta de que cuanto más tenso los oídos y abro los ojos, más perlas me regala el mundo para poner en mis collares

The inner crisis

Crisis comes for everyone.Like an appointment with ourselves, there comes the wound that does not heal, that with every cycle reminds us that we have a score to settle with ourselves.By now I feel it, I recognize it, I see it coming from afar, and yet it still catches me.It catches me in the lowest, most fragile parts of my self. Those that are open to criticism, that have a seed of doubt growing with them. My fragile sides, if you will. But as I get sharper and sharper with age, more and more self-aware, the crisis becomes blurry, almost ethereal. It's there but you can't see it. It's there but I can't define it. And that makes it even harder for me to deal with. They say that if to a problem there is a solution, then there's no use worrying about it.
And if to a problem the solution is not there, then it is useless to worry as well. In short, it is useless to worry. But what if the state of mind we feel is foggy? What if the only thing we understand about our energy is the gray, dominant dimension like a winter sky? What to do? Wait for the sun? Just accept it? Or blow with all the strength we have to sweep it away? I don't know. I write this page partly out of inertia, partly because I know that writing demons brings them out and, in a sense, melts them under the sunlight.
There is little sunshine today, but who knows, maybe it will work.I have two cats.They, I have to say, are crazy.It seems like every day is a good day to cuddle with me, to be near me.One of them, Bijou, has a symbiotic relationship with me.He likes to be on my belly.
And I like to think it's to nurse me, to soak up energy, to be gentle. Sometimes I fear that silence is a gilded cage -- a place of reunion with myself that becomes an ivory tower, where I isolate myself and lose the notion of being well.
I bask in a state of mind, I lull myself in it, I lose myself in it. Those who write know: the relationship with words is something beyond spelling and grammar. It is a challenge to oneself. I turn, I turn, but I can't catch that ghost that lurks in my wake.
That thought that "something" (what, who knows?) is not exactly in place. Vagueness as an inner crisis, who would have thought it. At this point I have the doubt that, rather than crisis, this is a manifestation of intent of unresolved crisis. A mad desire I have to be this way, and since I have no appropriate justification, I accept it for what it is: undefined. And here I return to my eternal return, the continual source of my poetics: the will.
The will to be well.And the will to be sick.Could it really be so.Now I'm going for a nice walk and I'm sure that,on the way back,something will be different.Who knows,maybe I'll continue on the page after the return.-Life knocked just as I was about to leave the house.Electra has a tummy ache.I have to pick her up from school.She's fine but needs to rest,so to bed.As always,amazement is around the corner.Apparently,one only has to wait to get back on the road..

Informativa sulla Privacy - Estratto

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Ultimo aggiornamento: 06 gennaio 2024

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