La rivoluzione in corso

In questi giorni, finito Il Paradiso delle Signore, ho approfittato per recuperare un po’ di contatti con la mia famiglia, sparsa tra Italia e Francia.
Sono andato da mia sorella. Lei fa un lavoro incredibile, è un’infermiera. Di quelle che stavano in prima linea durante il Covid, alle quali tutti inneggiavano balletti e promesse di aumento. Potete immaginare come sia andata a finire.
Ma non è questo il punto.
Parlando con lei, è venuto fuori l’argomento dell’intelligenza artificiale. Come sapete, ci lavoro da ormai più di quattro anni. Il mio approccio è prettamente artistico, cerco di comprenderne le potenzialità, i limiti.
Lei lo ha usato per organizzare il suo viaggio:
“Voglio andare lì, organizza qualcosa che sia X, Y, Z.”
E ovviamente ChatGPT ha organizzato tutto perfettamente, come un bravo assistente.
E mi sono detto:
“Pensa, il suo lavoro, che è a stretto contatto con gli esseri umani, è uno dei pochi che non ha un reale vantaggio se viene coadiuvato dall’implementazione di ChatGPT.”
Questo vuol dire che il suo settore non verrà segnato così tanto dalla rivoluzione in corso.
Non è un discorso nuovo, ma è bene ribadirlo: i lavori che richiedono il tocco umano, che sono i lavori di prossimità tra esseri umani, non saranno in crisi, anzi.
Se posso fare una previsione personale, penso che nei prossimi 5-10 anni ci sarà la fila per fare questi lavori, perché saranno meglio remunerati e più ambiti. Insomma, il panorama cambierà nettamente.
Ma per quanto riguarda i lavori intellettuali?
Quelli che richiedono conoscenza di regole, logica, insomma, quelle cose che l’IA sembra fare benissimo?
Cosa succederà a tutti questi lavori che beneficiano enormemente dell’apporto dell’IA?
Penso che in questo caso, come dice il CEO di Nvidia, non sarà l’IA a rubare il lavoro, ma le persone che la usano.
Come se, nell’arco di pochi anni, gli LLM fossero diventati qualcosa alla stregua del computer o dell’elettricità. Strumenti che ci aumentano.
Sarebbe facile pensare che il nozionismo, la conoscenza in generale siano diventati merce di poco valore, dato che si può accedere a tutto con un clic o una chat.
Ma non è così.
E vi spiego il perché.
L’IA non fa altro che restituire la risposta statisticamente più corretta alla vostra domanda, usando come bacino di informazione tutti i dati a disposizione.
Una specie di Internet in scatola.
Seguendo questo ragionamento, ciò che farà la differenza nell’output non è l’IA, ma la qualità della domanda.
Si ritorna all’uomo come cuore dell’intento.
Senza l’uomo, l’IA rimane ferma.
È l’intento umano, il desiderio di scoperta, di trasformazione, ad animarla.
E come si migliora una domanda?
Come si fa a fare domande e richieste sempre più specifiche, acute, profonde?
Studiando.
Studiando come non mai.
Filosofia, lessico, ragionamento logico.
Tutto fa brodo.
Solo così sarà l’IA a lavorare per voi.
E non il contrario.
Alla prossima pagina.

La mia nuova saga

Sto completando la primissima stesura del primo volume della saga "Il Labirinto Della Speranza".

Parliamo di un testo non coeso, pieno di errori e strafalcioni. Ma è giusto che sia così. Prima si rigurgita un prodotto informe che poi, con arte, sapienza e pazienza, verrà cucito di bellezza e diamanti.

Sono al piano terra del mio palazzo.

Le fondamenta le ho elaborate per sei mesi: ho scritto, riscritto e riscritto mille volte la “storia”, quello che poi sapevo di dover affrontare nella scrittura della pagina.

Ogni saga, ogni libro, è prima di tutto una storia.

Una storia “grande” che può essere raccontata fuori dalle pagine del libro.

La mappa, se vogliamo. Le pagine sono il territorio nel quale lo scrittore scopre e disegna i dettagli di un mondo immaginato.

Ora sono in questa fase.

Ed è una fase incredibile, emozionante e difficile.

Incredibile, perché aperta allo stupore. Apro una porta ma non so cosa c’è dietro.

E sono io a dovermelo immaginare. È un confronto diretto con l’ignoto, una sorta di rincorsa verso qualcosa che non esiste ma che, nel momento in cui lo rincorriamo, si scrive, si crea.

Emozionante, perché mi ritrovo a rivivere pezzi della mia vita, traslati nelle vesti del protagonista, o dell’amico, o di un personaggio secondario.

Mi specchio, piango, rido, vivo la scrittura come fosse un pezzo di vita surreale, immaginato ma tangibile.

Difficile, perché la coesistenza di creatività e struttura dà adito a un dilemma che sa quasi di follia.

Vi spiego.

Ho una storia, che ha un inizio, un centro e una fine, come direbbe il buon vecchio Aristotele.

E fin qui, tutto bene. Facile. Sono in controllo. Certo, magari cambio una cosa piuttosto che un’altra, rimodello, invento.

Le idee a questo “livello” costano poco: sono cinque parole in più o in meno.

“Prende l’aereo e scappa” oppure “La bacia, rimane e si sposano”. Poche parole, un’infinita differenza.

Ma poi, arriva il momento in cui la storia è pronta ad essere distrutta dai personaggi.

Ah, i personaggi.

All’inizio sono qualcosa di ideale, che esiste appunto in quelle poche parole che definiscono la storia.

Per me, i personaggi sono definiti dalle azioni che prendono nella mia storia.

Ma poi, quando li scrivo, ecco che succede una specie di guerra tra il mio volere (la storia) e il loro volere!

Come anguille sgusciano, fuggono dalle mie redini, almeno ci provano.

E io, per non rompere il mio legame con loro, li assecondo.

Ma a volte tirano forte, fortissimo, verso un luogo in cui non possono andare!

E lì inizia un processo difficile, di compromesso tra il loro volere e il mio.

Ecco, sono lì, nella scrittura.

La saga prende forma.

Sarà molto diversa da L’Anello di Saturno.

Più oscura, più occulta, più veloce. Un labirinto nel quale spero di farvi entrare, divertire e, chissà, uscire diversi.

Alla prossima pagina.

Una lettera di Natale particolare.

Il Diario di oggi è diverso dal solito perché gira intorno ad una lettera, molto particolare.

E’ un testo scritto da me, da voi e c’è di mezzo anche il caso, anzi chiamiamolo "Destino", che ci è più famigliare.

Forse ricorderete quando più o meno un mese fa (precisamente il 29 Novembre) vi avevo proposto un gioco sui social: vi ho chiesto di commentare il video con un numero da 1 a 269 con la promessa che vi avrei risposto con una frase tratta dalla pagina corrispondente de "L’Anello di Saturno: Volume Terzo"

Il gioco era nato senza un fine, ma poi leggendo le frasi concatenate una dopo l’altra ho percepito una strana alchimia, come se avessero assunto un significato criptico, ma reale.

E così è nata questa Lettera che a mio avviso racchiude l’essenza del Natale, la sua magia che è fatta di condivisioni e di quelle piccole cose che sono in grado di regalare un’emozione.

Questa lettera la dedico a voi che mi seguite e mi leggete con affetto. Per tutti i vostri commenti, qui, sul diario, su Facebook, Instagram, via mail. Non è solo uno scambio, spesso sono io il primo ad essere arricchito da quello che mi scrivete.

E quindi, Auguri di Buon Natale e...

Alla prossima pagina

PS: ecco anche il video!

La fine di una storia

Sto strutturando l'ultimo volume della saga dell'Anello di Saturno, un volume che deve chiudere tutto. In poco meno di 60.000 parole, deve risolvere l'intera trama che ho tessuto, affinché l'opera possa essere davvero conclusa. Ho intrecciato temi, tempi, luoghi, persone e motivazioni in un arazzo i cui fili, finora, sono ancora penzolanti.

"La risoluzione"...

Un concetto che sembra essere stato dimenticata in questa società in perenne disequilibrio. Ma è uno di quei passaggi di cui avremmo tanto bisogno, ma che non arriva mai.

Diceva Mamet, a proposito delle serie TV moderne, "Manca la catarsi". Manca perché la serie TV è un prodotto che vende; e secondo le leggi del capitalismo, un prodotto di successo non può essere mandato fuori produzione. A livello narrativo, la catarsi equivale a mandare fuori produzione una storia. È la fine, il momento in cui l'opera acquista un senso compiuto, geometrico; il segno che la distingue e che dà, a tutti i partecipanti alla storia, spettatore incluso, un momento di raccoglimento, di crescita. Un momento dal quale non si torna indietro e sono in pochi ad avere il coraggio di intraprendere davvero quella strada, nell'arte.

Quando si esce da una storia, si spera di essere migliori di come ci si è entrati. A questo servono le storie belle: a farci vivere esperienze, emozioni, ad aprirci le porte dei sentimenti, ma anche della mente, in modo da farceli conoscere. A farci scoprire nuove regole, nuovi aspetti dell'umanità, ad arricchirci, ma non di denaro, ma di umanità. Tuttavia, il denaro è uno dei motivi per cui la catarsi sembra essere scomparsa dal radar della narrazione. Come direbbe Don Abbondio: "Questa catarsi non s'ha da fare!". E quindi le serie TV prodotte industrialmente, con riaperture continue da parte delle major, per sfruttare e spremere fino in fondo le loro storie.

Attenzione, non è una cosa nuova. Se pensate che inizialmente le fatiche di Ercole erano dieci e poi, "magicamente", ne sono spuntate altre due, credo che anche lì ci sia stato qualcuno che ha detto: "Ehi! Ma questi episodi di Ercole sono andati benissimo, facciamone altri due!".

Io, però, sono della scuola teatrale greca: per me la catarsi è essenziale, così come la risoluzione. Anche perchè non esiste catarsi senza risoluzione. La purezza dell'emozione può emergere solo dal silenzio dopo il punto finale.

La catarsi che il lettore prova a opera finita è, in un certo senso, la risoluzione dell'opera stessa, dell'autore.

Ma cosa è davvero una risoluzione per me? Si può parlare di risoluzione, in vita? Io penso di no. Penso che il destino sia sempre dietro l'angolo e quello che noi consideriamo la fine di qualcosa, poisi rivela invece l'inizio di qualcosa altro, di ancora più grande.

E sarà proprio di questo che parlerà il mio narratore (il Destino, appunto) nella saga dell'Anello di Saturno, di cui, peraltro, ho ricevuto ieri la prima bozza di copertina, realizzata da Antonello. E più avanti ve la mostrerò.

Alla prossima pagina.

Un firmacopie disastroso


Mi conoscete, non sono un divo. Tutt'altro. Provo ad essere radicato al suolo, forse proprio per questo mio essere stato sradicato così tanto da giovane, sento la necessità di essere gentile con tutti, anche con chi non incontrerò più. È un modo per lasciare un segno positivo nel mondo, per migliorarlo, se vogliamo. Perché a volte, basta un grazie per far sorridere qualcuno.

Ma ciò che sto per raccontarvi mi ha fatto davvero incavolare. Come sapete, sabato scorso avevo un firmacopie in una grande libreria romana. Non farò il nome, chi vuole può andarsela a cercare. Premetto che so che ogni libreria agisce in piena autonomia, e che vi sono dei limiti, anche legali, su cosa si può o non può mettere all'interno di uno spazio pubblico. Poiché vanno rispettate certe distanze per i passaggi etc.

Ma vi pare normale che un autore, che va in una libreria a firmare delle copie (si spera) del proprio libro, non venga fornito di un tavolo dove sedersi? Io lo trovo allucinante. A prescindere che fossi io un attore di TV o un giovane autore, non importa. Ognuno merita il buonsenso. Se vi dico di chiudere gli occhi e immaginare così, come uno scatto fotografico, un autore che firma copie, voi cosa vedete? Vedete il lettore che dà la sua schiena a gobbo per permettere all'autore di firmare? L'autore che pianta il libro al muro e cerca con una mano di scrivere in verticale?

No, vedete una persona, tranquilla, seduta al tavolo, con una pila di libri a destra e sinistra, una fila di persone che aspettano, e lui che, sorridente, firma e restituisce le copie.

Quindi potete immaginare cosa ho pensato, alle 11 precise, quando sono arrivato nella libreria e ho visto questo:

Devo dire che sul momento mi sono sentito piccato, poi ho chiamato la casa editrice, cercando di capire se fosse normale (io non essendo di questo mondo, potevo anche avere un'idea sbagliata), e le risposte sono state "ma no, normalmente c'è un tavolo". E te credo.

Visto che l'orario non era proprio diciamo "leggero" (11-19), appena mi sono visualizzato lì, come una zucchina in mezzo ai libri, seduto su uno sgabello, vampate dello straniero di Camus mi sono ritornate nel cuore. No, io così no. Ecco cosa mi sono detto. Mi vergognavo anche un po', temendo che fosse divismo, ma poi ci siamo detti: "no, non esiste!" e alle 13 sono andato via a malincuore.

Dico a malincuore perché so che molti di voi erano venuti nel pomeriggio, nella speranza di incontrarmi, e purtroppo non c'ero. Ho chiesto scusa, e mi prendo la responsabilità di questo gesto.

Ma a volte, bisogna esprimere la propria necessità di rispetto. Non fa bene solo a chi lo fa, ma, si spera, anche a chi ascolta.

Alla prossima pagina.

Continua

Un tuo soffio
Mi accende
Mi brucia.
Ti sfioro col pensiero
E mi travolgi
Con un niente.
Ho fisse nella mente
Voglie continue di te.
Continua.

Libero

Mi inginocchio
Libero nella resa,
Pronto a perdere il senno,
A prendere il seno,
A lasciare che fugga
Ogni cosa che ho,
A lasciare che venga
Ogni cosa che vive.

Torna

Torna, o musa
Come segno o come scusa
Lascia che ti prenda
Nei miei sogni,
In una tenda
A scoppiare di calore,
Di sudore,
Nel silenzio tra le erbe
Incontaminate
Delle tue urla.

Trova la tua corda

Oggi vi racconto un aneddoto della mia carriera di regista. Iniziai come assistente alla regia di un grande, purtroppo scomparso, regista: Marco Sciaccaluga, al Teatro Stabile di Genova.

Ciao, Marco.

Ero assistente alla regia di uno spettacolo molto complesso, con oltre venti attori, scenografie imponenti e, come protagonista, Mariangela Melato, grandissima attrice, anch'ella mancata.

Ciao, Mariangela.

Il ruolo dell'assistente consiste nel segnare tutte le note di regia, suggerire agli attori, e, se il regista lo ritiene abbastanza abile, gestire aspetti minori come scene di transizione, fonica, luci, eccetera. Ma il vero compito dell'assistente, a teatro, è imparare, ascoltare, comprendere e avere una visione globale della macchina teatrale per poi diventare, un giorno, un regista.

Io annotavo sul mio copione, un labirinto di frecce, disegni, note importanti, maiuscole, minuscole, testo sbarrato, riscritto - una stele di Rosetta persino per me. Consumavo matite senza sosta. Ma il peggio era che quasi ogni giorno le perdevo. Dentro di me, non riuscivo a spiegarmi come, quasi immancabilmente, mi ritrovassi a fine giornata senza la matita acquistata il giorno prima.

Non c'era verso. Spariva. La causa era semplice: avevo la testa per aria, molte responsabilità da seguire e la matita diventava il simbolo della mia disattenzione. La trascuravo, povera matita. Marco mi prendeva in giro per questo. Io, testardo, mi ripetevo di dovercela fare. Acquistai una matita più costosa, sperando nel suo valore come deterrente all'oblio, ma anche lì fallii, finché un giorno decisi di legarla al copione con uno spago di canapa.

Arrivai in teatro mesto, vedendo questa scelta come una sconfitta, poiché, nella mia mente, non ero riuscito a disciplinarmi a sufficienza da non perdere le matite. Ma Marco, entusiasta, mi disse: «Dovresti essere contento, hai trovato una soluzione. Che importa se non è perfetta come quella che avevi in mente. Funziona. Ora vai avanti, devi lavorare.»

Ecco, questo piccolo aneddoto fu uno scalino che mi allontanò, ripensandoci, da quel mio desiderio di perfezione interiore che mi logorava. Credevo che l'unico vero modo per non perdere la matita fosse disciplinare me stesso. Trovare un modo per piegare mente e corpo, per educarmi. Quella corda io la vedevo come un mero trucco per nascondere la mia manifesta incapacità.

Ma non era così. Quella corda era un modo per andare avanti. Per continuare il grande percorso, quello importante, quello di imparare a fare il regista. E perdendo sempre le matite, sarebbe stato più difficile.
Quando abbiamo un problema, a volte basta una toppa, una corda, un po' di nastro adesivo o un po' di colla, e si riparte, più forti di prima!

Alla prossima pagina.

Voglio un luogo comune

Il luogo comune... prima di tutto cos'è?

Un luogo comune, noto anche come cliché o banalità, è un'idea, espressione, opinione o elemento narrativo che, a causa del suo uso eccessivo, ha perso di originalità, impatto ed efficacia. Si tratta di un pensiero o un concetto che è diventato così familiare e ripetitivo che non suscita più interesse o riflessione critica. I luoghi comuni possono essere trovati in vari contesti, dalla letteratura alla conversazione quotidiana, e spesso servono come scorciatoie per esprimere pensieri complessi in modo semplice, anche se a volte superficiali.

Una definizione tutto sommato negativa, che induce a pensare che il luogo comune sia tanto banale da dover essere bandito dal discorso collettivo.

Eppure, ieri, ragionando, mi sono reso conto che se non ci fossero i luoghi comuni, luoghi che per tutti noi vogliono dire la stessa cosa, non potremo discutere. Il luogo comune è un ponte che possiamo attraversare insieme, un luogo in cui non serve discutere, perché siamo già d'accordo. É un luogo di pace.

Persino la parola è luogo comune. I nomi delle cose non sono forse luoghi comuni? Se ognuno di noi chiamasse la rosa per un altro nome, potremmo davvero discutere della sua bellezza senza incappare in complicati malintesi?

In un momento così teso della società, in cui muoiono persone per volontà altrui, dove le bombe sono giustificate dall'odio, e l'odio è giustificato dalla fede, come si può non amare il luogo comune? Perchè alla fine, è proprio di questo che abbiamo bisogno.

Di un luogo comune.

E ce lo abbiamo, è qui. É attorno a noi. É un ragionamento utopico, idealista, ne sono consapevole, ma lasciatemi almeno una volta sognare il desiderio di un'umanità unita, che accetti che la terra sia la terra di tutti, che possa vivere insieme, in pace, collaborando, senza che individui pretendano ciò che è di altri come se fosse loro. Un'umanità che non eserciti più violenza, ma provi sempre, in ogni momento, a cercare un dialogo, un punto d'incontro: un unico luogo comune.

Forse un giorno ci arriveremo, grazie alla tecnologia, grazie ad un rinnovato umanesimo che, confrontato con i suoi limiti, porterà l'uomo alla consapevolezza di ciò che è: un piccolo granello di sabbia tra le ruote del cosmo, insignificante, periferico, fragile come una scintilla nei fondi del mare. E in quel momento, chissà, forse un granello si alzerà, aprirà le braccia e chiederà all'altro granello accanto a lui di prendergli la mano.

E tutti rimarranno a guardarsi, ad abbracciarsi, e a godere di quel poco di fortuna che ci è stata data.

I bambini non hanno colpe.

Alla prossima pagina.

Come la recitazione mi ha aiutato ad affrontare la timidezza

Quando ero un ragazzino, un giorno mio padre mi disse qualcosa che sconvolse la prospettiva sul mondo. Mentre mi parlava, stavo a braccia incrociate con un'espressione accigliata sul volto. Dovevo avere circa 13, 14 anni. Mi chiese se lo stavo ascoltando. Risposi di sì, ma lui replicò: "Se una persona ha le braccia incrociate, significa che non è aperta al dialogo, quindi non mi stai ascoltando davvero."

Dopo questa rivelazione, il mondo intorno a me cambiò. Cominciai a osservare i comportamenti degli altri: il modo in cui si comportavano, le braccia incrociate, le gambe incrociate, lo sguardo distante piuttosto che intensamente impegnato nell'interazione con me. Fu come se avessi scoperto una nuova dimensione della comunicazione, ed in effetti era così.

Questo percorso continuò, anni dopo, nei miei studi di recitazione. Dopotutto, quale altro mestiere costringe a una profonda comprensione dei comportamenti umani, con l'obiettivo di riprodurli o addirittura di assimilarli? Grotowski, in un celebre aneddoto, pose questa domanda: "Immaginate di essere in una foresta e di trovarvi davanti a un gigantesco grizzly. Cominciate a correre, quasi istintivamente. La mia domanda è: avete paura e quindi correte, oppure correte, e correndo diventate paurosi?"

Questa domanda racchiude uno dei grandi paradossi della recitazione: si giunge a un'emozione dall'esterno (la corsa) o dall'interno (la paura)? Da questa premessa nascono vari metodi di recitazione che cercano di favorire un approccio piuttosto che l'altro. La recitazione moderna, da Stanislavski all'Actor's Studio, propende per una ricerca interiore, per stabilire nel proprio io un'analogia personale con ciò che il personaggio prova, al fine di essere autentici. Ma è veramente così? Un altro famoso aneddoto coinvolge Laurence Olivier e Dustin Hoffman sul set de Il Maratoneta. Quest'ultimo amava correre per chilometri per entrare nel ruolo e un giorno Olivier gli disse: "Perché fai tutto questo? Devi solo recitare."

Io mi allineo più alla scuola di pensiero di Olivier, credo nella recitazione come un atto sincero e immediato, privo di psicologismi, che permette al personaggio di emergere, non nascosto dietro le rughe dell'attore, ma tra le righe del poeta.

Quindi, grazie alla consapevolezza acquisita attraverso la recitazione, a 20 anni decisi di non incrociare mai più le braccia. Ho trascorso i successivi 20 a impormi di essere aperto, costringendomi in un certo senso a essere ricettivo verso ciò che mi circondava. Questo è stato molto utile per me, dato che il mio essere timido e introverso aveva bisogno di questo cambio per trovare vitalità e crescita.

Poi, un mio maestro mi lasciò in una lettera d'addio, queste parole: "Ricorda: è proprio quando dici 'è troppo' che il lavoro inizia..." Niente di più vero. Così vero che, a un certo punto, intorno ai quarant'anni, mi resi conto che era arrivato il momento di incrociare nuovamente le braccia. Ero così abituato a non farlo, che la mia "crisi" sarebbe stata proprio questa: ritornare dentro di me. Riscoprire quella introversione che mi aveva plasmato così profondamente. Il mio primo cuore.

E quindi eccomi qui, a scrivere libri e pagine del Diario d'Artista.

Alla prossima pagina.

Il giavellotto

Fluttuo, sospeso dopo il lancio.
Sono fermo e fisso
La mia idea allontanarsi.
Essa sfreccia e vola
Verso il campo del reale.
Veloce taglia le nuvole,
Apre speranze,
Per conficcarsi nell'orizzonte.
Nell'attesa del colpo,
Nulla conta.

Il Volo

Ad occhi aperti cado
Verso la mia idea.
Braccia tese verso l'impatto
Creo ali col pensiero.
E forte di gravità,
Figlio del vento,
Scivolo sulla morte
E decollo,
Come l'illuso che mai atterra.

Espoir

Io spero
Che queste mille solitudini,
Queste formiche danzanti
Nell'occhio del destino
Si ritrovino un giorno,
Insieme,
Tra le braccia dell'amore.

Nunc

Come una scintilla
Negli abissi del mare
Siamo l'attimo vivo
Tra le erbacce del tempo.
L'urlo non udito
Il pugno mai sferrato,
Che infrange gli specchi
E sfonda porte aperte.
Mai come ora,
Brucia, il presente.

Splendente

Vivi d'immediati istinti presenti,
D'espedienti di niente,
D'ardori vivi e cuore di cristallo.
E quando l'anima quieta
Il buio infine abbraccia,
Degli abissi
Sii splendida lucciola.

Rete Sociale

Profili liquidi,
Cangianti e statici.
Mentori di sé stessi,
Alunni del proprio eco.
Piroette digitali
Gli occhi specchiati
Nell'oscurità
Dei loro display.

Piccolo

Delle ombre passano
Sopra la mia caverna,
Che non ha pareti come confini
Ma solo paure come burroni.
E si mescola la mia mente
Traccia linee casuali
Che disegnano solo
Ciò che l'io, solo, suppone.
Mentre tra i granelli di sabbia
Tra la schiuma e la spiaggia
C'è una vita arenata
Nelle onde del mare.

Ritorni

So che un tempo,
Io ero un tutt'uno con te.
Una sola ed unica
Sintesi d'ombra e luce.
Invisibile, ma così lucente
Da bruciare il creato.
L'esplosione
Ci strappò dall'abbraccio,
E lacerati,
Tornammo polvere,
Insieme.

Sogno Farfalle Quantiche

Regia, montaggio ed Effetti speciali: Flavio Parenti
Scritto da: Matteo Alfonso e Flavio Parenti
Cast: Matteo Alfonso, Flavio Parenti, Pier Luigi Pasino, Gisella Szanislo, Jacopo Bicocchi, Tommaso Benvenuti, Emiliano Iovine, Pietro Tammaro.

#ByMySide

Regia, montaggio ed Effetti speciali: Flavio Parenti
Scritto da: Pier Luigi Pasino e Flavio Parenti
Cast: Matteo Alfonso, Pier Luigi Pasino, Jacopo Bicocchi, Flavio Parenti.

Informativa sulla Privacy - Estratto

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Ultimo aggiornamento: 06 gennaio 2024

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