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Capitolo Uno

Ogni storia d’amore è un caos incantevole che si innalza sopra l’ordine predestinato. 

Permettimi, caro lettore, di presentarmi: sono il Destino.

In un’epoca lontana, antecedente l’esistenza di questa realtà, avevo ordinato l’universo in un regno di calma e pace. Dopo molteplici eternità, ero finalmente riuscito a organizzare gli elementi primordiali e a relegare il caos a un lontano ricordo. Tutto, nel mio mondo, era come lo desideravo: chiaro, lineare.

Esausto, ma soddisfatto per aver completato il mio compito, cedetti - solo per un istante - al pensiero del riposo. Fu in quel momento che l’Amore, mia eterna nemesi, fonte di disordine e imprevedibilità, colse l’opportunità per distruggere la mia impresa.

L’Amore sedusse gli elementi primordiali, imbevendoli di un magnetismo travolgente. Il loro contatto generò una scintilla che provocò l’esplosione delle esplosioni. Quello che tu, caro lettore, chiami il “Big Bang”, il ritorno al caos.

Da allora, lavoro incessantemente per restaurare l’ordine, ricucendo con fatica le trame del tempo e dello spazio, annodate e intrecciate a causa dell’Amore.

Tuttavia, devi sapere che poche storie causarono più scompiglio di quella che sto per narrarti: la storia di Luca e Anna.

Luca e Anna... due nomi che potrebbero sembrare comuni in un mondo di miliardi di altri nomi. Ma le loro anime erano imbevute della stessa essenza d’amore che sedusse gli elementi: un amore puro, l’amore dell’inizio dei tempi.

Ancora inconsapevoli, ignari l’uno dell’altra, Luca e Anna erano già inseparabili. Come due magneti carichi di eros, la loro vicenda sembrava già scritta: destinati a scatenare, nel momento in cui si sarebbero amati, un caos devastante nelle mie trame.

 

***

 

Il 13 agosto del 1995, nel quattordicesimo arrondissement di Parigi, una Citroën di colore giallo ocra era pronta a partire. Carica fino all’inverosimile, i bagagli di cuoio occupavano persino i posti posteriori. Tra le valigie, un ragazzino magro dalle spalle larghe, con gli occhiali spessi, era immerso nel suo Game Boy.

Luca Colonna, sedici anni, esperto di Tetris e di solitudine, giocava senza lanciare nemmeno uno sguardo alla città che fino a poco prima aveva chiamato “casa”. Le strade di Parigi erano ancora fresche di mattino, e fuori dall’abitacolo regnava un’allegra confusione, in netto contrasto con la sua anima spenta. Non era una vacanza, quella che l’attendeva, bensì un viaggio senza ritorno, l’ennesimo addio a tutto ciò che conosceva, il tredicesimo, per l’esattezza. Luca si sentiva come una pianta sradicata troppe volte, costretta a rifugiarsi nella solitudine per trovare un po’ di pace.

Alberto, il padre, quarantotto anni, era alto e robusto, con un folto baffo e capelli ricci. Quando parlava emanava un entusiasmo contagioso. Depositò l’ultima valigia, contenente il suo telescopio, sul tetto della Citroën e assicurò le robuste cinghie elastiche. «Si parte!» esclamò dando un colpo al camion dei traslochi parcheggiato davanti.

«Luca, hai preso tutto?» chiese Jane, la madre, quarantasette anni portati con eleganza. Capelli corti, sguardo di ghiaccio, era il motore sempre attivo della famiglia. Dopo aver gettato la Camel consumata sul marciapiede, la schiacciò sotto il suo stivale di coccodrillo e attese una risposta. Luca, troppo assorto nel tentativo di incastrare il pezzo a forma di “I” per fare Tetris, non rispose.

Alberto picchiettò con l’indice sul finestrino: «Luca, quando tua mamma ti parla sei pregato di rispondere».

«Sì, mamma, ho preso tutto», rispose il ragazzo senza distogliere lo sguardo dal gioco. Non aveva molto da portare con sé, il povero Luca, così abituato a partire da aver ridotto la sua vita in uno zaino. Non aveva nemmeno salutato Julien, il suo “migliore” amico, incontrato solo sei mesi prima. Luca conosceva gli addii fin troppo bene. Le lacrime ormai gli pesavano ed era stanco di quella tristezza, stanco persino di essere stanco. Lo aveva capito al sesto trasloco: meglio andare via senza dire nulla, si soffre meno.

Alberto avviò il motore mentre Jane, accendendosi un’altra Camel, riempiva l’abitacolo di fumo.

«Mamma, puoi aprire il finestrino per favore? Non mi piace l’odore», chiese Luca.

Jane, con un gesto nervoso, girò la manopola più volte finché l’aria di Parigi non sfiorò i suoi capelli corti. Guardò con lieve tristezza i monumenti scorrere, la sua vita. In quella città aveva vissuto il ’68, le proteste, le occupazioni studentesche, guidata da quel suo insegnante di matematica poi divenuto un noto politico.

Jane era una di quelle donne che indossavano i pantaloni quando tutte le altre preferivano le minigonne e guidava motociclette mentre le sue amiche cercavano un marito. Poi, invece, fu lei la prima a cadere vittima dell’Amore – con Alberto. E ora stava lasciando tutto per lui.

I bagagli sopra la sua testa, pieni di sogni, celavano il futuro di Alberto, talentuoso fisico teorico. Aveva ricevuto un promettente impiego al CNR di Roma, e Jane aveva accettato, non senza remore, di trasferirsi in Italia con l’uomo che aveva conquistato il suo cuore. Parlava un italiano perfetto, caratterizzato da una “erre moscia” e piccoli errori che sperava correggere presto, grazie alla lettura delle opere di Pavese.

Guardò suo figlio: era così solo, così fragile... poi posò la mano sul ginocchio di Alberto, concentrato alla guida.

Alberto le sorrise. Quanto la amava.

Jane estrasse una cassetta bianca dal portaguanti e la inserì nella radio. Pink Floyd. Propose poi di fermarsi al McDonald’s: «Luca, ti va? Ce n’è uno sull’autostrada».

Luca, senza distogliere lo sguardo dal gioco - al livello nove non ce lo si può più permettere - fece un piccolo cenno di assenso con la testa, sufficiente a fargli sbagliare il posizionamento di uno dei blocchi. «Merda...» mormorò sottovoce.

 

***

 

«Dormiremo dai nonni», dichiarò Alberto, con le mani stanche sul volante, mentre la Torre di Pisa iniziava a delinearsi all’orizzonte.

Luca, perennemente immerso nel suo mondo di pixel, aveva già esaurito due dei tre pacchetti di batterie che Jane gli aveva comprato. Non desiderava altro che giocare, per dimenticare ricordi troppo dolorosi, zeppi di amici di cui possedeva solo nomi e indirizzi per mandare loro la solita cartolina che sarebbe stata, come sempre, presto scordata.

Man mano che il tempo passava, Luca sperava che, in questo modo, potesse ritrovare quella felicità perduta. A volte si chiedeva se la sua vita fosse reale o solo frutto dell’immaginazione, come le storie nei libri che leggeva.

 

***

 

La casa dei nonni era intrisa di tipicità italiana: una villetta bifamiliare sul litorale toscano, che emanava un profumo antico. Il nonno era falegname, ristoratore, inventore e pittore: un uomo dalle mille risorse. La nonna, una donna paziente e gentile, era sarta e confezionava confetti per i matrimoni. Entrambi erano sopravvissuti alla guerra e avevano contribuito a ricostruire il paese con fatica e sudore.

Luca salì le scale di graniglia e, arrivato nel corridoio buio del secondo piano, notò vicino alla cornetta del telefono, sul mobiletto, il disegno che aveva realizzato l’ultima volta che era stato lì in vacanza. Era tra quelle mura che aveva perfezionato il suo italiano, immerso tra pinete e castagnaccio.

Prese la piccola cornice dorata in cui era stato inserito il suo disegno. Si distinguevano chiaramente gli occhi della nonna, di colore diverso: uno verde, l’altro marrone. Sopra, appeso al muro bianco, c’era un quadro che Luca aveva sempre interpretato come un animale fantastico: una strana figura rosa avvolta in un fondo nero.

Ma in quel momento, un evento straordinario accadde: la sua percezione del mondo si ribaltò. Per la prima volta, si rese conto che il quadro non raffigurava un animale magico ma una rosa e i suoi petali. Per anni aveva creduto che il nonno avesse dipinto una creatura fantastica, avvolta nelle tenebre e sorridente come la Gioconda, ma in realtà era solo una rosa, ordinaria e splendida.

Spesso, caro lettore, la forma delle cose inganna gli occhi di chi osserva. Ed è solo quando il caos si fa ordine che finalmente emerge la verità, e si è un passo più vicini alla pace.

«Ho preparato le lasagne, sei contento?» chiese il nonno a Luca, dando un colpetto al divano scamosciato del salone. «Siediti, devo dirti una cosa.»

Luca, ragazzo tanto intelligente quanto educato, ebbe la premura di spegnere il suo Game Boy, non solo per rispetto verso il nonno ma anche perché le batterie stavano esaurendosi e non poteva permettersi di rimanere senza. Così, ascoltò.

Il nonno parlò piano, con calore e accento toscano: «Devi essere buono con la nonna. Ha avuto un’operazione, le hanno tolto il seno. Non è una cosa facile per una donna, sai?». Questo era il nonno, un uomo d’altri tempi, sì, ma sensibile e moderno, sempre attento agli altri.

La mattina seguente, Luca e i suoi genitori ripresero la macchina. Si sarebbero rivisti a Natale, tra regali e presepi, durante una cena luculliana a base di pane sciocco, crostini ai funghi, lasagne, agnello con patate, tiramisù, caffè e ammazzacaffè.

Si sarebbero rivisti, caro lettore, se non fossi stato costretto a far succedere quello che successe.

 

***

 

L’autostrada era deserta, in quel giorno di Ferragosto, quando in Italia le strade rimangono spesso vuote.

«Manca poco», commentò Alberto, innestando la quinta. «Siamo quasi arrivati.» E, accendendo la freccia destra, si diresse verso Anagni.

Luca non notò il cartello blu con scritta bianca, era troppo immerso nel suo Game Boy, doveva finire prima che la spia rossa della batteria si spegnesse definitivamente. Sapeva che Tetris aveva una fine e, sebbene non conoscesse nessuno che fosse riuscito a raggiungerla, sperava di essere lui quello fortunato.

La spia del Game Boy si spense e Luca alzò gli occhi. Il sole picchiava sulla terra brulla delle verdi colline ciociare mentre la Citroën giallo ocra entrava nel viale alberato che conduceva ad Anagni.

Erano le 12:23 di giovedì 15 agosto 1995 quando Luca Colonna, finalmente, arrivò nella sua nuova città.

 

***

 

Il caldo era insopportabile. L’afa estiva aveva trasformato i sampietrini in pietre arroventate, dalle quali il vapore non emergeva più, tanto secca era diventata la loro superficie. Persino le nuvole sembravano essersi dileguate, lasciando il cielo alla mercé del sole che cuoceva a fuoco lento l’antico arco di Travertino, la porta Cerere, che segnava l’ingresso nel centro storico di Anagni.

«Hai tu il foglio con le indicazioni?» chiese Jane, alzando la voce per sovrastare il canto delle cicale che dominavano intorno. Vampate di calore secche strappavano il respiro.

Non c’era anima viva. Il centro di Anagni, borgo antico situato in cima alla valle del Sacco, 424 m sopra il livello del mare, era un luogo desolato.

A Luca bastò un passo per sentirsi immerso in una rovina archeologica abbandonata dal tempo e dagli uomini. Vide un campanile solitario emergere da dietro gli edifici bassi e antichi, accatastati e compressi. Era la cattedrale. 

Le serrande dei negozi erano tutte abbassate. Non c’era nemmeno l’odore di pane a suggerire l’esistenza di vita, in quella desolazione. Tutti gli anagnini erano fuggiti all’ombra fresca delle foreste o verso i venti del litorale.

Alberto estrasse dalla tasca un foglio inumidito dal sudore e dal viaggio, con sopra le indicazioni, e si incamminò per trovare la loro casa.

«E le valigie?» lo interpellò Jane.

Alberto, rifugiatosi sotto l’ombra della porta Cerere, cercava di capire la direzione da prendere: «Dopo, prima troviamo casa».

Luca alzò lo sguardo, osservando lo stemma della città: un’aquila che afferrava un leone, e delle chiavi con un manto.

Alberto lasciò quindi la macchina in mezzo alla piazza, rasserenato dal fatto che nessun vigile si sarebbe preoccupato di multarlo, e si avviò lungo la strada principale del piccolo borgo: corso Vittorio Emanuele. «Dovrebbe essere in fondo alla via», disse, orientando la mappa nella direzione giusta. E i tre procedettero verso la cattedrale a monte.

La casa ricordava quella dei nonni: una villetta situata in un cunicolo laterale che scendeva dalla strada principale verso la valle. Civico 38. Jane estrasse un mazzo di chiavi dalla sua borsa Givenchy e le passò ad Alberto, che aprì il grande portone di legno verde.

All’interno aleggiava un odore di luogo dimenticato. La freschezza che si sprigionò dall’oscurità fu un sollievo per Luca, che subito cercò un posto dove sedersi. Jane storse il naso: la polvere era così densa da essere visibile in controluce. «Devo trovare una donna delle pulizie», disse, entrando nel salone.

Luca si gettò sul divano, che rilasciò una nuvola di polvere. Quando la luce finalmente invase la stanza, un paesaggio mozzafiato si svelò davanti alla famiglia Colonna. La casa si affacciava sulla vallata ciociara, un luogo di straordinaria bellezza, un mix tra l’eleganza toscana e quel senso di natura selvaggia che ancora caratterizzava il Lazio.

Jane non poté fare a meno di sorridere di fronte ai colori della vallata. Gerani e begonie pendevano dalle finestre, avvolte dalla vigna americana che conferiva alla vista un’atmosfera romantica, persino più magica dell’entroterra della Costa Azzurra, che tanto amava.

«Ci hanno lasciato qualcosa in cucina! Spaghetti!» esclamò Alberto, che aveva già iniziato a esplorare le varie mensole di legno alla ricerca di pasta, olio, aglio e, magari, peperoncino. Trovò una grossa pentola di acciaio bianco, la riempì d’acqua e tentò di accendere i fornelli. Ma nulla, l’accendigas non si avviava. «Eppure il gas c’è», disse, ascoltando il sibilo silenzioso provenire dai fuochi, che tuttavia rimanevano spenti.

«Hai provato a premere il pulsante dell’accendigas?» chiese Jane, posando la borsa sulla tovaglia cerata.

«Certo che ho provato, ma non funziona, guarda.»

Nel frattempo, Luca, sdraiato sul divano e infastidito dalla luce, si era immerso nuovamente nel suo Game Boy. Jane provò ad accendere la luce della cucina, ma gli interruttori di plastica color crema non sortirono alcun effetto.

«Mi sa che non c’è elettricità», osservò Alberto. «L’interruttore centrale dovrebbe essere all’ingresso, come dai miei.» Così, dietro l’attaccapanni, trovò lo sportello dell’interruttore, che però sembrava acceso.

«Forse c’è qualcosa fuori», suggerì Jane. Una volta usciti, avvolti dal canto delle cicale, notarono un cavo elettrico che pendolava sopra le loro teste. «Non ci hanno allacciato...» mormorò Alberto, asciugandosi la fronte.

Jane, con la sua abituale determinazione, non esitò. «Vai a parlare con qualcuno», disse. Poi rivolgendosi al figlio: «Luca! Stacca gli occhi da quell’aggeggio e aiuta tuo padre!».

Così, i due Colonna si misero in marcia alla ricerca di un elettricista alle 13:45 di Ferragosto.

 

***

 

Appena arrivati nella piazzetta centrale, il sudore sulla nuca di Alberto già colava a profusione. Senza ombra dove rifugiarsi, Anagni sembrava l’inferno. Con segnaletica scarsa e pochi turisti, appariva quasi una città fantasma.

«Municipio», lesse Alberto seguendo un cartello di metallo sbiadito dal sole. «Aspettami qui», e si diresse sotto la gigantesca volta che ospitava l’ingresso verso gli uffici, nutrendo la speranza di trovare qualcuno.

Per la prima volta, ma non sarebbe certo stata l’ultima, Luca si trovò solo. Osservò il padre svanire tra i corridoi degli uffici statali. Il suo sguardo si perse verso piazza Cavour, dominata dal monumento ai caduti, arso dalla calura.

Sentì il suono di un pallone che colpiva un muro: la valvola rimbombava contro la plastica, producendo un rumore acuto e artificiale, qualcosa di nuovo per lui. A Parigi, i ragazzi non giocavano a pallone; era troppo pericoloso con tutte quelle macchine.

Il Super Tele blu e nero si fermò ai piedi di Luca, che lo bloccò con la suola delle sue All Star.

«Aò! Che ti sei incantato?!» gridò un ragazzo robusto con un marcato accento ciociaro. Era Ronnie, diciassette anni, ripetente di terza superiore. Luca, accecato dalla luce, non riuscì a vederlo chiaramente. Osservò il pallone ai suoi piedi, pensando di non averne mai calciato uno in vita sua, a parte una volta a scuola. Non sapeva come restituirlo a Ronnie senza sembrare goffo. Lo prese con le mani e uscì dall’ombra della volta, avvicinandosi al ragazzo, che lo fissò come se fosse un alieno. Ronnie era un capogruppo, alto, robusto, con la pelle olivastra e un ciuffo alla Elvis. Aveva spalle larghe e un viso imberbe. «Da dove vieni?» chiese con tono aggressivo, stagliandosi imponente come un gigante davanti a Luca.

«Mi chiamo Luca, vengo da… da Parigi», balbettò il ragazzo. Al suono di quella città, Ronnie storse il naso, forse per gelosia, forse per frustrazione. Parigi... lui non era mai andato più in là della capitale, e il viaggio più ambizioso che sognava di fare era quello che i suoi genitori continuavano a promettergli: Gardaland.

Gli bastò uno sguardo per capire che Luca, così magrolino e nascosto dietro quegli spessi occhiali neri, non avrebbe rappresentato un pericolo per il suo territorio. Anzi, quella sarebbe stata l’occasione giusta per inaugurare un fresco capro espiatorio con il quale ricordare a tutti chi comandasse ad Anagni.

«Per che squadra tifi?» chiese, strappando via il pallone dalle mani di Luca. Quest’ultimo, ancora poco avvezzo alla cadenza ciociara, non aveva mai sentito questo verbo. Tifare… cosa poteva voler dire? Provò a trovare una radice comune in francese. Spesso riusciva, tramite equivalenza, a dedurre un significato passando dall’italiano al francese. Ma non trovò nessuna omofonia per smarcarsi dal blocco linguistico che aveva di fronte: la parola “tifare” proprio non somigliava a nulla che conoscesse. Aveva però a che fare con una “squadra”. Si trattava di sport. Ma di quale sport parlava Ronnie?

I secondi colavano come il suo sudore, mentre ragionava. Tutto questo giro di pensieri e parole avvenne nell’arco di un millisecondo. Luca era un essere complesso, veloce quanto fragile. «La Francia...» disse, sperando di uscirne vivo. «Tifo la Francia.» Poi osservò Ronnie che annuì con la testa, e fece un sospiro di sollievo.

«No, ma io ti stavo a dire in Italia. Per che squadra tifi in Italia?»

Niente. Luca era tornato al punto di partenza. La situazione gli stava scivolando di mano e non aveva la minima idea di cosa dire.

Il suo tentennamento aprì uno spiraglio nel quale Ronnie entrò a gamba tesa, senza nessuna remora. «Non dirmi che non sai cosa vuol dire tifare!» sbraitò con una grassa risata, includendo il gruppetto di amici che si erano avvicinati. Tutti guardarono Luca con l’aria tra il curioso e il “che cazzo ci fai qui da noi?”

Luca deglutì, ora costretto ad ammettere la terribile verità: «No, non so cosa voglia dire, mi dispiace».

Tutti scoppiarono a ridere. Luca abbassò gli occhi, conoscendo bene il fervore ardente dei coetanei pronti a odiare chi arriva da fuori, tutti desiderosi di discriminare per sentirsi più uniti. Ormai aveva capito che in ogni posto dove andasse, lui era la colla che univa tutti.

Ronnie, finita la risata, gli diede le spalle e raggiunse il gruppo, lasciando Luca solo a cuocere di vergogna sotto il sole. Il Super Tele tornò a battere contro il muro mentre Alberto scendeva le scale del municipio due gradini alla volta, sempre sorridente. «Allora,» disse dopo aver notato l’incontro tra Luca e Ronnie dalla finestra del secondo piano, «sono simpatici?»

Luca fece un timido cenno di sì, evitando del tutto il discorso. Sapeva che non aveva senso rendere partecipe il padre delle tribolazioni che affrontava a ogni nuova tappa. L’unica volta che ci aveva provato, l’intervento di Alberto aveva peggiorato tutto.

Il ragazzo cambiò discorso. «E tu? Hai trovato un elettricista?»

Alberto sorrise: «Temo di no. È tutto chiuso qui. Anagni non è Parigi».

E su questo c’erano pochi dubbi, caro lettore: Anagni non era certo Parigi.

 

***

 

Calato il crepuscolo, sotto la prima stella, l’aria si fece più fresca di quanto Jane si aspettasse. «Avrei dovuto portare un maglioncino», disse al figlio, uscendo dal portone annerito dall’ombra del tramonto, ma Luca rimaneva sempre troppo silenzioso per lei.

Il ragazzo teneva gli occhi a terra, voleva evitare di affezionarsi a quel luogo, consapevole che sarebbero di nuovo partiti, prima o poi, come sempre. Non gli importava nulla di quel borgo; Anagni era solo un’altra tappa, un’altra puntina da inchiodare al mappamondo. Non voleva affezionarsi nemmeno ai sampietrini, non desiderava ammirare le stradine medievali né sentirne l’odore. L’aria della sera aveva portato con sé un profumo di soffritto che fuoriusciva dalle finestre delle case, ora illuminate. Ma lui era infastidito da tutto, persino dai colori tenui che sfumavano con il tramonto.

Povero Luca. Non era nemmeno colpa dei genitori. Come biasimarli? Jane e Alberto avevano sempre seguito la loro felicità. Loro erano per Luca l’esempio della fiaccola dell’entusiasmo, del desiderio di ricerca, di divertimento. Erano viaggiatori nell’anima e, nel loro incedere, lo avevano trascinato ovunque.

Da Westminster a Madrid, da Nizza a Parigi, Luca era stato costretto a scoprire scuole e paesi diversi: Africa, Asia, Giordania, dove aveva visto Petra, la città di roccia. Insomma, Jane e Alberto erano così: genitori amorevoli, figli del tempo che corre.

Nel ’65, Jane era scappata di casa, appena maggiorenne. Gli anni di collegio e un padre severo l’avevano portata tra le braccia di Alberto, che invece era cresciuto come un uomo libero. Lui, amante delle donne e viaggiatore in fuga dalle sue origini modeste, si era innamorato delle minigonne francesi e si era trasferito a Parigi. A ventun anni era entrato all’Ecole Normale Supérieure per cominciare gli studi di Fisica, che lo avrebbero portato poi ad emergere come uno dei massimi esperti di fisica teorica della sua generazione.

«Dai, Pulce, vieni. Andiamo a cercare un ristorante», disse Alberto al figlio, rituffatosi tra i pixel che diventavano sempre meno visibili nella notte crescente. L’affetto che lo stringeva a Luca era un legame indistruttibile. Solo una cosa poteva far soffrire Alberto: vedere Luca isolato dietro quella corazza che aveva innalzato tra di loro. 

«Dai, andiamo», ripeté.

«Sì, papà.»

«Ecco, vedi...» borbottò Jane infilandosi lo scialle, «quando tuo padre ti chiede qualcosa, ubbidisci subito. Ma quando invece te lo chiedo io, no. Mi piacerebbe capire perché.»

Luca alzò gli occhi dallo schermo, stupefatto dalle parole della madre: «Che ho detto?».

«Prima ti ho chiesto di venire e tu non mi hai nemmeno risposto.»

«Non avevo sentito.»

Jane lo guardò, una lieve fitta di dolore materno accarezzò il suo cuore.

 

***

 

Le voci animavano il borgo assopito dalla lunga giornata. Dopo aver cercato invano un ristorante per quasi venti minuti, la famiglia stava per rinunciare alla ricerca quando Alberto notò due anziani seduti su sedie di legno attorno a un tavolo rotondo, immersi in una partita di briscola. Accanto a loro, sulla tovaglia cerata, un bicchiere di rosso allungato con l’acqua.

«Scusate...» disse Alberto con cortesia.

I due anziani, concentrati nel loro gioco, non lo degnarono nemmeno di uno sguardo.

«Sapete indicarmi un ristorante?»

Uno degli anziani si piegò leggermente verso Alberto, senza mai staccare gli occhi dal tavolo, e con una sigaretta stropicciata all’angolo della bocca disse: «Accanto al municipio ci sta un’osteria. Non prendete l’abbacchio, che Marco non è capace».

«Ma che stai a dire», rispose piccato l’anziano di fronte. «Mio figlio è il miglior cuoco di Anagni.» Poi, rivolgendosi ad Alberto: «Non lo state ad ascoltare. Andate più avanti e pigliate ’a salita, in piazza ci sta un ristorante. Proprio davanti alla Santa Maria. Cucina mio figlio, è bravo».

«No, macché bravo. L’abbacchio non lo sa proprio fare. È secco!» disse l’altro, lanciando un tre di bastoni con violenza sul tavolo. «Briscola!» urlò con voce graffiata. L’altro, sbuffando, gettò le carte a casaccio.

In men che non si dica ricominciarono un’altra partita, dimenticando la presenza di Alberto, che raggiunse moglie e figlio.

 

***

 

La piazza della cattedrale era avvolta da un fascino antico e misterioso. Il campanile, alto più di trenta metri, dominava la piccola città come un obelisco grigio dal pallore lunare. Si dice, caro lettore, che di notte tutto sia più bello perché le oscenità del mondo vengono celate dal velo dell’oscurità, trasformandosi in ombre che scompaiono nelle tenebre. Ma l’oscurità risveglia anche i mostri nascosti negli angoli della paura, e per questo la notte è così seducente: nessuno resiste al brivido dell’ignoto.

La trattoria era buona e l’abbacchio, sebbene leggermente secco, era ottimo. 

«Com’era la cotoletta?» chiese Alberto, osservando il piatto quasi immacolato del figlio. Luca teneva i polsi sotto gli zigomi e i gomiti sul tavolo, fissando inerte la cotoletta mangiata a metà, stesa sopra una triste foglia di lattuga. Non aveva fame, e Alberto sapeva che questo era il primo segno che qualcosa non andava. Luca sembrava la fiammella morente di una candela consumata.

Con un riflesso quasi automatico, il ragazzo afferrò il suo Game Boy. Alberto non ebbe nemmeno il coraggio di strapparglielo via. Come poteva? Sapeva bene che suo figlio stava male a causa delle scelte che aveva fatto lui. Era colpa sua se continuavano a muoversi, spinti dall’ambizione di dirigere un giorno un gruppo di specialisti, di scoprire qualcosa di nuovo, di entrare nei libri di storia. Questo era ciò che Alberto desiderava più di tutto. Guardando il figlio, fu travolto dalla consapevolezza che non gli restava molto tempo prima che Luca diventasse un adulto, prima che la vita se lo prendesse per non restituirglielo più.

Immagino, caro lettore, che tu sia curioso di sapere cosa diventerà Luca da grande. Se ascolterai la mia storia fino alla fine, ti prometto che lo saprai: le vie del tempo e del destino sono, come scoprirai, infinite.

Alberto, per un attimo, si immaginò il figlio alla guida della sua Citroën gialla, pronto a partire senza di lui verso chissà dove. E in quel momento si rese conto che non gli aveva insegnato a frenare. Mentre immaginava la macchina fuggire via per le tortuose strade cittadine, il terrore di sentire uno schianto gli soffocò i polmoni. Si asciugò la fronte con il tovagliolo, cercando di scacciare via i pensieri e le zanzare. «Mangia, Luca, è buona, ti fa bene», disse, accorato.

Luca, senza fare storie, posò il Game Boy sul tavolo e prese forchetta e coltello per ubbidire al padre.

«Quando te lo dico io...» disse Jane, facendo un altro tiro di Camel e incrociando le braccia. Aveva finito un piatto di gamberi alla piastra, che lei stessa aveva definito mediocre, e aspettava – da troppo tempo secondo i suoi standard – il caffè, richiesto almeno cinque minuti prima.

«Stanno finendo anche le ultime batterie», ribatté Luca con una voce così bassa che Jane non capì se fosse un tentativo di informarla o solo di parlare a se stesso.

Con la coda dell’occhio, Alberto notò un gruppo di ragazzi che giocava e correva davanti alla cattedrale. Era lo stesso gruppo che aveva visto nel pomeriggio, fuori dal municipio. Una dozzina di giovani sorridenti e abbronzati scendeva verso piazza Cavour per il dopo cena, insieme al fedele pallone.

«Perché non vai con loro?» chiese Jane.

Luca li guardò, stanco. Vide Ronnie, e l’idea di doverlo affrontare di nuovo lo bloccò.

«Non vuoi farti nuovi amici?» insistette la madre.

«A che serve,» disse Luca, «tanto andremo via tra poco.» Avrebbe voluto scomparire da tutto e da tutti, persino dalle memorie dei suoi genitori che tanto amava, così almeno non avrebbero sofferto per la sua mancanza.

«Dai…» provò a convincerlo Alberto, sfiorando il cappuccio nero del maglione che Luca indossava. «Non hai caldo con questo?»

Il ragazzo rispose con un gesto delle spalle, allontanandosi dal padre, e si alzò senza dire una parola. Infilò il Game Boy nel tascone centrale della felpa e si avviò, come un automa obbediente ai comandi impartiti.

«Torna quando vuoi, ma non troppo tardi!» gli gridò Jane, spegnendo con nervosismo la sigaretta sul posacenere di vetro. Una tazzina di caffè giunse sul tavolo. «Finalmente...» disse con un tono amaro, osservando il figlio allontanarsi, consapevole - come Alberto - delle proprie responsabilità.

 

***

 

Luca, come un nobile parigino in rotta verso la ghigliottina, avanzava lentamente verso il fondo della piazza. Il gruppo di coetanei aveva preso possesso dei gradini sotto al monumento ai caduti. Il giovane sapeva a cosa andava incontro: ogni volta era la stessa storia. I genitori lo forzavano a incontrare gli altri e ogni volta finiva per essere rifiutato.

Avvicinandosi, solo uno di loro lo fece sentire accolto, esistente: Geppo, sedici anni, un ragazzo dai capelli crespi e naso importante, con la postura di un nuotatore professionista. Dal suo sorriso forte e sano, da quell’espressione bonaria, Luca intuì che Geppo era diverso, che ci teneva agli altri.

Appena Geppo si alzò per andare incontro a Luca, Ronnie lo fermò con un gesto. Poi, ergendosi con un sorriso tagliente tra le labbra, chiese a tutti: «A chi va di giocare a Torello?». Era una domanda retorica; nessuno poteva dire di no a Ronnie.

I ragazzi si disposero in cerchio al centro della piazza vuota. Ronnie, rivolgendosi a Luca, che era rimasto in disparte, disse: «Francesino, vuoi giocare?».

Luca si avvicinò timidamente, ancora incapace di capire di cosa parlasse quel ragazzo. Cos’era il Torello? Cosa avrebbe dovuto fare? si chiese camminando verso il cerchio di ragazzi.

Geppo intuì la difficoltà di Luca quando, giunto al centro, osservò tutti con uno sguardo smarrito e inconsapevole, tipico di chi non sa come agire. «Quelli in cerchio si passano la palla. Tu la devi intercettare, ma solo coi piedi. Se ci riesci, prendi il posto di quello che l’ha calciata per ultimo», spiegò Geppo.

Luca annuì in segno di ringraziamento. Fu sufficiente quel fugace scambio di sguardi per far comprendere a entrambi che erano destinati all’amicizia. 

Il gioco prese il via. Geppo calciò la palla verso Ronnie; Luca, goffo ma dalle gambe lunghe, riuscì a sfiorarla, quasi prendendola con la punta dei piedi. Il suo cappuccio scivolò dal capo, la sua corsa si fece più concitata e il sudore lo trascinò in una trance che si potrebbe definire agonistica. Luca si muoveva inaspettatamente come un gatto cacciatore, eccitato dalla competizione. Acceso da un’energia nuova, comprese presto come anticipare il pallone.

Ronnie, nel tentativo di beffarlo, diede un calcio a pallonetto, il “cucchiaio”, come lo chiamava. Ma Luca, con un balzo atletico, fermò la palla con il petto e la posò sotto il suo piede, assumendo una posa trionfale.

Ronnie aveva perso davanti a tutti, e ora era il suo turno di andare al centro. Il bullo che covava in lui non perse tempo a segnare il territorio. Con due falcate si piazzò davanti a Luca e lo spinse a terra con violenza, in un gesto di pura frustrazione. Geppo intervenne immediatamente per fermare Ronnie, i cui pugni fremevano di rabbia per lo smacco subito.

Luca, decisamente più intelligente del suo avversario, si alzò, spolverando i jeans e mantenendo lo sguardo basso per evitare ulteriori tensioni. Si ritrasse di un passo, notando che il suo Game Boy era caduto sui sampietrini, proprio vicino ai piedi di Ronnie. Capovolto, lo schermo non era visibile. Un brivido di paura lo attraversò all’idea di aver perso il suo unico compagno di giochi. 

Geppo, prontamente, raccolse il Game Boy per lui.

«Ma che stai a fare?» lo interrogò Ronnie.

«Ma si può sapere che cazzo t’ha fatto? Stava solo giocando», rispose Geppo, visibilmente irritato.

Ronnie, lanciando uno sguardo circospetto ai suoi compagni e notando la vergogna nei loro occhi, capì di aver esagerato. Con un gesto magnanimo ma finto disse: «Fate un po’ come cazzo vi pare...» e si ritirò sugli scalini a bere una birra, da solo.

Geppo allungò il Game Boy a Luca. «Io sono Andrea, ma qui mi chiamano tutti Geppo. Tu?»

Luca prese il suo videogioco, notando lo schermo scheggiato. «Luca...» rispose, serrando le labbra.

«Mi dispiace, Luca.»

«Non importa», rispose lui, riaccendendo la console. Lo schermo funzionava ancora. Alzò lo sguardo: «Grazie, Geppo». E si allontanò.

«Ciao Lucà», disse Geppo, enfatizzando l’accento francese in tono scherzoso. Luca non poté fare a meno di sorridere mentre si allontanava. Era un ragazzo che avrebbe voluto come amico, ma temette di perderlo ancor prima di conoscerlo, proprio come era successo con Julien.

Si allontanò senza una meta precisa, desiderando soltanto trovare un luogo tranquillo dove stare da solo. Si sentiva a suo agio in assenza degli altri, libero di immaginare di avere superpoteri, di saper fare karate e sconfiggere tutti.

Quanta fantasia produce la voglia di fuggire, caro lettore! E Luca ne era colmo, perché conosceva la fuga come le sue tasche. Fuggiva dagli altri, dal mondo che cambia troppo spesso eppure resta sempre uguale.

Ma soprattutto, fuggiva da se stesso.

 

***

 

Luca scese i grandi scalini dietro piazza Cavour, numerosi ma bassi e agevoli. Con lo sguardo incollato allo schermo del Game Boy, illuminato dalla luce gialla dei lampioni, giocava a Tetris con grazia e calma. La batteria del gioco era ormai quasi esaurita, segnalata dalla spia rossa più debole del solito. Quando la spia lo abbandonò, tutto si spense improvvisamente. Luca alzò lo sguardo per la prima volta. Si trovava in fondo alla scalinata, di fronte agli alberi del parco, lontano dalla piazza. Levando gli occhi verso la collina, intravide la punta del monumento ai caduti, ma i rumori del borgo erano scomparsi. L’odore della natura riempiva le sue narici, e fu immerso da un’insolita quiete, piacevole e cullante.

Il cielo era tempestato di stelle, più brillanti di quanto le avesse mai viste. “Sono così tante...” pensò, ammirando la Via Lattea visibile a occhio nudo e individuando pianeti come Marte, Venere e Saturno.

Poi si accorse di non essere solo. A una decina di metri da lui, sulla sua sinistra, sedeva una ragazza sotto la luce gialla dell’unico lampione acceso. Era seduta con le ginocchia piegate sul muretto, la schiena appoggiata al palo. Aveva un libro in mano e una sigaretta spenta tra le labbra.

Luca rimase a osservarla, immobile come gli alberi. La ragazza era così assorta nella lettura che ignorava le zanzare volare intorno a lei. Si interruppe solo per accendere la sua sigaretta, senza distogliere lo sguardo dalla fine del capitolo.

Luca la ammirò fumare, catturato dalla scena. Ogni soffio la avvolgeva in un velo di mistero. I suoi occhi smeraldi e felini, incorniciati da lunghe ciglia, seguivano le righe del libro. Aveva i tratti delicati, zigomi alti e lentiggini sulla pelle chiara. Indossava una canottiera, pantaloncini e sandali di tela. I suoi capelli erano lisci e castani.

Conclusa la lettura, la ragazza gettò la cicca, si spruzzò del profumo addosso, prese una gomma da masticare dalla borsa e si rivolse a Luca: «Come ti chiami?».

«Cosa?» rispose lui, risvegliato all’improvviso dall’ipnosi, sorpreso di essere stato notato.

«Sono dieci minuti che mi stai fissando. Come ti chiami?»

Luca sentì le ginocchia tremare e un rossore di vergogna gli salì al viso. Era stato lì a guardarla come un ebete e lei se ne era accorta. Balbettò la sua risposta: «Luca... io... mi...»

«E che ci fai qui?» chiese lei, scendendo dal muretto su cui era seduta. «Sei nuovo?»

Luca fece spallucce, cercando di giustificare la sua presenza. «No... niente,» alzò lo sguardo, «stavo guardando le stelle.»

La ragazza si avvicinò per osservarlo meglio. «Ce ne sono tante, quale guardavi?»

Luca deglutì nel sentirla così vicina. «Sa... Saturno...» rispose, quasi senza voce.

La ragazza scoppiò in una risata gentile: «Saturno non è una stella». E se ne andò, senza dire a Luca il suo nome.

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Ultimo aggiornamento: 06 gennaio 2024

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