Successo o Prestigio?

Come dice il caro Eraclito, noi vediamo il mondo in modalità binaria. Esiste questo o quello. La luce o le tenebre. La fame o la sazietà.

Tendiamo ad andare per esclusione logica e abbiamo costruito il mondo usando queste esclusioni per creare ordinela porta, la scatola. Fuori o dentro.

Nella dimensione in cui mi sto muovendo (l’editoria), lo scrittore (io) è straziato da un’ambivalenza vecchia come il cucco:

Prestigio o successo commerciale?

A quanto sembra, uno esclude l’altro. Sia mai che i salotti intellettuali riconoscano in un’opera di successo popolare un merito letterario! E Dio non voglia che un’opera di eccelsa prosa e tematica venda centinaia di migliaia di copie.

No, non può essere. O l’uno, o l’altro.

Un esempio lampante sono i premi letterari. Lo Strega, per esempio. Ricordo un’immagine che mostrava il numero di copie vendute dei selezionati. Se ben ricordo, della dozzina, solo tre superavano le 10.000 copie.

Capirete quindi quanto sia presente nel cuore di ogni scrittore il dilemma: successo commerciale o prestigio?

A me piace pensare che uno non escluda l’altro. Non tanto perché oso immaginare uno scenario in cui un successo commerciale enorme vinca il Premio Strega – non sono così illuso – ma perché, per me, il prestigio autoriale è qualcosa che si ottiene, se si ottiene, a lavoro finito.

Il prestigio è la medaglia al valore del soldato morto tra le trincee d’inchiostro. Non la pacca sulla spalla dei suoi commilitoni.

Il prestigio sono i libri di storia.

Il successo, invece, come diceva il grande Carmelo Bene, “è già successo”, sta in un presente che è già passato.

Dovrei quindi chiedermi: cos’è il successo commerciale per me?

Quante copie? Quanto profitto?

Credo che il successo commerciale, per un artista, sia il momento in cui, con la propria arte, riesce ad essere autonomo. A camminare da solo.

Questo significa guadagnare abbastanza da dire:

“Sono felice? Mi basta?”

E rispondersi:

“Sì.”

Poi, se si eccede, è grasso che cola, ma se ho una qualità nascosta, è quella di essere grato per quello che ho.

Tornando alle mie paturnie d’autoresuccesso commerciale o prestigio?

Come spesso succede, questo diario mi permette, nel momento in cui espleto i miei pensieri, di fare chiarezza. Il testo è la fotografia di questa mia ricerca.

E la risposta la sento chiara dentro di me:

Se potessi scegliere, sceglierei il successo commerciale in vita, e il prestigio post mortem.

Ora che ho fatto chiarezza su questo punto, non mi resta che affrontare la fase successiva:

Scrittore per casa editrice media, casa editrice grande, o scrittore indipendente?

Come sapete, recito, ho poco tempo. Non riesco a dedicarmi alle faccende per le quali un autore dovrebbe investire tutto il suo tempo: incontri, salotti, presentazioni, firmacopie.

Sono tutti compiti ai quali non riesco ad adempiere come vorrei.

E quindi mi dico che forse dovrei andare al 100% da soloDiventare un autopubblicato e rinunciare a quella parte di mondo e prestigio, per dedicarmi al 100% al sito, ai libri online e al successo commerciale personale.

I vantaggi sarebbero:

• Controllo totale sulle pubblicazioni

• Guadagno maggiore per copia venduta

• Controllo a lungo termine sulle opere e sui diritti

• Possibilità di scegliere la copertina e investire in marketing

L’altra opzione è continuare con la PaV con la prossima saga (Il Labirinto della Speranzathriller psicologico), con le stesse modalità de L’Anello di Saturno.

Sembra aver funzionato. Un detto dice:

“Squadra che vince non si cambia.”

Chissà. Con la PaV mi sono trovato bene. Aurora e il suo team mi hanno appoggiato, aiutato e introdotto nel mondo della letteratura.

Abbiamo un contratto che giova a entrambi e che, se immutato, mi regala una libertà simile a quella di un indipendente “puro”.

La terza opzione sarebbe tentare con una grande casa editrice (Feltrinelli, Mondadori, Nave di Teseo).

Un altro tipo di gioco.

• Le percentuali sulle copie vendute calerebbero drasticamente

• I tempi di pubblicazione si allungherebbero

• Perderei il controllo su aspetti come copertina, impaginazione, tempistiche, diritti e persino il testo, che passerebbe sotto la lente di un editor della CE

In compenso, mi aprirebbe a un mercato più ampio, che garantirebbe volumi in grado di compensare le royalties inferiori.

Ma io chi sono?

Di queste tre scelte, quale mi rappresenta meglio?

L’ho detto in un’intervista, tempo fa, con Antonella su Instagram:

“Io non sono uno specialista di nulla. Un factotum sui generis.”

Vi lascio, e mi lascio, con un famoso proverbio inglese:

“Jack of all trades, master of none.”

(Chi sa fare un po’ di tutto non è maestro in nulla)

Ma pochi sanno che la frase continua:

“...But often times better than a master of one.”

(ma spesso è superiore di chi è maestro in una cosa sola.)

La buona scrittura

Si dice di Shakespeare che, anche se recitato male, sia interessante.

Sto ripensando a questo proprio ora: a come la potenza di una storia, una vera storia, trascenda da come viene eseguita.

Una buona storia funziona anche se girata male, letta sul treno con le pagine ingiallite o guardata su un piccolo televisore catodico.

Una buona storia funziona perché è lo scheletro dell’intrattenimento.

Non vi può essere sospensione della credulità senza una buona storia, credibile, forte, colma di trasformazione ed emozione.

Per questo spendo così tanto tempo a strutturare le mie storie.

Le definisco e costruisco una griglia, come il ferro armato per il cemento.

La storia, intesa come una struttura di avvenimenti che definisce personaggi, emozioni e significati, è l’anima di un libro, un film, un videogioco.

Ho in mente questa mia teoria della pizza. L'evoluzione da pasta a pizza, poi a prodotto farcito e cotto, come potrebbe essere vista un’opera d’arte: prima pensata, poi prodotta, farcita dal marketing e consegnata al consumatore.

E mi dico che mi sono fregato da solo.

La mia teoria della pizza, in realtà, è la teoria della pasta madre, che altro non è che una reazione chimica tra acqua, farina e sale.

Che altro non è che la vita.

Il ruolo dell’artista è mettere vita nelle sue opere.

Dare letteralmente vita: ecco la responsabilità che mi prefiggo.

Ho avuto un primo desiderio sei mesi fa: scrivere la storia di un uomo che trovava il potere di entrare nella mente della gente.

Uno psicanalista che riusciva a curare entrando fisicamente nella mente di chi voleva aiutare.

Un primo tema della paternità era presente, ma era solo l’inizio della ricerca.

L’inizio è un po’ come andare a scoprire “quello che si vuole scoprire”.

La ricerca della ricerca, in un certo senso.

In questi mesi ho lavorato sulla storia: un agglomerato di frasi, magari trenta.

Queste trenta frasi sono il frutto di strutturazione, modellazione e trasformazione, ma a livello alto.

“No, non in Francia, in Italia.”

Oppure: “No, non un fratello, ma un amico.”

Tutto muta come in una tempesta.

Ma lentamente un pezzo casca sulla carta. Poi un altro.

Ed emerge qualcosa di sfuocato, ma reale.

Si lascia riposare, così da guardarla un paio di mesi dopo con l’occhio di chi può dire:

“Ma tu davvero vuoi investire tutto questo tempo in questa roba?”

Oppure, più ottimista:

“Hm… sì, mi piace.”

E così, tra cinquanta idee cancellate e un paio sopravvissute, si passa alla seconda stesura “dell’idea”.

Poi, stesura dopo stesura, nell’ultimo mese ho concluso la prima “definizione a larghe trame della mia nuova saga in cinque volumi”.

E da un mesetto ho cominciato a scrivere le prime pagine.

Vomito generico, sfuocato anch’esso, ma piano piano comincio a vedere i personaggi, a conoscerli, a scoprirli.

Devo ammettere: poche cose nella vita mi danno tanta soddisfazione.

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