Quando ero un ragazzino ("pischello", come si direbbe a Roma) non ero un bravo studente. Non perché mancasse l'intelligenza, ma piuttosto perché, da vero Toro, non trovavo nelle lezioni teoriche un'applicazione pratica che potesse migliorare la mia vita. Sono una persona semplice: quando imparo qualcosa, è perché mi serve, altrimenti la dimentico. Infatti, il mio apprendimento è proseguito ben oltre l'età della maturità. Ho iniziato a studiare seriamente all'età di 20 anni, quando ho preso in mano libri che mi servivano per migliorarmi nei campi che trovavo interessanti e che avevo deciso di coltivare per gli anni a venire: la comunicazione, la recitazione, la scrittura. Non avete idea di quanti manuali ho accumulato nel corso degli anni. Per più di un ventennio, ogni mio scritto era sempre accompagnato da un nuovo manuale, un testo di riferimento sul quale studiavo e applicavo le teorie che incontravo. Ho bisogno di mettere in pratica per capire. Ricordo il funzionamento di qualcosa solo quando riesco a realizzarlo.
Al collegio, la professoressa di francese ci aveva dato un compito da svolgere in gruppo. Eravamo in tre: Vincent, Emanuele ed io. Eravamo i tre italiani della classe (il collegio era in Francia) e quindi eravamo legati, seppur molto diversi tra di noi. Emanuele, negli anni, divenne uno dei miei più cari amici. Ognuno di noi doveva fare una parte del compito. Non ricordo cosa mi toccò, ma ricordo bene che la domenica prima della consegna del compito, prevista per il lunedì, non avevo fatto nulla. Assolutamente nulla. Ero così, all'epoca. Non mi interessava nulla, se non andare nel bosco con i miei amici e divertirmi. E così avevo fatto, abbandonando ogni responsabilità. Ma finché questo completo abbandono riguardava solo me, nessuno mi aveva mai rimproverato. In questo caso, tuttavia, stavo danneggiando altri ragazzi, un gruppo che non avevo scelto. Emanuele mi diede una lezione che ancora ricordo. Mi spinse, mi fece cadere, mi disse che dovevo rispettare gli altri, che non potevo comportarmi come se fossi l'unico al mondo. Fu una lezione dura, sia per il mio orgoglio che per la violenza che conteneva. Eppure, fu una lezione che ancora porto con me e che, dopo più di 25 anni, non ho dimenticato.
Emanuele aveva ragione, forse non nei modi, ma nel contenuto. Sapeva che ero un ragazzo sveglio, sapeva che potevo fare meglio, e soprattutto non avrebbe mai permesso a qualcuno di calpestare la sua libertà. Siamo tutti collegati, ognuno di noi è parte di un sistema, ognuno di noi è responsabile di qualcosa oltre al proprio piccolo mondo. Ogni volta che vi mettete in macchina, ogni volta che decidete di agire, lo fate per voi, ma lo fate in un luogo dove anche altri agiscono.
Pochi hanno avuto l'opportunità di cambiare rotta durante il loro percorso in questa vita, di cambiare radicalmente approccio. Passai la notte a recuperare quel compito. Feci tutto il possibile per farlo al meglio delle mie limitate risorse, poiché, come vi ho detto, non studiavo. Riuscii a produrre ciò che mi era stato richiesto, e ottenemmo un voto sufficiente per il compito. Non fu un trionfo, almeno non dal punto di vista del risultato. Ma quel giorno, grazie alla tenacia di colui che poi divenne un amico per la vita, cominciai a cambiare verso il Flavio che sono oggi.
Quindi, un ringraziamento speciale a Ema.
Alla prossima pagina.