La crisi arriva per tutti.
Come un appuntamento con noi stessi, arriva la ferita che non si rimargina, che ad ogni ciclo ci ricorda che abbiamo un conto in sospeso con noi stessi.
Ormai la sento, la riconosco, la vedo arrivare da lontano, eppure ancora mi coglie.
Mi coglie nelle parti più basse, più fragili del mio io. Quelle che sono aperte alla critica, che hanno un seme del dubbio che cresce insieme a loro. I miei lati fragili, se vogliamo.
Ma facendomi io sempre più acuto con l’età, sempre più consapevole di me stesso, la crisi si fa sfocata, quasi eterea.
C’è ma non si vede.
C’è ma non riesco a definirla.
E questo me la rende ancora più difficile da gestire.
Si dice che se a un problema c’è una soluzione, allora è inutile preoccuparsi.
E se a un problema la soluzione non c’è, è inutile anche in questo caso.
Insomma, è inutile preoccuparsi.
Ma se lo stato d’animo che sentiamo è nebbioso?
Se l’unica cosa che comprendiamo della nostra energia è la dimensione grigia, dominante come un cielo d’inverno?
Cosa fare? Aspettare il sole? Accettarla e basta? Oppure soffiare con tutte le forze che abbiamo per spazzarla via?
Non lo so.
Scrivo questa pagina un po’ per inerzia, un po’ perché so che scrivere i demoni li fa emergere e, in un certo senso, li scioglie sotto la luce del sole.
Oggi di sole ce n’è poco, ma chissà, magari funziona.
Ho due gatti.
Loro, devo dire, sono pazzeschi.
Sembra che tutti i giorni sia un giorno giusto per farmi le coccole, per starmi vicino.
Uno dei due, Bijou, ha un rapporto simbiotico con me.
Gli piace starmi sulla pancia.
E a me piace pensare che sia per curarmi, per assorbire energie, per essere gentile.
A volte temo che il silenzio sia una gabbia dorata.
Un luogo di ritrovo con me stesso che diventa torre d’avorio, dove mi isolo e perdo la nozione dello stare bene.
Mi crogiolo in uno stato d’animo, mi ci cullo, mi ci perdo.
Chi scrive lo sa: il rapporto con le parole è qualcosa che va oltre l’ortografia e la grammatica.
È una sfida con se stessi.
Giro, giro, ma non riesco ad acchiappare quel fantasma che s’insidia al risveglio.
Quel pensiero che «qualcosa» (cosa, chissà?) non sia esattamente al suo posto.
La vaghezza come crisi interiore, chi l’avrebbe mai detto.
A questo punto mi sorge il dubbio che, più che crisi, questa sia una manifestazione d’intento di crisi irrisolta.
Un folle desiderio che ho di stare così e, visto che non ho giustificazioni appropriate, la accetto per quello che è: indefinita.
Ed ecco che ritorno al mio eterno ritorno, fonte continua della mia poetica: la volontà.
La volontà di stare bene.
E quella di stare male.
Che sia davvero così?
Ora mi faccio una bella camminata e sono certo che, al ritorno, qualcosa sarà diverso.
Chissà, magari continuo la pagina dopo il ritorno.
—
La vita ha bussato proprio quando stavo per uscire di casa.
Elettra ha mal di pancia, devo andarla a prendere a scuola.
Sta bene ma deve riposare, quindi a letto.
Come sempre, lo stupore è dietro l’angolo.
A quanto pare basta aspettare per riprendere a correre…
Alla prossima pagina
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