L'abito fa il monaco

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L'abito fa il monaco
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Diventiamo la maschera che portiamo.

C'è un detto, "L'abito non fa il monaco." Oggi vorrei sfatare questo mito e spiegare come, secondo me, l'abito faccia il monaco eccome.

Lo so per esperienza, di abiti io me ne intendo. Ogni volta che indosso un personaggio, qualcosa di esso rimane in me. Un ricordo, un pensiero, qualcosa che piano piano cresce, come un nuovo albero, introducendo nel vecchio Flavio nuovi concetti, nuovi sentimenti, nuove visioni del mondo.

È uno dei più grandi lussi della recitazione: quello di vivere la vita altrui. Non solo perché è molto divertente, e lo si fa in una situazione controllata, in cui parole, azioni e reazioni sono già state scelte, ma soprattutto perché l'attore ne rimane arricchito. E non parlo del portafoglio, ma del bagaglio umano che abbiamo in noi.

Spesso si parla di "entrare nella parte", cioè riuscire a comprendere appieno il personaggio, i suoi desideri, le sue movenze, i suoi pensieri. Non ho mai avuto problemi a farlo, perché in sostanza, non l'ho mai fatto. Non credo nella recitazione che prova a dipingere un altro da me. Credo in qualcosa di più semplice: esporre la mia anima, e metterla nelle condizioni di essere sincera, umana, emozionante.

Questo significa che non sono io, con le mie scelte attoriali, a dipingere il personaggio. Non sono altro che un tramite che, con l'aiuto di costumi, trucco e parrucco, dà vita ad un altro Flavio, che vive in un'epoca diversa, che dice parole diverse (scritte da qualcuno che, quello sì, ha avuto il compito di immaginarsi un essere umano diverso).

Quindi quando intendo "l'abito fa il monaco" intendo dire che il mio modo di arrivare al "personaggio" se così possiamo chiamarlo, non è di fare una ricerca interiore, di inventarmi il suo passato familiare, storie di cui non si parla nemmeno in sceneggiatura. No, il mio compito è dirla bene, essere sincero e comprensibile. Il resto lo fa "la magia del cinema" (e cioè il montaggio, la regia, i reparti, etc...)

Per me, l'attore diventa monaco indossando gli abiti del monaco. Ma è la sua capacità a toccare le corde dell'anima che giustifica il suo cachet.

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Ma c'è di più. Sapevate che a forza di portare una maschera, ne diventiamo noi stessi lo specchio? A forza di essere burberi, per esempio, diventiamo burberi dentro. A forza di sorridere, la nostra anima sorride. A volte sforzarci di essere quello che non siamo in quel momento, è il primo passo per diventare quello che desideriamo.

Grotowski, grande teorico della biomeccanica e del teatro fatto di carne, ossa, sudore, uomini, spesso esponeva un aneddoto. L'aneddoto del grizzly: "Poniamo che siete in una foresta e davanti a voi appare un enorme grizzly, terribile, spaventoso che vi punta. La prima cosa che fate è fuggire. Ma la mia domanda è. Avete paura e quindi fuggite, oppure fuggite di riflesso e la paura vi viene mentre state correndo via dal pericolo?"

Ecco qua, queste sono le due scuole di pensiero della recitazione. La prima è detta Stanislavskiana o Strasberghiana (Actor's studio), parla della nascita dell'azione (cioè della fuga dal grizzly) partendo dall'interiorità (cioè dalla paura che nasce dentro). La seconda, la scuola Grotoswkiana, ipotizza che invece la "maschera" generi lo stato d'animo interiore. Cioè che sia la fuga a generare la paura e non il contrario.

In poche parole, se volete indurre in voi la felicità, ci sono più strade: potete pensare a qualcosa che vi rende felice, e fare la scuola Strasberghiana, oppure potete sorridere e basta, e i pensieri felici verranno da soli.

E voi, quale delle due preferite?

Alla prossima pagina.

Articolo scritto da  Flavio Parenti
Sono un attore, scrittore e regista nato a Parigi e cresciuto in Italia. Ho lavorato in film, serie TV e teatro, collaborando con registi di fama internazionale. Sono appassionato di storytelling e amo sperimentare con diverse forme d'arte per raccontare storie.
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