Attore

Esibizionista timido
Nascosto in piena luce,
Alpinista dell'amore,
Tu beffi la morte.
muti com'un serpente,
E cambi pelle, cambi volto cambi ritmo.
Ma ritornerai,
Lo sai,
Il solito uomo col solito tempo.

Il Volo

Ad occhi aperti cado
Verso la mia idea.
Braccia tese verso l'impatto
Creo ali col pensiero.
E forte di gravità,
Figlio del vento,
Scivolo sulla morte
E decollo,
Come l'illuso che mai atterra.

Effimeri come farfalle

Ho visto un video di Nadal, a cui viene dato l’onore, dopo aver vinto ben 14 Roland Garros, di avere una lastra incisa su uno dei campi ufficiali del torneo.

Questo mi ha fatto capire una cosa allo stesso tempo terribile e leggera, tragica ed effimera.

Nadal, tennista senza precedenti, me lo ricordo con i capelli lunghi e il braccio teso. La gamba lunga, il polsino giallo. Un gladiatore del campo, contro Federer, Djokovic, contro tutti.

Ora, davanti alla vista della sua impronta incisa nel marmo, sporca di terra battuta, rossa come il deserto al tramonto, davanti a una platea commossa quanto lui, scoppia a piangere. Accanto a lui, abbracci. Un momento che ha commosso anche me, ma che poi ha fatto emergere nel mio cuore una sensazione ambigua.

Siamo un battito d’ali,
e diventiamo una lastra
nel migliore dei casi.

Spesso l’artista si ritrova ad affrontare la sua mortalità. In realtà, l’arte è un piccolo sogno di immortalità, un desiderio di superare la soglia del tempo con un lascito, che anch’esso, prima o poi, diventerà, come dice tanto bene Rutger Hauer in Blade Runner: «lacrime nella pioggia».

Se non è ora, è tra cento anni. Se non sono cento saranno mille, o miliardi. Che importa il tempo, se confrontato con la nostra finitudine e l’immensità del creato?

Forse un giorno affronterò una «saga» che sia anche questo. Un procedere nel tempo, lasciando che i protagonisti di una pagina diventino un ricordo lontano pochi capitoli dopo, e infine, una statua, un’effigie, una frase, un pensiero a cui nessuno è più capace di collegare l’autore, ma che è ancora presente, che permea la coscienza.

La bellezza della vita è nel presente, nella scoperta dell’ignoto che ci circonderà sempre, sia nel tempo che nello spazio. L’arte è il simbolo della nostra finitudine: come farfalle estemporanee, voliamo d’idea in idea, verso una roccia stabile, che lanciamo tra le onde del tempo, sperando che qualcuno, dall’altra parte della soglia, continui il testimone.

Sì, un giorno affronterò questo tema con coraggio. Con una saga che avrà gli esseri umani come formiche, protagonisti di pagine nell’oceano del tempo. Non ne ho ancora i mezzi; è probabilmente qualcosa che mi richiederà tutta l’energia che ho, tutta la saggezza e la forza.

Perché, siamo onesti, affrontare «la leggerezza esistenziale» richiede un coraggio da leoni, la saggezza di Platone e una tecnica eccelsa.

Per ora, mi diletto nello strutturare il terzo volume de Il labirinto della speranza e mettere a posto il secondo volume. Che casino! Un castello intricato, pieno di trappole e illusioni, un labirinto di specchi dove vedo frammenti di me, di coloro che incontro.

Tra l’altro, mi rendo conto sempre di più che adoro ascoltare gli altri. Perché sono una continua fonte di ispirazione per i miei personaggi, le mie storie. Appena sento qualcosa di interessante, lo assorbo e lo inietto nel mio percorso.

E mi rendo conto che più tendo le orecchie e apro gli occhi, più il mondo mi regala perle da mettere alle mie collane.

Il valore della vita

Ieri, come ogni sera, vagavo per la rete alla ricerca di informazioni su quello che sta succedendo.

Sono un amante della tecnologia e della modernità. La temo, e quindi la frequento: per non perderla di vista, per immaginare il mio futuro.

Cosa mi succederà?

Chi mi legge conosce il mio interesse e timore per l’intelligenza artificiale. Siamo agli albori di qualcosa che sta già rivoluzionando i processi, sia industriali che creativi.

I grandi modelli di linguaggio, macchine pensanti e presto capaci anche di agire (Agentic AI, per chi fosse interessato), stanno prendendo possesso di ogni dimensione umana.

Siamo cresciuti con l’idea che “il lavoro nobilita” e che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, ma se ciò che so fare può essere sostituito da una macchina, il mio futuro dov’è?

La macchina può scrivere, può persino recitare.

Può prendere il mio volto e metterlo su qualsiasi attore di qualsiasi film. Potrà, a breve, generare film con me, o voi, dentro. E sarà credibile.

La macchina lavora con i dati, tantissimi, e genera quello che si potrebbe definire, platonicamente, un ideale.

Se chiedete alla macchina di generare un albero, proporrà un’immagine che è la sintesi di tutte le immagini di alberi prodotte nel corso della nostra storia: fotografie, disegni, immagini di sintesi.

Se le chiederete di scrivere un libro, una serie o un film d’avventura, produrrà un prodotto perfetto, misurato al punto giusto, calibrato secondo gli archetipi che hanno colmato la nostra storia culturale.

Produrrà l’ideale.

Come posso lottare contro l’ideale? Io che sono fallibile, caduco, soggetto al tempo e alla morte?

Io che non so tutto, che non ho accesso a ogni pezzo di conoscenza umana. Io, ignorante, stupido e mortale.

Con la mia ignoranza, la mia stupidità e la mia mortalità.

Perché esse sono ciò che fanno di me un essere vivente, in continua trasformazione. Come voi.

I miei limiti, la fame di conoscenza, la consapevolezza della fine.

Sono queste imperfezioni, difetti, tratti—chiamateli come volete—a rendere la vita un percorso in divenire. Una Divina Avventura.

Perché chi “ignora”, rischia. Chi è “stupido”, sbaglia. Chi è “mortale”, corre.

Rischiare. Sbagliare. Correre.

I motori della vita.

E anche della mia arte, che spero sia la testimonianza autentica di questi miei “limiti”, dei miei sogni, della mia ambizione di comunicare e di emozionarvi.

Se c’è una cosa che la macchina non potrà mai essere, è essere umana.

Quindi abbracciamo questa nostra umanità, infiliamoci tra le pieghe della razionalità e sdraiamoci a sognare quello che non può esistere.

Ma che sicuramente esiste.

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Vita, Morte e Fantasia

Oggi voglio tuffarmi in temi che mi sono molto cari e che continuano ad affascinarmi, per quanto provi a distanziarmene.

Non che voglia dimenticarli, anzi. Ma vivo con il terrore di ripetermi, di essere noioso. Forse è questo che poi mi dà quella spinta in più nella recitazione, nella scrittura, nella comunicazione. Sono terrorizzato dall'essere poco interessante. Ne ho già parlato: il mio terrore della banalità. Quindi spesso mi capita di fuggire da temi che mi sono cari, per il solo motivo di scoprire qualcos'altro, di arricchirmi di differenze che potrò trovare in giro per il mondo.

Il mondo è così vario, come la cucina. Ogni posto ha i suoi costumi, usi, ricette e religioni. Siamo diversi, eppure così simili. C'è qualcosa che sembra accomunarci: la morte, la vita e il ponte tra i mondi, che chiamo la fantasia.

Oggi vi svelerò un segreto. Mi sono dato la promessa di dire sempre la verità a mia figlia, Elettra. E mi direte: "Eh vabbè, che ci vuole!" Al che vi dico solo una frase: "Papà, Babbo Natale esiste?"

Silenzio.

Ecco, non è poi così semplice, vero?

Ovviamente la risposta corretta è no, non esiste. E mi ero preparato a rispondere così nel caso me lo avesse chiesto. Poi, però, qualcosa in me ha cominciato a indagare su questo personaggio: Babbo Natale. Un personaggio nato dalla costola di San Nicola, che prima ancora era il solstizio d'inverno, la giornata più breve, l'inizio della rinascita che avveniva il giorno successivo. Insomma, Babbo Natale rappresenta, in una forma di fantasia, qualcosa di reale, di tangibile. Quindi ho optato per una risposta che fosse onesta, e allo stesso tempo che evitasse di uccidere sul nascere la fantasia.

"Si amore mio, esiste, nel mondo della fantasia. Che è vero tanto quanto il nostro. Ed è pieno di possibilità, di scoperte, e di tutto quello che puoi immaginare."

Chi l'ha detto che le leggende non sono vere? Io ci credo nella fantasia. E chi l'ha detto che il solo pensare a qualcosa non generi, in chissà quale altra dimensione, la nascita di questa cosa? E chissà, magari, nello scrivere l'Anello di Saturno, un mondo distante ma vicino, si è formato, e Luca e Anna esistono, vivono quella storia, come noi viviamo la nostra.

Infatti, chi l'ha detto che noi non siamo il sogno di qualcun altro?

Vita, fantasia e morte sono anche i temi della Divina Avventura. Un'odissea attraverso il fantastico, la fantascienza, la spiritualità, in cui ho peccato di densità, ma ho esagerato in generosità. Se un giorno avete voglia di affrontare qualcosa di più "tosto" dell'Anello di Saturno, il libro è lì che vi aspetta. Per chi non l'avesse mai letto, vi lascio il link alla prima parte del primo capitolo, letto da me.

Detto questo, sabato scorso ho fatto la presentazione dell'Anello di Saturno ad Anagni, ed è stato spettacolare. Poter tornare tra quelle strade, poter tornare a vedere quella storia che mi ha occupato la mente e il corpo per mesi e mesi, è stato anche liberatorio. È stato un po' come tornare a casa. In una casa in cui peró non ho mai vissuto, ma è come se l'avessi fatto.

Perchè si sa: chi vive leggendo vive mille vite.

Come affrontare la solitudine

In una poesia nominata "Piangente", parlo della solitudine. Nell'Anello di Saturno parlo di solitudine. Persino nella Divina Avventura. Nel rispondere a questa richiesta da parte di un ascoltatore, nel cercare di capire come affronto la solitudine, mi sono reso conto che i miei protagonisti sono esseri soli, emarginati, anime vaganti alla periferia del mondo. Ma badate, non sono infelici, solo soli perché privi di un riconoscimento, di un legame con il mondo che li possa far sentire appartenenti a un gruppo.

Io non appartengo, rifuggo dalle classificazioni, dalle bandiere, dal tifo. Penso che nell'eccesso di appartenenza si annidino forze pericolose.

Si dice che quello che lo scrittore scrive, lo scrittore è. Forse è così. Forse sono solo. Fondamentalmente lo siamo tutti in fondo, no? Pavese diceva: "Si nasce e si muore da soli.". Forse si vive da soli, anche, ma cullandoci nell'illusione che i legami che sviluppiamo con gli altri ci tirino davvero fuori dalla solitudine.

Molto tempo fa ho imparato una cosa che mi ha sconvolto la percezione delle cose. Sapete che nulla si tocca? In realtà, ogni particella ha dei campi magnetici che le impediscono di toccare le altre particelle elementari. Se persino gli elementi fondanti del creato sono soli, come possiamo noi non esserlo? Questo mondo nel quale viviamo sembra essere una tempesta di sabbia, i cui granelli non si toccano mai.

Eppure, eppure…

Eppure l'amore. Eppure l'amicizia. Eppure l'odio, l'invidia, la gioia e la paura.

Tutte queste emozioni sono la prova che non siamo soli. Che siamo legati in un certo modo a quello che ci circonda. E anche se gli atomi sono isole fluttuanti perse in un cosmo di nulla, noi, la nostra anima, se vogliamo chiamarla così, percepisce oltre i burroni, oltre le barriere, l'esistenza dell'altro.

Deleuze diceva che siamo deserti che parlano ad altri deserti, io aggiungo che in quel contatto metafisico ci irrighiamo a vicenda. Quei ponti ci collegano con il resto del mondo e ci permettono di sentire che siamo parti di un grande sistema, ben più grande persino della nostra immaginazione.

Il cosmo, la realtà, la vita sono concetti immensi, impossibili da abbracciare. Vanno ascoltati, come si ascolta il vento. Vanno amati come si ama la luce del sole in una mattina di maggio. Vanno accettati, come la morte. Solo così può essere affrontata la solitudine, con la certezza che essa non è altro che un'illusione.

Non siamo mai soli, abbiamo i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri bisogni. E poi, i sensi, i ricordi, le voci degli altri che ancora vivono in noi. Noi siamo il frutto di generazioni precedenti, in noi vivono altre mille antenati, e non solo: tutti siamo rappresentanti della vita, in continuo mutamento, alla ricerca di un legame, forse. Di un senso.

Personalmente, la solitudine è un'amica con la quale passo molto tempo. Mi piace, la amo. Amo quella sensazione di libertà che mi procura. Ma sono anche consapevole che questa valle nella quale mi crogiolo mi ingobbisce, mi ruba al mondo, mi attira nelle viscere della stasi. La solitudine è il momento in cui creo, in cui entro in contatto con me stesso, in cui volo e mi lascio andare all'immaginazione, ai desideri.

Ho paura della solitudine, ma non voglio fuggire da essa: perché la amo troppo.

Il dolore è benzina

Il ricordo della morte di mia nonna, la spiaggia, il silenzio, mio fratello, il tempo che passa. Esperienze che, anche se difficili, ci formano e ci arricchiscono. E dopo averle registrate, le elaboriamo e le abbracciamo.

Ricordo il funerale di mia nonna. Non perché l'ho vissuto, purtroppo non ho avuto la possibilità di farlo, stavo girando. Ma ricordo gli ultimi giorni della sua vita. Arrivai a Cecina a fine marzo, sapendo che non le rimanevano che pochi giorni. Già da tre giorni non rispondeva più e il suo letto era diventato un luogo di addio per i vivi. Un sepolcro.

Un tempo, si nasceva e si moriva in casa. E forse non era poi così male.

Arrivai e c'erano tutti. Mio zio, mio fratello, mia sorella, mia madre. Mancava solo mio papà - il figlio - che arrivò poco dopo, anche lui sommerso di lavoro, era riuscito a venire giù da Milano.

Nonna se ne andò poco dopo che suo figlio l'aveva salutata.

Quel pomeriggio, io e mio fratello - non siamo cresciuti insieme - andammo in spiaggia. Le spiagge della Toscana sono strane. Sono tristi. Hanno quelle piccole alghe a forma di palline pelose marroni e ci sono tronchi secchi che spaccano la sabbia. Da una parte, un mare ancora selvaggio; dall'altra, le pinete.

Quel giorno, il cielo era bianco, c'era vento. Ma io e mio fratello, nel silenzio, camminammo a lungo, fianco a fianco. Successe qualcosa di magico. Decidemmo di spostare un tronco, insieme, per poterci sedere comodi a guardare il mare. In allegra armonia, proprio come un fratello maggiore e uno minore (io), spingemmo il pesante tronco verso il bagnasciuga.

Mio fratello si accese una sigaretta, chiedendo l'accendino a un gruppo di giovani poco più in là. Mi aveva chiesto di andarci io. Ma mi vergogno ancora ad andare a chiedere le cose alle persone che non conosco. Ero fatto così e lo sono tuttora.

Pochi anni dopo, mio nonno raggiunse l'amore della sua vita, chissà dove. La morte di nonno fu più dura, gli ero legato in modo speciale. Gli volevo proprio tanto bene. E piansi, ma non abbastanza.

Un giorno, mentre giravo "Cenerentola", il regista mi chiese di fare una scena con una forte disperazione. Era passato poco tempo e il dolore che mi portavo dentro per mio nonno e era ancora lì, dentro di me. Sentivo che aveva bisogno di uscire, che doveva essere estirpato dal mio cuore. E così feci. Piansi. Aprii i rubinetti. Lo feci così tanto che non riuscii a chiuderli per alcune ore. Il pianto convulso prese il meglio di me, e a fatica girai la scena (quella quando arrivo nel teatro per raggiungere "Cenerentola" da bravo principe azzurro.) e tutto andò per il meglio.

Il dolore è benzina per l'artista. E l'arte è la sua cura. Un circolo virtuoso che vale mille sedute di terapia.

Esiste la sincronicità?

Il diario d'artista è tornato! Mi sono concesso una pausa, offrendovi i primi capitoli dell'Anello di Saturno che oggi, finalmente, esce. Auguro quindi a tutti voi che lo avete preordinato una splendida lettura e attendo con ansia le vostre recensioni.

E ora... il diario.

Oggi voglio affrontare un tema che mi è stato richiesto su Spotify: non so se lo sapevato, ma si possono fare delle domande alla fine dell'ascolto del podcast, e io, come sapete, leggo tutto! Mi è stato chiesto di parlare di sincronicità, di tempo, di vita e morte. Insomma, un argomento leggero e felice, perfetto per inaugurare una nuova stagione del diario! Scherzi a parte, sono temi affascinanti e soprattutto pertinenti all'Anello di Saturno; ho quindi deciso di fare un piccolo salto nel mondo del Destino.

Prima di tutto, è importante chiedersi cosa sia realmente la sincronicità. È un concetto di Jung che si riferisce a quelle coincidenze apparentemente non causali, come se tutto fosse collegato. Jung sosteneva infatti l'esistenza di una connessione tra il mondo psichico e quello fisico, come se ci fosse qualcosa che "ordina" il mondo, oltre lo spazio e il tempo. Nel libro, lo chiamo Destino, e addirittura gli do la parola; è lui che narra di coincidenze, belle e brutte, con le quali trama per sconfiggere l'amore di Luca e Anna. Nel mondo dell'Anello di Saturno, sopra le nostre teste avviene una lotta invisibile tra caos e ordine, tra amore e morte. Ma questo succede anche qui, nel nostro mondo?

E qui entra in gioco la sincronicità, e soprattutto, entra in gioco il credo di ognuno di noi.

Io credo nella sincronicità? È una domanda difficile, alla quale però mi sento di rispondere di sì.

E per dimostrarvelo, vi racconterò un aneddoto incredibile riguardante proprio la saga. Come sapete, tutto inizia ad Anagni, dove fu edificata una famosa cattedrale nel 1072. Nel corso della saga, gli eventi porteranno i protagonisti al tempio di Sakya, in Tibet. La scelta di questo tempio non fu casuale; ma piuttosto dettata dalla necessità di trovare una fonte originale di cultura orientale. Facendo le mi ricerche alle due di notte, scoprii quel monastero. Fu li che nacque una delle più grandi scuole di buddismo: il buddismo tibetano. La cosa più incredibile fu quando iniziai a fare ricerche su Sakya nel dettaglio. La prima pagina che uno sfoglia è wikipedia, e li, con un colpo d'occhio, scoprii una cosa che mi bloccò il fiato: Il monastero di Sakya fu fondato nel 1073. Esattamente un anno dopo la cattedrale di Anagni! Ora ditemi voi quali sono le probabilità che due templi, distanti 8000 chilometri in linea d'aria l'uno dall'altro, in due luoghi così remoti del pianeta, siano stati fondati a un anno di distanza? Per me questo è stato un segno. E quando vedo segni, mi dico che sto facendo il percorso giusto.

Nella saga scoprirete che questi due "templi" sono collegati eccome, io non ne sapevo nulla, eppure, eccoli qui, insieme.

Si può dire che questa sia sincronicità? Chi lo sa. A me piace pensare che sì. Voglio immaginare che tutto ciò rientri in quella magia che avviene nel momento della creazione, in cui l'artista, per chissà quali vettori misteriosi, si collega a sfere che non vediamo, ma forse percepiamo e unisci puntine che sembravano sconnessi.

E voi, avete mai avuto un episodio di sincronicità così evidente da far dubitare anche il più scettico? Vi aspetto nei commenti.

Arte Immortale

Anelo a sopravvivere la morte. Chi non lo ha mai sognato? Io penso che ogni artista, che inevitabilmente affronta la caducità della propria vita e la potenza del tempo che passa, sia stato attraversato da questo desiderio. Anzi, è probabile che ognuno di noi, in un modo o nell'altro, si sia chiesto come immortalare la propria presenza in questa realtà, di cui sappiamo troppo poco.

Voi lo avete mai sognato? Molti film hanno esplorato il concetto di immortalità, dal Sacro Graal a Highlander, passando per le leggende dei vampiri. Il tema è molto caro all'uomo, e non a caso. La morte, come le tasse, è l'unica cosa certa.

Ma è davvero così? Possiamo davvero ascendere all'immortalità? Certamente non con l'arte, ma nemmeno con la scienza. Se pensate che tra quattro miliardi di anni il Sole ingloberà l'intero sistema solare, e l'umanità sarà andata oltre ogni possibile immaginazione, sempre che ci sia ancora, penso che non rimarrà qualcosa nemmeno di Cristoforo Colombo o di Tutankhamon. Figuriamoci di Dante o Shakespeare.

"Siamo viole dal profumo inebriante che appassiranno alla fine dei loro giorni", come scrivo nell'incipit della Divina Avventura. Il libro è un vero percorso verso la consapevolezza della morte, del mistero. E l'ultimo pensiero di Kato, il narratore, prima di morire, è molto semplice: vivere. Portarsi dietro la vita. In questo sento che la vita è come un movimento tragico di un'opera sinfonica che finisce (o inizia?) con la morte.

La vita è morte. Come diceva Shakespeare in "Misura per misura": "Se la morte è una liberazione da tutto, come può essere considerata una perdita? La vita in sé stessa è una malattia; e la morte ne è la cura; e così la mortalità, come una ferita, si rimargina con la stessa lancia che l'ha inferta."

Non sono certo il primo a pormi queste domande. Forse è l'età; sono in quello che si può definire "il mezzo del cammin della mia vita" e quindi inevitabilmente mi pongo delle domande: "Che cosa farà Elettra, mia figlia, quando non sarò più qui?" "Cosa voglio lasciare a lei?" "Che impronta voglio lasciare in coloro che verranno dopo di me?"

Scrivendo queste pagine, capisco che sono ancora incentrato sul futuro. Uno strano futuro in cui non ci sono più, ma pur sempre un futuro. Questo vuol dire che sono ancora vivo dentro.

Ma tornando al presente, il sogno dell'artista di superare il tempo è quindi illusorio. Certo, ma si sa, l'artista vive di illusioni. Il fuoco del desiderio è ciò che lo anima, e mai e poi mai dovrebbe rinunciarvici. L'artista vuole comunicare, dire, esprimere per emozionare. E più persone riesce a colpire, più si sente utile, giusto, in un certo senso. E quindi, se i vivi non lo capiscono (come spesso succede), il sogno che gli uomini del futuro possano intercettare il suo pensiero, la sua arte, gli permette di rimanere vivo, di non sprofondare negli abissi del pensare che la sua arte è inutile.

È successo a molti, pittori, scrittori, filosofi, persino scienziati. Spesso i geni superano la consapevolezza del presente, e nella loro espressione, che sia intellettuale, estetica o emotiva, vi possono essere elementi irriconoscibili a chi non ha gli occhi per vedere. Succede. Ci sono modi per far sì che queste barriere vengano superate, metodi per farsi conoscere, per far conoscere la propria arte, per farsi capire, per crearsi un pubblico; un giorno ne parlerò.

Ma per ora, vi basti pensare che il tempo è certo tiranno, ma è il miglior amico di sogni e illusioni. Quindi, per un attimo, lasciate che mi culli in un tempo in cui la mia presenza è lieve, ma la mia opera respira nelle anime dei vivi.

La guerra dentro di noi

La guerra. La guerra non finisce mai. Tra i confini immaginari di una terra che ben si beffa di queste linee disegnate dalle scimmie, di risorse che sono di uno o dell'altro in base a chi ci arriva per primo, a chi ha più carri armati.

Ma oggi è della guerra dentro di noi che voglio parlare. Quella che ogni giorno ci confronta con i nostri desideri, le nostre paure. Quel dilemma infernale tra l'essere o l'avere, tra il "chi sono?" e il "chi voglio essere."

Come possiamo pretendere che milioni di uomini agiscano in pace, se non sono capaci di essere con sé stessi, in pace? In effetti, la pace interiore, quello stato quasi magico a cui molte religioni provano a far ascendere i loro proseliti, è un punto di partenza, un luogo in cui i ponti possono essere costruiti, in cui amori, unioni, e persino la morte e la malattia possono essere abbracciati senza contrasti, ma con accettazione.

L'artista, forse più di altri, vive questo contrasto quotidianamente, anche semplicemente per il fatto che la sua scelta di vita, spesso è ostacolata da coloro che gli vogliono bene, soprattutto all'inizio. É una vita difficile, quella dell'artista, una vita fatta di rinunce alle sicurezze, per inseguire la propria passione a scapito di molte cose, anche di relazioni, di amori, di guadagni sicuri.

Io sono stato fortunato, i miei genitori mi hanno sempre appoggiato nelle mie scelte, con un valore incrollabile che mi hanno ripetuto ad ogni angolo, ad ogni bivio della mia trama. "Qualsiasi cosa tu scelga, sappi che hai le spalle coperte, Flavio. Noi siamo qui." Ecco se dovessi indicare cosa rappresenta più di tutto per me l'amore genitoriale, direi che è proprio questa frase qui. Una frase che in un certo senso, mi ha appacificato con le mie paure, mi ha tranquillizzato. Mai, in tutti questi anni, ho necessitato di questo aiuto che mi fu sempre offerto, ma il fatto di sapere che fosse disponibile nel caso in cui ne avessi avuto bisogno, mi ha dato quella spensieratezza necessaria per andare avanti.

Spensieratezza.

Ecco una parola che ha una sua magia. Credo che molte guerre interiori, se ci fosse più spensieratezza, si scioglierebbero come neve al sole. Altro che trascendere, buddità o illuminazione. Un po' di spensieratezza e via!

Ma poi nasce in me un dilemma di cui ho già parlato. Ma se fossimo tutti spensierati, l'arte sarebbe davvero la stessa? Si dice che gli artisti diano il meglio di loro nei tormenti dell'anima, nella solitudine che li pone di fronte all'abisso esistenziale. Un artista spensierato non è forse come un violinista senza strumento?

Ecco, sta emergendo in me un pensiero: l'artista è il combattente di sé stesso. Perennemente in lotta contro i suoi demoni, le sue visioni. Proprio come coloro che, con visioni, paranoie e generalizzazioni, proiettano sul "nemico" tutto l'odio, tutta la paura, tutta l'ira che i loro demoni sopiti hanno covato senza trovare sfoghi.

Sfoghi. Ecco qua. Se è vero che l'artista vive di contrasti e lotte interiori, è anche vero che egli trova, proprio attraverso l'arte, una possibilità di sublimare il torbido che ha in sé, si sfogarlo. L'arte è un atto terapeutico per l'anima di chi la fa, e - se fatta bene - anche per l'anima di chi l'ascolta, la guarda, la sente.

Quando ero piccolo, e cominciavo il mio percorso di artista, guardavo con stupore i soldati al fronte. Nelle tende del deserto, tra proiettili e solitudini. Mi chiedevo come fosse possibile resistere in quell'inferno. E poi scoprii che molti di loro, proprio per non collassare sotto il peso della difficoltà, si tuffavano nell'arte. Nei libri, nei film, nella musica. Alcuni persino nella scrittura.

In quel momento, mi ho capito che l'artista e il soldato sono due facce della stessa medaglia. Due combattenti, uno dell'anima, l'altro della terra. Entrambi cercano la pace, entrambi attraversano territori pericolosi, ma in dimensioni contrapposte. Senza il soldato, la pace necessaria a far fiorire l'arte non ci sarebbe. Ma senza il sollievo dell'arte, i soldati avrebbero la vita difficile.

É un dialogo silenzioso, agli opposti dell'etica, della morale, e della visione del mondo.

Arte e guerra. Amore e morte. Fratelli distanti, eppure indivisibili.

Il Costo dei Desideri

Viviamo in un mondo in cui tutto è proiezione: le Pubblicità ci proiettano in mondi migliori, I film ci proiettano in emozioni più grandi, più belle, più perfette. I social ci proiettano in versioni aumentate di noi stessi, in cui il nostro controllo su ciò che mostriamo diventa un divario che piano piano ci divide da ciò che siamo.

Quante volte avrete sentito le teorie di molti guru del "self-improvement" che vi dicono che per ottenere qualcosa basta desiderarla. "Visualizzarla", così dicono. Che vogliono convincervi a suon di stage intensivi che la potenza del desiderio è sufficiente per far manifestare nel mondo ciò di cui voi avete bisogno?

Questa visione, oltre ad essere puerile e adolescenziale, è anche deleteria. La proiezione - se non è gestita nel modo giusto - distrugge. Un'anima sensibile, che ancora non si regge da sola, che ha bisogno di forza, di tempo e di coraggio, di fallimenti e di dolore, rischia di trovare nella proiezione, l'eden perfetto nel quale non affrontare mai le proprie difficoltà. Rischia di continuare a vivere di proiezione (e di stage) fino alla sua morte.

Come dice il proverbio. "Chi vive sperando…"

Penso che l'illusorio convincimento che basti desiderare qualcosa per ottenerlo, provenga dalla manifestazione di varie generazioni viziate dall'amore di genitori (loro sì, veri lavoratori). Una deriva che ha portato piano piano a pensare che tutti debbano per forza essere premiati a prescindere dal risultato ottenuto.

"La partecipazione come metro di successo, invece del merito."

Da un estremo all'altro. Siamo passati dalla violenta competizione ultra-capitalista ad un "all you can eat" del buonismo, in cui uno vale uno a prescindere da tutto.

Ma non è così, per una semplice e buona ragione: i desideri prendono spazio, nel mondo reale. Chiunque, animato da un desiderio, agisce e si comporta di conseguenza. Quindi il desiderio esiste e richiede di essere riconosciuto. Richiede energia, prende energia, spazio vitale.

E se esiste in questo mondo, che è fatto di risorse finite, allora è fisicamente impossibile che tutti i desideri di tutti gli uomini possano essere avverati solo per via della volontà di chi li muove. L'universo è un equilibrio sempre cangiante, in cui, come diceva Lavoiser, "nulla si perde, nulla si crea, tutto si trasforma."

E quindi è vero che i desideri trasformano il mondo, ma vi siete mai chiesti il loro costo qual è?

Se le risorse non sono infinite, è possibile che un mio desiderio fagociti quello di un altro. É molto possibile. Anzi, direi che è addirittura certo. Proprio per via del manifestarsi di tale desiderio nella realtà.

Ecco, mi piacerebbe che si parlasse di più dei costi dei desideri, più che della loro realizzazione.

La Perdita di Controllo

Il controllo. Questo maledetto controllo.

C'è una pubblicità che dice: "La potenza è nulla senza controllo."

Ma è davvero così?

E se invece il controllo fosse proprio ciò che ci impedisce di esondare da noi stessi, di trovare parti nascoste, intime, sopite e potenti che abbiamo dentro?

Da millenni, tutte le società umane hanno instaurato, tramite riti, ricerca, droghe, farmaci, sistemi di controllo e di perdita di controllo. É insito dentro di noi cercare altro da quello che conosciamo. La vita è esplorazione, la vita è andare oltre. Ma la vita è anche regole, rispetto, ordine.

E l'arte?

Si dice che la materia grigia, l'ultima innovazione della biologia per quanto riguarda il nostro cervello, e quindi - si suppone - la punta massima dell'evoluzione percettiva, serva per affrontare concetti alti come la filosofia, l'arte, l'astrazione matematica. In ognuno di questi campi vi è un regno di conoscenza da scoprire che potrebbe essere inesauribile. Un prato di conoscenza vasto come l'infinito. Come potrebbe dunque il controllo permetterci di navigarlo?

Penso alle tre caravelle, all'errore che diede nascita al nuovo mondo. Un'illusione di controllo, basata su un'intuizione corretta, che però non aveva preso in considerazione la nostra incapacità di sapere cosa nasconde l'ignoto. In questo caso, un intero continente.

Colombo, quindi, navigava con grande controllo tecnico, altrimenti mai sarebbe stato capace di superare l'oceano, ma con anche una forte dose di follia - intesa come la convinzione di avere ragione. Questo, per sua fortuna, non lo portò al baratro di un mondo piatto, ma alla scoperta, appunto, del nuovo mondo.

Come può l'artista scoprire nuovi mondi ed avere il controllo, se i nuovi mondi sono irreali, inesistenti, tangibili come i pensieri e i sogni? Si può davvero controllare la propria anima, le proprie emozioni, e allo stesso tempo navigare lì dove non ci sono regole?

Temo di no. Ed è questo lo scotto dell'artista. Perdersi nel proprio viaggio. Farsi trasportare dall'emozione, dal piacere, da tutte le vibrazioni che lo portano alla creatività, ma che permeano non i suoi fogli di lavoro, non le sue cartelle sulla scrivania, ma i suoi sentimenti, i suoi desideri.

L'artista vuole perdere il controllo. Brama quel momento in cui sa che ormai è troppo tardi, in cui non gli rimane che continuare ad immergersi nell'opera, che sia testuale, musicale, visiva, carnale. É in quella perdita di controllo che vi è il regalo, il dono che lascia nell'opera. É il suo segno.

Ma la difficoltà vera non è perdersi, ma ritrovarsi. L'artista, dopo essersi steso sui fiori dell'abbandono, tra i profumi di eros e thanatos, deve tornare qui, in questo mondo, per cercare altri orizzonti. E quel momento, quella recisione con un pezzo di sé, è difficile.

All'inizio della carriera è quasi impossibile e poi, con gli anni, piano piano, l'artista trova modi per mitigare il dolore della separazione, per rifiutare i canti soavi del desiderio di rimanere nella sua bolla e dimenticare tutto e tutti.

Piano piano l'artista si risveglia e si rende conto che sono state illusioni, proiezioni, vere come l'amore, tangibili come la morte. Una dicotomia percettiva che trova, con il tempo, un nuovo equilibrio, pronto ad essere di nuovo distrutto dalla prossima opera, dal prossimo desiderio.

Può l'Arte Resistere al Tempo?

Da giovane, collezionavo DVD. Avevo l'antologia dei miei due registi preferiti. Hitchcock e Kubrick. Possedevo tutti i loro film, che ho guardato e riguardato non so quante volte. I miei preferiti? Forse 2001 per Kubrick, anche se adoro il lento scorrere di Barry Lindon, e per Hitchcock, direi "Vertigo". Ma ognuno dei loro film è un capolavoro senza tempo.

Se dovessi scegliere tra Kubrick e Hitchcock, forse sceglierei Kubrick. Ammiro molto la sua capacità camaleontica di aver cambiato genere ad ogni film che ha affrontato. Sembrava deciso a vagare tra le trame dei generi e fare, di ogni sua opera, un mondo unico, che si aggiungesse al ventaglio incredibile di emozioni che aveva affrontato nei precedenti.

Solo Kubrick è stato capace di passare dall'incredibile comicità di Sellers in "Dr Stranamore" alla folle violenza di "Arancia Meccanica". Ogni suo film è un capolavoro che va preso quasi come una stella a sé stante, un universo a parte. Io ambisco a questo.

La domanda originale è però di tutt'altro sapore, quanto dura l'arte? Ha una data di scadenza? A volte mi fa paura il pensiero. Per esempio, guardo un capolavoro come 2001 che tratta di concetti alti, di antropologia, di filosofia, è lisergico, visionario, ma la parte nella base lunare, per quanto anch'essa visionaria, è figlia dei suoi tempi, della moda, della contemporaneità che si fa subito vecchia, antica.

Eppure, il film sopravvive al tempo, anzi, piano piano il suo valore, come i materiali nobili, aumenta. HAL, il computer intelligente che decide di uccidere gli uomini è più attuale di tanti cineasti moderni che vogliono parlare dei problemi dei nostri tempi. Certo, questo è dovuto allo scrittore del libro di Arthur C. Clarke, ma Kubrick ha saputo dipingerlo nel migliore dei modi e il film è il frutto di una collaborazione tra i due.

Kubrick ha dipinto HAL 2000 in maniera elegante, precisa, impietosa. Un occhio rosso che è diventato, nel corso del tempo, l'icona del grande fratello, di colui che tutto sa e tutto spia. Una presenza quasi divina, anzi - demoniaca.

Alcune case editrici dicono che un libro, passato i primi 6 mesi della sua uscita, è "vecchio". Davvero un libro ha una data di scadenza così terribilmente breve? Io voglio pensare che le parole scritte possano sopravvivere persino a colui che le ha immaginate, che possano solcare il tempo, surfare l'onda dell'evoluzione e parlare ai posteri, persino meglio che ai contemporanei.

Io sono certo che sia così, perchè quando rileggo i grandi filosofi greci, io vedo me stesso. Eppure loro non avevano il telefonino, l'intelligenza artificiale, l'elettricità. Eppure i pensieri sopravvivono. Per quale motivo? Penso che sia perchè i problemi fondamentali che affrontiamo, la morte, il divino, l'amore, il destino. Sono tutti temi che sono validi ora e lo saranno tra mille anni. Lo saranno fino a che rimarremo umani, finché saremo vivi.

Durante questo cammino verso il mio futuro da scrittore, ho incontrato molte persone, anch'esse appassionate dall'arte di narrare delle storie. Alla domanda "perchè lo fai?" quasi tutti mi hanno dato una risposta simile: "Voglio lasciare un segno, lasciare qualcosa."

In fondo, ciò che spinge l'artista a "fare" è questo: la speranza che quel suo gesto rimanga nel tempo. Che non abbia data di scadenza. Secondo voi l'artista è un illuso? Tutto prima o poi scompare oppure davvero coloro che sono toccati dalla grazia del mistero riescono a diventare immortali?

Vi aspetto nei commenti,

Indipendenza Artistica

Sin da bambino sono sempre stato un ragazzino pieno di indipendenza. Sempre alla ricerca di un modo per non dover rendere conto agli altri.

Questo mi ha portato ad amare la mia solitudine, cosa che scoprii, solo più tardi nella vita, essere una caratteristica più unica che rara. Insomma, adoro la solitudine, amo quella libertà, quell'orizzonte di possibilità che si porta dietro. Il non dover dipendere dagli altri è una parte essenziale di me, e anche, per forza di cose, del mio spirito artistico.

Se fate un salto sul mio sito, vi renderete conto che ho coltivato negli anni - chi mi segue da molto lo sa - una miriade di progetti indipendenti, e tutti, in un modo o in un altro, hanno trovato vita, senza però "esplodere" come potrebbero esplodere progetti che sono connessi al mondo.

Mi spiego meglio, penso di aver pagato - con piacere - il mio auto isolamento. In fondo, perchè un progetto funzioni nella società, perchè ottenga un riconoscimento "generale" è necessario che anche altri agenti siano coinvolti. Che i "grandi giocatori", come vengono chiamati coloro che muovono i grossi numeri, abbiano qualcosa da guadagnare dal successo di quell'opera.

Sennò perchè dovrebbero attivarsi?

Non è un caso che i premi, sia nel cinema che nell'editoria, siano un'esclusiva delle grosse produzioni, o delle grandi distribuzioni. Il motivo è, da una parte, l'alta qualità fornita da questi "player" che, avendo a disposizione grandi capitali sono capaci di produrre contenuti eccezionali. Ma dall'altra parte, quel successo è dovuto alla fusione dell'ecosistema, in cui tutti hanno qualcosa da guadagnare da questa sinergia comune.

Ecco dove il mio essere indipendente paga lo scotto. La mia volontà di farcela da solo è talmente forte che potrebbe essere definita tragica. Sono destinato, come Tantalo, a non arrivare mai li dove vorrei. Il mio intento, nel momento in cui mi esprimo, è quello di parlare ai più. Ma vorrei farlo da uomo libero, senza i vincoli di altri che - giustamente - vogliono mettere bocca sull'opera.

Ripeto, giustamente. Le case editrici, i distributori conoscono bene il mercato, sanno cosa funziona e cosa no, e quindi sanno dare a chi collabora con loro le indicazioni corrette per massimizzare le opportunità di successo.

Ma allo stesso tempo, quante volte é successo che grandi artisti venissero ignorati dal mercato, e che diventassero, dopo la loro morte, riconosciuti? Questo è un tema ricorrente nel mio diario, me ne rendo conto. Ma come avrete capito è anche qualcosa che mi tocca particolarmente.

Io ho un sogno, quello di creare un legame diretto tra l'artista e lo spettatore. Dove è lo spettatore ad essere la fonte di sostentamento dell'artista. Sogno uno scambio equo, in cui l'artista procede nel suo percorso di ricerca e condivide con chi lo segue i frutti preziosi del suo lavoro.  

Un rapporto reciprocamente benefico.

Insomma, indipendente o mainstream? Non lo so. Ma quello che posso dire è che essere entrambi è molto difficile. Io ne sono in un certo senso una doppia incarnazione. Scisso in due. In quanto attore, posso essere definito mainstream, popolare. Ma come artista, come poeta, regista, scrittore, sono un indipendente.

Tuttavia, in un mondo liquido di meteore digitali, credo che l'integrità artistica, nel tempo, sarà sempre più apprezzata. Ogni volta che sono tentato di vendere la mia arte al mainstream, qualcosa dentro di me resiste, valorizzando la libertà sopra tutto. Sono, e rimango, un idealista.

E voi, cosa ne pensate? Il compromesso è necessario? Anzi, benefico? Oppure bisogna lottare per i propri ideali al punto da sacrificare il guadagno in cambio della purezza?

Come Liberare la Tua Anima Creativa

"La Sindrome dello Scolaretto"

Non penso che esista una sindrome come questa, almeno nei manuali. Tuttavia, l'ho spesso incontrata e agli inizi della mia carriera vi sono caduto più volte dentro. La denomino "la sindrome dello scolaretto" perché, in sostanza, equipara arte e compiti scolastici.

Molti artisti, soprattutto i novizi (e non tecnicamente parlando, s'intende, ma nel percorso di introspezione e ricerca, perchè è questa è la vera strada dell'artista - nessun manuale potrà insegnarvelo.) Insomma, i "novizi" confondono spesso "espressione personale" e "tecnica". Trasformano la tecnica in espressione, proprio come uno studente che affronta il compito non per un processo personale, ma per appagare l'insegnante.

Se questo può funzionare in una dimensione scolastica, nell'arte produce dei mostri. Perchè ciò che conta è il cuore, l'anima, l'amore, il sesso, la morte, la tragedia, la commedia. Bisogna far vibrare le anime! E nessuna tecnica ve lo insegnerà, perché la tecnica non è luce, la tecnica è "pulizia del segnale". Serve a togliere i fruscii, a pulire il messaggio, ma se per essere "giusti e corretti" sacrificate il cuore sull'altare del compito perfetto, ciò che avrete tra le mani alla fine sarà un'opera facilmente dimenticabile, apprezzabile forse solo da altri amanti della tecnica perfetta. E fidatevi, sono pochi. Perché se qualcuno investe tempo, denaro e attenzione nella vostra arte, in cambio cerca solo una cosa: trasformazione. Vuole ridere, piangere, emozionarsi, cambiare punto di vista sul mondo, raccontare agli amici della scoperta. Questo è l'arte.

Quindi fatevi un favore, dimenticate la pila di manuali che avete accumulato per anni, dimenticate ciò che credete sia "giusto". Dimenticate. E lasciatevi guidare dalla necessità, dal desiderio di esprimere ciò che vi sta realmente a cuore, scavate nella vostra anima, trovate un diamante e portatelo fuori. Poi, pulitelo, certo. Rendetelo splendente quanto volete. Ma fidatevi, potete pulire quanto volete un pezzo di chincaglieria da quattro soldi, ma resterà sempre chincaglieria.

Per fare arte bisogna sbagliare, bisogna conquistare territori inesplorati, quindi è inevitabile che vi troviate molto spesso davanti al muro dell'incomprensione dei vostri pari. Perché la maggior parte della gente - anche nell'arte - affronta il processo creativo a livello mimetico. Imita. Qualcosa funziona? Lo copio così funzionerà anche per me. Io sono per il processo mimetico, come diceva R. Girard, è fondamentale sia per la formazione l'individuo che per la stabilità della collettività. Ma il processo mimetico appartiene allo studente, non al maestro. L'artista è colui che trascende i suoi maestri e trova in sé e nel mondo che lo circonda l'ispirazione per rompere que gli argini nei quali è cresciuto. Solo così l'anima creativa si libera, solo così nasce lo stupore.

Siate minatori, cacciatori di nulla, farfalle che si sentono aquile, fragili bolle di sapone nel tornado della vita. E non desistete, perché ricordate, come dice Overton, che "Anche se non le vediamo, le stelle brillano anche di giorno."

La Divina Avventura III

Vagavo per le strade illuminate di Baltica, cercando Luna. Sapevo che a quell’ora non l’avrei trovata a casa, così mi diressi verso la spiaggia. Percorsi la sabbia fine fino a scorgere Luna seduta sulla battigia, intenta a lanciare sassolini in acqua e a fissare la città degli Zero. La città in cui ora viveva anche Argo. Mi sedetti accanto a lei, pronto a condividere quel momento di malinconia. Sopra di noi, le stelle. Nel silenzio, attesi. Attesi finché non la sentii abbastanza serena per parlarle del futuro che speravo potesse essere nostro.

“Non puoi aspettare all’infinito qualcosa che non c’è più” dissi, “È tempo di andare avanti. Argo è uno Zero ora. E gli Zero non tornano a Baltica.”

“Dovresti essere grato che lui sia ancora là” rispose lei senza distogliere lo sguardo dalle luci della città nel mare, “Se io non fossi qui ad aspettarlo, probabilmente sarei già Trascesa in Eden. E tu saresti solo.” Così dicendo, lanciò il sasso che teneva in mano.

Il vento gelido mi sferzò le guance, mentre osservavo la luna che sorgeva dal mare.

“L’unica cosa che mi trattiene qui è la speranza che torni” continuò lei, “So che prima o poi ci rivedremo.”

Il suo amore per Argo era come un pugnale nel mio cuore, così cercai di cambiare argomento: “KS mi è apparso in Eden e mi ha promesso la perfezione.” Mi voltai verso di lei per leggerne il volto. “Vuole che trovi un ragazzo di nome Overton. Oltre le Mura di Baltica. Questo significa che non ci vedremo per un po’ di tempo.” Le presi la mano e dissi: “Diventerò perfetto, finalmente. Potremo Trascendere in Eden, Luna. Insieme. Ti prometto che ti aiuterò a dimenticare Argo.”

Luna si scurì nel sentire questa mia promessa: “Io non voglio dimenticarlo” disse con voce tremante, “Lo amo. Non voglio perdere i ricordi che ho di Argo.” Poi, esitò per un momento, come a valutare cosa significasse davvero avermi accanto per l’eternità. Quindi, con un lampo di decisione, mi fece una proposta: “Kato, se mi prometti di non cercare Overton, ti amerò fino alla tua morte.”

Risposi a quelle parole col silenzio, cercando di elaborare ciò che mi aveva appena detto. Avevo aspettato per tutta la vita quel momento. Perché me lo diceva solo ora? Lei amava Argo, non me. “Perché mi dici questo?” chiesi, ancora sbalordito dalle sue parole.

“Perché so quanto sei determinato nel raggiungere i tuoi obiettivi, Kato. Persino KS ha ceduto alle tue insistenti richieste. Questa tua determinazione mi spaventa. Temo che se Trascendessimo insieme in Eden, con l’eternità dalla tua parte e questa tua ostinazione, potresti davvero riuscire a farmi dimenticare Argo.”

“Quindi, se io rinunciassi alla Trascendenza, mi ameresti per tutta la vita?”

“Sì, lo farò.” disse Luna, annuendo decisa.

“Ma non sarebbe vero amore. Non a queste condizioni.” obiettai, ferito.

Mi strinse le mani per tentare di convincermi: “Kato, guardami. Ti prometto che ti amerò senza mai cedere. Ti accetterò per quello che sei. Rinuncia a partire, rinuncia a questo tuo folle desiderio di farmi dimenticare Argo e io ti amerò. Ti prego.” La sua voce vibrava di emozione.

Mi misi a riflettere; poi, sussurrai: “Se ti chiedessi di dirmi, in questo momento, che non ami Argo, lo faresti?”

Luna fece una pausa e ci pensò, poi scosse timidamente la testa, abbassando gli occhi. “No, non lo farei. Ma posso amarvi entrambi.” Distolse lo sguardo e si voltò verso le luci della città riflesse sul mare nero. Rimanemmo lì, insieme, a perderci nell’oscuro orizzonte, senza nulla da dire. Era chiaro che avrebbe sempre avuto Argo nel cuore. Non c’erano altre soluzioni per me: non ero disposto a condividere il mio amore per Luna. Non mi rimaneva che partire.

“Andrò alla ricerca di Overton, Luna. La tua offerta è generosa. Davvero. Ma non posso accettarla.” Mi rialzai a fatica, sfidando il peso dei miei anni e del mio dolore. “Non mi resta molto tempo e io voglio condividere con te l’eternità.” Notai nuove ombre addensarsi nei suoi occhi già neri. Tentai di consolarla. “Luna, ti prometto che il nostro idillio sarà perfetto.”

Mi fissò con gli occhi lucidi di lacrime: “Tu non sei mai riuscito a vedere nulla, oltre a te stesso. Tu non desideri il mio amore. Tu vuoi che per me non esista nulla all’infuori di te.”

Sordo a quelle parole, risposi asciugandole la lacrima che le scendeva lungo il viso. “Ti prego, non piangere. Vedrai che, con l’eternità davanti a noi, anche tu mi capirai. Ci lasceremo indietro ogni ricordo di questo mondo. Di questo mondo e soprattutto di Argo.”

Mi guardò, esterrefatta, spaventata da questa mia volontà incrollabile. Ci fu un attimo di sospensione nel quale mi fissò muta, colma di ansia per questa mia folle ossessione di conquista. Spezzò il silenzio e se ne andò.

La guardai allontanarsi, convinto che il tempo avrebbe aggiustato tutto.

Forma vs sostanza

Oggi mi soffermerò sull'abissale conflitto in cui la nostra società ci immerge quotidianamente: "la forma o la sostanza"?

Questa tematica non è confinata alla nostra società, ma sembra essere un leitmotiv che assilla l'artista sin "dalla notte dei tempi", come recita l'evocativo cliché.

Forma e Sostanza. Questo enigma esistenziale assilla ogni artista. Quando prevale la forma e quando la sostanza? Conta di più la copertina del libro oppure il suo contenuto?

"Il contenuto!" potreste rispondere. Ma se nessuno sfoglia quel libro, quel contenuto è come se non esistesse. Se nessuno compra il libro, l'autore non potrà godere del trionfo della sua arte e neanche riempire la sua tavola di cibo. Questo lo condurrà, inevitabilmente, a cercare altre praterie in cui essere accolto, come lavorare alle poste, come accadde a H. Melville dopo aver composto Moby Dick. Infatti, sappiate che l'autore del più importante romanzo moderno americano cessò di scrivere dopo che il suo libro fu bollato come mediocre dai critici dell'epoca e non conquistò il favore dei lettori. Solo un secolo dopo, il libro fu ristampato e ottenne l'enorme successo che lo pone, ancora oggi, tra i bestseller annuali.

Se Melville avesse adottato una forma differente, avrebbe forse avuto successo? Ma se si fosse piegato alle regole del mercato, forse non avrebbe scritto quel capolavoro. Forse avrebbe prodotto quello che tutti gli altri suoi coevi scrivevano, risultando "uno fra tanti."

Insomma, l'aderenza artistica rappresenta un autentico dilemma. Un artista che rimane totalmente indipendente corre il rischio serio di non riuscire a vivere della sua arte, e un artista che invece aderisce alle regole del mercato, rischia di non essere autenticamente un artista, ma un copista, un impiegato a tempo indeterminato. Esistono compromessi? C'è un modo per far convivere entrambe le cose?

Forse sì. Molti artisti svolgevano due lavori. Uno per "guadagnarsi il pane" e uno per "Dialogare con l'eternità". Mantenevano questi due impieghi separati, quasi ermeticamente, in modo che uno non inquinasse l'altro. Almeno, ci provavano, ma non tutti ci riuscivano. Sicuramente, molti di loro conducevano una vita difficile, perché in fondo, l'anima romantica dell'artista lo permea in ogni sua cellula, e la mancanza di riconoscimento non può che condurlo alla frustrazione, a quel dubbio terribile di essere, come sottolineavo in un'altra pagina del Diario, "un impostore".

Ci saranno quelli che sostengono che l'arte risiede dove c'è commercio, e non posso dire che sbaglino. Molti grandi movimenti artistici furono legati a un successo commerciale, basta pensare al fastoso teatro del 1600/1700, epoca aurea della drammaturgia, che ci ha donato i Shakespeare, i Molière e i Lope de Vega. In quel periodo c'erano più drammaturghi che panettieri, (si fa per dire), e quindi, per una pura questione di statistica, i migliori erano davvero "migliori". L'abbondanza genera qualità, in un certo senso. La sopravvivenza del più forte. La legge della natura applicata all'arte.

Ma ci sono anche le "pecore nere", coloro che hanno lasciato il segno nella nostra storia senza essere minimamente riconosciuti durante la loro vita. Kafka è l'esempio più evidente. Addirittura scrittore postumo. Ma come Kafka, molti pittori, musicisti. Mozart fu sepolto in una fossa comune. Immaginate, Mozart.

Cosa significa tutto ciò? Non lo so. Non ho risposte a questa domanda. Credo che ognuno di noi si confronti con la propria etica, morale. I propri desideri. E non credo che ci siano desideri più giusti o meno giusti. C'è chi aspira al successo. Chi invece vuole perseguire la verità a ogni costo. Chi è convinto di qualcosa di cui nessun altro è convinto. Chi ha ragione e chi ha torto.

Concluderò con un altro esempio straordinario: Ignaz Semmelweis, un medico ungherese del XIX secolo. Celebre per aver proposto che i medici dovrebbero lavarsi le mani prima di assistere le donne durante il parto per prevenire la febbre puerperale. Questa era una malattia mortale che colpiva molte donne dopo il parto. Le teorie di Semmelweis furono largamente ignorate o respinte dai suoi contemporanei, che non compresero il nesso tra igiene e infezione, dal momento che i germi e i batteri non erano ancora stati scoperti.

Semmelweis cadde in disgrazia nella comunità medica e, alla fine della sua vita, fu ricoverato in un manicomio dove morì in circostanze misteriose.

Solo dopo la sua morte, e con la scoperta dei germi da parte di Louis Pasteur e Robert Koch, il suo contributo alla medicina fu riconosciuto e apprezzato.

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Il futuro dell'arte nell'era degli algoritmi

Oggi tocco un tema caldissimo: Il futuro dell'arte in un mondo di algoritmi...

Spesso rifletto sulla figura dell'artista e sulle difficoltà che dovrà affrontare negli anni a venire: Il mondo si trasforma, evolve, e noi continuiamo ad osservarne i dettagli cangianti ogni giorno, senza sapere se esserne terrorizzati o affascinati.

Come ho già affermato, immagino l'artista come un esploratore di mondi. Se dovessi immaginarlo ai tempi in cui il sapiens ancora migrava, l'artista sarebbe colui che partiva - da solo - alla ricerca di qualcosa oltre la foresta e, dopo alcuni giorni, tornava con una storia da raccontare davanti al fuoco. Forse non aveva carne o acqua, ma portava entusiasmo, stupore, energia e amore. Ecco ciò che, a mio avviso, alimenta l'artista dentro di noi; sono queste le qualità che devono emergere nel momento in cui una storia - qualsiasi storia, che sia scultura, danza, architettura, musica o poesia - viene raccontata.

Ma ora, con l'arrivo degli algoritmi generativi, come si devono comportare gli artisti? Fotografi, illustratori e ora anche scrittori e musicisti (e presto attori, registi, montatori) temono l'avanzata degli algoritmi, capaci di produrre contenuto infinito, sempre diverso e perfetto come una sfera stampata in 3D. È dunque questo il futuro che ci aspetta? Un panorama artistico di pillole perfettamente sferiche, senza difetti, che nutrono i nostri desideri nel modo più "corretto" possibile in base ai nostri profili social? Il Dio macchina sta per dominarci con una carezza? E se fosse così, allora quale futuro ci sarebbe per l'arte?

Ma in tutto questo, la vera domanda che io pongo gli artisti è: pensate davvero che lo spettatore si accontenterà della riproduzione meccanica e perfetta di ciò che è già stato fatto? Credete che la vita si limiti a galleggiare placidamente nel costrutto artificiale di ciò che è, in effetti, morte? Perché ciò che viene generato dall'algoritmo di intelligenza artificiale non è altro che la somma di ciò che è già stato creato. L'algoritmo è un Moloch che assorbe e rigetta. È uno strumento, non un creatore. È una calcolatrice. Utile se si ha qualcosa da fare o da dire.

Vi faccio un esempio. Quanto stupido può sembrare una persona che chiede a una calcolatrice di fare 123523532543/346674534 ed esulta quando ottiene il risultato? Completamente stupida, perché di per sé il calcolo non è interessante. Ma se mi dite che questo calcolo serve per capire quanto carburante deve essere messo in un motore per compiere tot chilometri per arrivare su Marte, ecco che la calcolatrice trova il suo giusto contesto di utilizzo.

Tornando alla figura dell'artista in questa nuova era tecnologica, credo che debba fare ciò che sto cercando di fare io: sviluppare una relazione diretta con chi lo segue. Non affidarsi più alle piattaforme (Facebook, Instagram, ecc.), ma creare un legame il più diretto e concreto possibile con chi lo apprezza, per generare un piccolo giardino di speranza e arte in cui prosperare. Ed è questa la funzione di "Diario D'artista", del sito e di tutto ciò che vedete. È il mio modo di creare un legame con voi. Ed è l'unico futuro possibile per l'artista: una "rete" che lo lega a coloro che vogliono viaggiare con lui.

"La Divina Avventura" è solo la punta di questo gigantesco iceberg che sto cercando di costruire, ma che non avrebbe senso se non ci foste voi a seguirmi.

Quindi questa pagina la dedico a te, che mi stai leggendo, che mi segui, che guardi le fiction in cui partecipo, che magari conosci "Sogno Farfalle Quantiche" o "#ByMySide", che hai seguito la follia di "Days" e che ora tifi perché questo libro abbia successo.

Grazie di cuore, senza di te, io non sarei qui.

La routine dell'artista

L'artista dovrebbe fuggire dalla routine, dalla monotonia che rende facilmente prevedibile la vita. Dovrebbe essere alla ricerca dell'ignoto, di mondi inesplorati e avventurarsi nella foresta della vita per trovare gemme preziose da portare al villaggio. Di sera, dovrebbe raccontare delle sue meravigliose avventure ai suoi concittadini che hanno cucinato il pane, lavorato e partecipato alla collettività. Questa dovrebbe essere la funzione dell'artista: fuggire dalla routine.

Eppure, la "routine", come viene chiamata, è una parte essenziale del processo artistico. È quasi come quelle credenze antiche che ci perseguitano. Quante volte abbiamo temuto, anche solo per un momento, che fosse vero che un gatto nero che ci attraversa la strada ci avrebbe portato sfortuna? O che passare sotto una scala cambia la direzione degli eventi? La routine somiglia a questo, è un modo per richiamare una parte di sé alla vita, per riprodurre attraverso uno schema prestabilito, un canale creativo. Ognuno di noi ha una routine, non solo gli artisti. La vita ha una sua routine, dal ciclo delle stagioni al ciclo della vita e della morte.

Per quanto riguarda, in maniera concreta, il mio flusso creativo, devo dire che la risposta più attendibile è un gran “dipende”. Dipende da cosa sto scrivendo. La poesia, per esempio, è un momento fugace, che mi attraversa, come un pensiero, un intuito che subito prende forma. Ma il romanzo è una bestia diversa, ben più voluminosa, e per essere domata, richiede disciplina. “Bisogna scrivere tutti i giorni”, “Bisogna fare la struttura” “bisogna scrivere le biografie dei personaggi.” Se andate in giro a cercare consigli su internet, scoprirete prima di tutto che avete un tumore, e poi che scrivere è un mistero che nessuno ha risolto. Semplicemente perché l’arte non è un’equazione. Non è un gioco con un vincitore. É condivisione. L’arte è la storia di due anime che si incrociano, il tempo di un’emozione.

“Si Flavio, grazie, ma la tua routine?”

Allora… Quando sono in fase “scrittura creativa”, mi sveglio, faccio una partita a scacchi online per svegliare la mente, mi faccio la mia mega tazza di caffè e scrivo (a mano) senza fermarmi per un'ora e mezza, con le mie cuffie isolanti e la musica adatta al tema che devo affrontare.

Scrivo ogni giorno, 1000 parole al giorno, un’ora e mezza di creatività giornaliera è tantissimo, di più non riesco. Ma prima organizzo una struttura, anche fragile, ma che abbia la forza di mantenere alto l’interesse nello scoprire il mio mondo interiore.

E poi, nel tempo libero, organizzo le idee, collego i neuroni tra di loro ascoltando il silenzio, lascio che l’inconscio cuocia a fuoco lento le mie intuizioni.

E poi, c’è “La tecnica della pizza.” Ve la spiego in breve. Per come la vedo io, una storia è come la pasta madre della pizza. Parte da un aneddoto, da una frase, e poi, piano piano, lievita, fino a diventare, se uno è un bravo pizzaiolo, il cuore di un ristorante, di un intero mondo le ruota attorno. Quindi io cucino quella piccola frase iniziale in qualcosa che mi stupisce, in un viaggio verso delle risposte, o forse, altre domande che io non conoscevo. Quello che conta, almeno per accendere i motori, è una frase che vi colpisca, che vi intrighi, e che vi porterà chissà dove.

Nel caso del mio romanzo, la frase che mi ha provocato un sussulto è stata una frase terribile, così attuale da farmi tremare i polsi. Il viaggio che ho intrapreso per trovare le risposte, invece, mi ha portato ben al di là di ogni aspettativa…

Ma questa è un'altra storia.

Grazie per avermi letto, e condividete cliccando sulle icone li sotto. Mi aiuterete a far crescere questa nostra comunità di menti affini.

Il processo creativo

Ciao a tutti,

in questo articolo, vorrei condividere con voi il processo creativo che ha portato alla genesi del mio romanzo. È stato un viaggio affascinante, pieno di ispirazioni, difficoltà e momenti di gratificazione.

Tutto è iniziato il 1° gennaio del 2022, in una fredda giornata d’inverno. Camminavo per Villa Borghese e la mia mente ha immaginato una città bianca sulle sponde del mare Baltico, e questo è stato il punto di partenza per la mia avventura creativa. Sapevo che volevo scrivere una storia interessante, ma non avevo ancora una chiara idea di dove sarei andato a parare.

Per trovare l'ispirazione, ho iniziato a volare con la fantasia e a esplorare diverse idee. Una di queste era quella di scrivere la storia di un uomo che perdeva man mano i suoi sensi, ma non mi sembrava abbastanza coinvolgente per le mie aspirazioni. Ho deciso di concentrarmi sui temi che mi interessavano di più, in particolare la morte e l'aldilà.

Ho iniziato a studiare come ogni religione affrontava la morte, e questo mi ha portato a esplorare il mondo fantastico nel quale avrei ambientato la mia storia. Non avevo ancora la trama, i personaggi o la morale, ma ero molto curioso di esplorare l'immaginario collettivo e di apprendere nuove cose.

Leggendo saggi sul tema, ho letto l’approccio che le religioni hanno con l’aldilà e con l’anima, ho anche sorvolato il transumanesimo, un movimento che si concentra sul superamento delle limitazioni umane attraverso la tecnologia. Ho letto un saggio di 900 pagine chiamato "The Transhumanism Handbook", che, sebbene tecnico, mi ha aiutato a definire meglio una parte il mio mondo fantastico, soprattutto riguardo all’approccio moderno di temi antichi come la morte e la perfezione.

Il processo creativo è stato pieno di alti e bassi. All'inizio, ero entusiasta di avere così tanta libertà, ma mi sentivo anche smarrito senza una direzione chiara. Ho superato queste difficoltà leggendo ancora di più, esplorando nuovi argomenti e recintando piano piano il mondo fantastico.

Infine, i momenti più belli sono stati quando la storia si è fatta chiara nella mia mente, e ho iniziato a scrivere i primi rantoli su fogli bianchi. Niente di chiaro, ma era l’inizio. Sono stati momenti di grande gratificazione, sapendo che stavo creando qualcosa di unico e personale.

In sintesi, il mio processo creativo è un viaggio di scoperta, esploro nuove idee e approfondisco i miei interessi. Spero che questo articolo possa ispirare altri autori a perseguire le proprie idee e creare qualcosa di unico e personale.

E voi, quale è stato il vostro processo creativo nella scrittura di una storia o di un progetto artistico? Quali sono stati gli ostacoli che avete incontrato e come li avete superati? Condividete la vostra esperienza nei commenti, non temete a rispondere agli altri, questo luogo serve proprio a questo.

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