Siamo esseri multidimensionali

Il mondo, la realtà, sono dei misteri che mai si sveleranno. Come il velo di Maya: dietro al velo non vi è la verità, bensì un altro velo da svelare.
La realtà, questa realtà, è determinata dai nostri sensi.

Ma i sensi, ci limitano.

Per fortuna c’è l’immaginazione.
La creatività è la nostra chiave di trascendenza. Con lei che ci guida, possiamo volare lì dove i sensi non ci portano: nel mondo dell’intuizione, degli archetipi, dei sentimenti, delle emozioni.

Luoghi che non hanno colori, né temperature, non hanno spazio e nemmeno tempo.
Luoghi non-luoghi, in cui la parola che determina i confini è: libertà.

Questo spesso ci spinge a immaginare che la realtà attorno a noi sia solo uno strato di un grande mosaico cangiante.
Nell’Anello di Saturno, Luca parte alla ricerca di un anello magico, e questo lo porterà a scoprire la multidimensionalità della realtà, la riscrittura del destino.

Anche ne Il Labirinto della Speranza affronto questo tema, in maniera — vedrete — molto più ambigua.
Rimango sul confine liminale tra percezione e realtà.
Tra proiezione ed empirico.
Lì dove «Ciò in cui credo definisce ciò che è».

Quindi lavoro sulla multidimensionalità del reale. A volte fantastico, a volte immaginato.
Ma poi, a pensarci bene, che differenza c’è?
Una fantasia è forse meno reale di una paura? Un sogno meno reale della realtà?
E come mi piace dire: un fantasma è forse meno reale di un senso di colpa?

Siamo esseri multidimensionali perché, vivendo nel regno della percezione, creiamo — ognuno di noi — la nostra dimensione, in cui le regole condivise sono tante, ma ci sono anche regole subliminali, nascoste, non dette, che ci guidano.

Quanti non camminano sotto una scala?
Quanti salutano le pecore sul lato della strada?
Quanti ascoltano il proprio oroscopo o chiedono consiglio a veggenti?

Siamo esseri multidimensionali e non sappiamo di esserlo.

Pensate alla dimensione — ora tanto di moda — del digitale.
Abbiamo un’identità che appartiene esclusivamente a quella dimensione. Amici che frequentiamo solo in quella dimensione.
Informazioni, arte, curiosità.

Il digitale è una dimensione del reale. Isolante nei confronti della realtà «vera», ma poi, in quella realtà, tessiamo legami, ci emozioniamo, cresciamo.
Quindi, come si fa a dire che è meno vera della realtà?

È diversa.
Siamo esseri multidimensionali anche in questo.

Non sono il primo a dirlo, e non sarò l’ultimo.
E chissà che un giorno la scienza non lo dimostri in maniera empirica: che questa realtà è condivisa con altre infinite realtà, in cui ogni cosa è diversa.

A quel punto, in quell’oceano di possibilità, la mia domanda principale rimane.
La stessa domanda che mi pongo ne La Divina Avventura, ne L’Anello di Saturno, e anche ne Il Labirinto della Speranza.

In questo mosaico infinito, ricorsivo, frattale…
L’anima è forse la costante?

Continuerò a cercare una risposta.

Nel frattempo,

Il Cocktail perfetto

Ieri ho parlato con una scrittrice specializzata nella narrativa erotica (grazie Raffaella!). Le ho gentilmente chiesto di darmi un ritorno riguardo a una scena «spicy» del secondo volume de Il Labirinto della Speranza.

Non essendo io un lettore della narrativa erotica moderna, non sapevo dove mi collocassi, su una scala da 1 a 10.

Sono cresciuto con Manara, e chi mi conosce sa che l’eleganza verbale è un segno distintivo della mia poetica.

Senza troppo stupore, mi sono reso conto che il calore della scena si collocava intorno a un 5-6.

Con il generoso consiglio di «osare di più».

Ma in realtà — e qui scatta la tipicità del mio profilo di scrittore — a me 5-6 va benissimo!

Lo sapete: "il labirinto della speranza" è un thriller psicologico, un dark romance, ha un sapore paranormale, ma è narrativa moderna, con filosofia, citazioni colte e personaggi che mutano e si trasformano profondamente.

E ci sono scene spinte ("poco esplicite", e mi va alla grande 🙌).

Insomma, le mie saghe, proprio come L’Anello di Saturno, sono dei cocktail di generi.

Sono dei mojito, dei daiquiri alla fragola, delle pina colada, dei gin tonic.

Non sono un purista, non verso il whisky senza ghiaccio o il rum barricato 36 mesi in un bicchiere di cristallo direttamente da una botte di Cuba.

No.

Io faccio libri per tutti, che possano piacere a una varietà di persone, ognuna con la propria chiave di lettura.

È la mia forza, e anche la mia debolezza.

Questa mia scelta — derivata sia dal mio profilo personale artistico-psicologico, sia dal mio voler fare impresa — non è senza rischi.

Il primo rischio, quello preponderante che mi aspetta al varco, è di non piacere a nessuno.

Mi spiego.

Il lettore che cerca il thriller vuole subito la scena del cadavere che viene tirato via di notte nella foresta da un uomo affannato.
Chi vuole l’erotico, pretende descrizioni più spinte.
Chi cerca la psicologia approfondita magari disdegna la storia d’amore, et cetera…

Un cocktail rischia di scontentare tutti.

Ma chi mi sceglie, lo fa perché cerca qualcosa che non trova altrove: un cocktail fatto ad arte, con sapienza, equilibrio e sensibilità, può essere qualcosa di veramente esplosivo.

E ambizioso.

Poiché è proprio fondendo i generi tra loro, unendoli in un unico grande e nuovo sapore, che si può produrre un nuovo sapore: indistinto, morbido, unico, intenso e variegato, che lascia il desiderio di volerne ancora.

"L’Anello di Saturno" ne è un primo esempio embrionale, di questa mia ricerca.

Ho fuso il romance e il fantasy, con un tocco di filosofia, archeologia, avventura e thriller.

Io penso che il futuro della narrativa sia proprio lì, in questa strada di commistioni.

Non a caso esistono già parole che fanno la crasi dei generi (il romantasy).

E perché non crearne di nuove, e andare alla ricerca di nuovi sapori?

Eccomi, sono pronto.

Mettetevi al bancone, che vi servo un nuovo cocktail.

Se non mi avete già provato, ci sono sia La Divina Avventura (fantasy, fantascienza, spirituale, avventura) sia L’Anello di Saturno (romance, fantasy, avventura, archeologia) ad aspettarvi, nell’attesa di finire nel mio labirinto.

La scrittura erotica

Nella prossima saga, affronterò molti lati oscuri della nostra realtà.
Come mi piace pensare, se L’Anello di Saturno è il sole, Il Labirinto della Speranza sarà la luna.
Esoterismo, thriller psicologico, manipolazione, sette e anche erotismo.
Una faccenda a dir poco delicata!

Non ho paura di affrontare questo lato della scrittura e della narrazione, anzi.
Mi piace, mi diverte e, soprattutto, mi libera.

Voglio che questa prossima saga sia un’effige della libertà di espressione al servizio della storia.
Ieri guardavo una bella intervista a Tarantino, in cui spiegava che il problema delle storie moderne del cinema di Hollywood è che sono prevedibili.

In realtà, gli devo proprio dare ragione: una buona storia si svela man mano che vai avanti, imprevedibile, come un labirinto.

Questa saga, nella quale ormai sono dentro con piedi e gambe, è prima di tutto un grande viaggio, proprio come L’Anello di Saturno.

Un viaggio dentro la psiche di Erik, il protagonista, ma anche nella mia.

Mi rendo conto che la scrittura, al servizio della storia, a volte rispecchia stati d’animo che sto vivendo inconsciamente: il desiderio di controllo, di decidere la cadenza dell’esistenza.

Problemi che, guarda caso, affronta anche Erik.
Insomma, questa avventura si sta rivelando molto più profonda del previsto.

E pian piano, scendendo nei meandri del mio inconscio, affronto i luoghi tetri, oscuri e affascinanti che circondano la notte.

L’erotismo, appunto, è uno di essi.

Non voglio censurarmi, né essere volgare. Chi mi conosce lo sa: non scrivo a caso e di certo non sono volgare. Anzi, trovo che l’erotismo sia l’apice dell’eleganza.

È un contraltare alla pornografia, in cui tutto viene esposto.

L’erotismo, al contrario, è un’allusione, un lago di ambiguità nel quale far sognare il lettore.

Un’altra cosa molto importante: non deve essere gratuito. L’erotismo gratuito è volgare, povero. L’erotismo usato come una lama sottile, che delinea i confini dei rapporti tra i sessi, delle manipolazioni e dei non detti, è colmo di fascino e psicologia.

L’ambiguità. Torna sempre questa parola, e tornerà ancora per molto, in questo mio viaggio.

Un giorno mi hanno chiesto cosa mi sono portato dietro da Tancredi. Credo che l’ambiguità narrativa sia una di queste. Ho sempre lottato per darle un lato umano forte, un’empatia che la rendesse diversa dal solito cattivo. Un uomo con delle ferite, un cuore, ma capace di cose terribili. Questo lo ha reso ambiguo.

Sono rimasto affascinato dal contrasto che porta con sé. Così tanto da aver deciso di scrivere una storia che, come vorrebbe Tarantino, si svelerà nella sua ambiguità, tra corpi, seduzioni, illusioni e paure profonde.

A voi fa paura l’erotismo?

E l’esoterismo?

Spero di non “shockare” troppo coloro che mi leggeranno. Anzi, no. Spero proprio di farlo.

La gabbia del genere

Il genere, questo mostro a sette teste.

Ogni autore deve affrontarlo. Bisogna nascere già categorizzati. Bisogna produrre con in mente un genere.

Roba tosta.

Soprattutto per chi ama viaggiare con la fantasia, per chi ama l’ignoto. Per chi non sa, all’inizio del cammino, come sarà il luogo di destinazione.

Si dice che il genere riguardi gli editori, il marketing.

Eppure, come sapete, io porto due cappelli: quello dello scrittore e quello di chi promuove l’opera. Ho quindi l’assurdo ruolo di far combaciare due elementi che dovrebbero essere scissi: la creazione e la vendita.

Così capita, a volte, di chiedermi:

"Ma questa mia creazione, che genere è?”

E capita di chiedermelo durante il processo creativo, come se, man mano che scrivo, cercassi una forma commerciale. Un intreccio di creatività e strategia. Un po’ quello che sono io.

Il Labirinto della Speranza: il dilemma del genere

Ho concluso la prima stesura del primo volume de Il Labirinto della Speranza. La seconda avverrà solo alla fine della saga, quando avrò completato tutti i volumi.

Ho ricevuto i primi commenti dei Beta Reader.

Uno su tutti mi ha messo in difficoltà: il genere.

Come sapete, io scrivo saghe evolutive, che mutano da volume a volume, non solo nella storia, ma addirittura nei generi.

Ne L’Anello di Saturno, si passa da un amore giovane a un amore drammatico, poi al thriller, fino al fantasy.

Anche Il Labirinto della Speranza segue questo principio. Dentro ci sono tanti generi:

• thriller psicologico,

• noir,

• dark romance,

• mystery.

Tutti i “lati oscuri” dell’animo umano.

Se L’Anello di Saturno era il sole, Il Labirinto sarà la luna.

Una delle critiche ricevute riguarda il primo volume: non è abbastanza “thriller”.

Gli amanti del thriller cercano pericolo, azione, urgenza.

Io, invece, in questo primo volume, gioco con un’angoscia sottile, con ferite profonde, ambiguità morali, risvolti psicologici e drammatici.

Dovrei quindi definirlo Dark Romance invece che Thriller Psicologico?

Oppure un Dramma Mystery?

Ma poi c’è anche l’ambiguità del paranormale… quindi?

“Un thriller psicologico mystery/noir drammatico, con uno slow burn dark romance.”

Si fa prima a leggere il libro che il genere

Come avrete capito, incasellare un’opera in un singolo genere non mi piace.

Esiste un solo genere autentico: Narrativa Contemporanea.

Il resto sono etichette per algoritmi e editori, strumenti per facilitare la ricerca del prossimo titolo, basati sull’assunto:

“Visto che ti piace il thriller, ecco altri 1000 thriller per te.”

Ma se fosse l’autore a piacerti?

Se vedessimo lo scrittore non come un mero esecutore di genere, ma come un esploratore dell’umanità?

Le storie contengono romanticismo, pericolo, poesia, crudezza.

Tutti noi abbiamo vissuto i generi, nella vita.

Dipende dal momento.

Il genere non è altro che il sapore di un momento.

È la fotografia della biodiversità delle energie che ci circondano.

Il mio compito? Esplorare l’anima, incarnarla e restituirvela, in una storia coinvolgente, entusiasmante, incalzante.

Il genere, lo lascio a voi.

Mai Abbastanza

Sono entrato alla Scuola del Teatro Stabile di Genova nel 2001.

Ho avuto la fortuna, nel saggio di fine triennio, di interpretare un personaggio storico realmente esistito: Évariste Galois, uno dei fondatori della matematica moderna, genio ribelle che partecipò ai movimenti rivoluzionari, alle barricate, agli amori e alle tragedie.

Se ne è andato troppo presto, eppure, nella sua breve vita, ha lasciato un segno indelebile nella conoscenza umana.

L’autore, Luca Viganò, aveva dato al personaggio una sfumatura tragica, quella del genio ribelle e incompreso, che contribuì al successo dello spettacolo.

Interpretare un personaggio lascia sempre qualcosa all’attore che lo incarna. Da una parte, regaliamo il nostro corpo alla poesia; dall’altra, arricchiamo la nostra anima di quella poesia, ce la portiamo dietro, oltre lo spettacolo, nella vita.

Di quel personaggio mi sono portato dietro l’urgenza.

La sensazione che la vita sia breve e che le cose da fare siano tante. Troppe.

Mi conoscete, non mi fermo mai. Finisco una cosa e sto già facendo la prossima.

In questo momento, per esempio, mentre faccio l’editing dell’ultimo volume de L’Anello di Saturno – eh già… ci siamo, sta per finire – sto già ragionando sul secondo volume della prossima saga.

La prima stesura del primo volume è già andata ai beta reader, un test per capire se la narrazione, i personaggi, i luoghie gli avvenimenti siano “a livello” per affrontare una saga in cinque volumi.

So già che riscriverò questi volumi, perché scrivendo la storia i personaggi diventeranno sempre più chiari, e questo mi costringerà a riscrivere battute, commenti e pensieri di ognuno di loro.

Tra l’altro, tra pochi mesi riprenderò Il Paradiso delle Signore, e il tempo a disposizione per scrivere si restringerà.

Devo quindi avere una mappa chiara e completa di come procedere nella scrittura durante le riprese. Devo occuparmi delle pagine, e meno della storia.

Non mi fermo mai, da quando ho cominciato a recitare, non mi fermo mai.

Perché? Non lo so.

Forse per paura della morte.

Per quella battuta, che Galois ripeteva così spesso:

“Non ho tempo.”

Ammetto che ancora ora, più di vent’anni dopo, sento di non avere tempo.

Vivo come se non mi rimanesse molto, nella speranza di incidere con la mia anima il tempo.

Una visione, tutto sommato, tragica della mia realtà, che allo stesso tempo mi spinge a realizzare, a fare, anche a scapito, ahimè, di salute e società.

Questo pensiero di voler “fare”, “realizzare” mi ossessiona a tal punto che preferisco scrivere piuttosto che uscire con gli amici.

L’arte è una passione, ma anche un’ossessione, che mi spinge, mi muove e, a volte, mi consuma.

Ormai sono grande, non so quanto riuscirò a mitigare questo mio motore.

Se ripenso al passato, a quando ho realizzato Sogno Farfalle Quantiche (© e prima o poi lo rimetterò nel sito), mi dico che il Flavio che ha ritoccato a mano 160.000 fotogrammi ora è un po’ più sano, solido, stabile.

Ma il fuoco è sempre lì, e se non lo curo, se non lo alimento, in me cresce la paura di scomparire senza aver lasciato un segno.

Chissà se un giorno supererò questo mio desiderio e mi assopirò sotto un salice, a godere del presente, del rumore del mare e degli uccellini.

Chissà.

Giù le mani dal passato

Ho riletto il quinto volume de L’Anello di Saturno. La sua conclusione.

È un volume che ho scritto tempo addietro e, come sapete, ora sto lavorando su Il Labirinto della Speranza. Una saga del tutto diversa, con tempi, ritmi, personaggi e temi diametralmente opposti a quelli così morbidi de L’Anello.

Mi ritrovo quindi davanti a una vecchia fotografia di me. Non aggiornata al presente, mi rimanda a un me distante, diverso. Uno scrittore che cercava di espandere la sua prosa, di rallentare il ritmo del racconto, di indugiare nella descrizione, nella narrazione dell’umanità dei personaggi.

La tentazione di rimettere le mani sul testo per aggiornarlo al mio nuovo stile è forte, e devo resistere. Non tanto perché non sarebbe un miglioramento, quanto perché mi voglio imporre di rimanere fedele al me che ha voluto raccontare l’amore.

Rileggere il volume mi ha messo in una piccola crisi. Sono passati alcuni mesi, più di cinque, da quando l’avevo finito di scrivere, e il ricordo che avevo era diverso. Più forte, più intenso. Invece, ho trovato morbidezza, tranquillità.

In un certo senso, ne sono felice. È una piccola dimostrazione che la natura della saga de L’Anello di Saturno è autentica, genuina. Come può essere la risoluzione dell’amore vero, se non nella morbidezza tragica della nostra vita?

Come scoprirete, il quinto volume ha una sua natura particolare, intensa, autonoma quasi.

“Vive di vita propria”, si potrebbe dire.

Che bello rileggersi a distanza di tempo. Non tanto per osservare la prosa o la trama, ma per ricordare quel me che si struggeva nella scrittura delle parole. Per rivivere, in un certo senso, il Flavio d’un tempo.

La scrittura è un viaggio profondo, che non finisce con la fine del libro. Perché ogni libro è un eco di un frammento di me.

Un tuffo nel passato.

L’arte è uno specchio, davanti al quale l’artista ha l’opportunità non solo di esplorare il mondo attorno a sé o il proprio mondo interiore, ma ha la fortuna di vederne una manifestazione tangibile, reale.

Una proiezione in carne, che gli ricorda chi è, da dove viene, cosa ha fatto per arrivare al presente.

Può essere una prigione come un’opportunità.

Un mio maestro mi diceva spesso che “non bisogna affezionarsi alle proprie idee”. E questo vale anche per le parti di noi.

E rileggendomi, provo grande tenerezza per il me che ero, che sono e che, spero, sarò.

La mia nuova saga

Sto completando la primissima stesura del primo volume della saga "Il Labirinto Della Speranza".

Parliamo di un testo non coeso, pieno di errori e strafalcioni. Ma è giusto che sia così. Prima si rigurgita un prodotto informe che poi, con arte, sapienza e pazienza, verrà cucito di bellezza e diamanti.

Sono al piano terra del mio palazzo.

Le fondamenta le ho elaborate per sei mesi: ho scritto, riscritto e riscritto mille volte la “storia”, quello che poi sapevo di dover affrontare nella scrittura della pagina.

Ogni saga, ogni libro, è prima di tutto una storia.

Una storia “grande” che può essere raccontata fuori dalle pagine del libro.

La mappa, se vogliamo. Le pagine sono il territorio nel quale lo scrittore scopre e disegna i dettagli di un mondo immaginato.

Ora sono in questa fase.

Ed è una fase incredibile, emozionante e difficile.

Incredibile, perché aperta allo stupore. Apro una porta ma non so cosa c’è dietro.

E sono io a dovermelo immaginare. È un confronto diretto con l’ignoto, una sorta di rincorsa verso qualcosa che non esiste ma che, nel momento in cui lo rincorriamo, si scrive, si crea.

Emozionante, perché mi ritrovo a rivivere pezzi della mia vita, traslati nelle vesti del protagonista, o dell’amico, o di un personaggio secondario.

Mi specchio, piango, rido, vivo la scrittura come fosse un pezzo di vita surreale, immaginato ma tangibile.

Difficile, perché la coesistenza di creatività e struttura dà adito a un dilemma che sa quasi di follia.

Vi spiego.

Ho una storia, che ha un inizio, un centro e una fine, come direbbe il buon vecchio Aristotele.

E fin qui, tutto bene. Facile. Sono in controllo. Certo, magari cambio una cosa piuttosto che un’altra, rimodello, invento.

Le idee a questo “livello” costano poco: sono cinque parole in più o in meno.

“Prende l’aereo e scappa” oppure “La bacia, rimane e si sposano”. Poche parole, un’infinita differenza.

Ma poi, arriva il momento in cui la storia è pronta ad essere distrutta dai personaggi.

Ah, i personaggi.

All’inizio sono qualcosa di ideale, che esiste appunto in quelle poche parole che definiscono la storia.

Per me, i personaggi sono definiti dalle azioni che prendono nella mia storia.

Ma poi, quando li scrivo, ecco che succede una specie di guerra tra il mio volere (la storia) e il loro volere!

Come anguille sgusciano, fuggono dalle mie redini, almeno ci provano.

E io, per non rompere il mio legame con loro, li assecondo.

Ma a volte tirano forte, fortissimo, verso un luogo in cui non possono andare!

E lì inizia un processo difficile, di compromesso tra il loro volere e il mio.

Ecco, sono lì, nella scrittura.

La saga prende forma.

Sarà molto diversa da L’Anello di Saturno.

Più oscura, più occulta, più veloce. Un labirinto nel quale spero di farvi entrare, divertire e, chissà, uscire diversi.

La mia voce narrante

Il narratore, "la voce", come dicono. Colui che racconta la storia.

Si dice che una storia non sia soltanto la storia dei protagonisti, ma anche la relazione tra colui che narra e colui che legge.

Da qualche giorno mi sto impegnando a definire meglio il tipo di narratore che voglio avere nella prossima saga. Chi ha letto La Divina Avventura e L’Anello di Saturno già conosce il mio amore per le prospettive originali.

Nella Divina Avventura, la storia viene narrata in una prospettiva di narratore limitato in terza persona al passato remoto, da Kato, l'antagonista.

Nell’Anello di Saturno, ancora in corso, ho invece optato per un narratore onnisciente in terza persona al passato remoto, nemmeno tanto limitato a Luca, visto che di tanto in tanto il Destino bazzica anche nelle anime di AnnaRonnieGeppoFloyd e il resto della combriccola.

Penso che ogni storia debba avere il narratore giusto. Un po’ come le lenti in fotografia. Se si fa un primo piano, bisogna usare un teleobiettivo, in modo che la prospettiva della figura non sia troppo distorta; se invece si inquadrano luoghi architettonici, meglio usare lenti larghe, addirittura grandangolari. Poi si possono anche fare esperimenti (come inquadrare un volto con un grandangolare, creando una specie di mostro), ma per una saga in cinque volumi, la scelta deve essere ponderata ed equilibrata.

Questa volta non voglio usare un personaggio per narrare la storia; voglio fondermi del tutto con il racconto, senza creare un filtro esterno. Questo mi toglierà la possibilità di filosofeggiare, ma creerà sicuramente più immediatezza. E considerando che sarà un thriller psicologico paranormale, voglio stare il più vicino possibile ai miei personaggi.

L’opzione classica sarebbe usare un narratore onnisciente in terza persona con il passato remoto:

Erik si fermò davanti alla porta. Il silenzio lo avvolse, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo. La porta portava ancora i segni di una vita che non c’era più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo. Tentò di respirare, ma l’aria gli sembrò improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna gettava riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”. Erik serrò i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fece un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posò sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormorò, mentre il respiro gli si spezzava in gola.

Questa opzione è un evergreen, che però ha il “difetto”, se vogliamo, di perdere di immediatezza, poiché la storia è “già avvenuta”.

L’altra opzione, molto in voga in questo periodo, è il narratore limitato in prima persona al presente:

Mi fermo davanti alla porta. Il silenzio mi avvolge, denso, opprimente, come una coperta troppo pesante. La porta ha ancora quel segno, quel ricordo di un tempo che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Provo a respirare, ma l’aria sembra non arrivarmi ai polmoni.
Dalla finestra, la luce fioca della luna riflette bagliori argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Stringo i pugni. Le unghie mi scavano nei palmi, ma non mollo la presa.
Faccio un passo avanti. Solo uno, e già sento il sangue gelarmi quando la mia mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», sussurro, con il respiro spezzato e la gola che brucia.

Interessante, ma ha un problema piuttosto enorme. Sono limitato ogni volta dal narratore. Non posso raccontare quello che passa nella testa di terzi se non cambiando del tutto prospettiva. Diventa molto, troppo limitante per i miei gusti.

Così, sono andato a cercare tra i miei romanzi in libreria se avessi qualcosa di ibrido. Niente… Mi metto quindi alla ricerca di una forma alternativa che mi possa dare la sensazione di immediatezza del presente, con la flessibilità della terza persona.

Ecco a voi il narratore limitato in terza persona al presente:

Erik si ferma davanti alla porta.
Il silenzio lo avvolge, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo.
La porta porta ancora i segni di una vita che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Tenta di respirare, ma l’aria gli sembra improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna getta riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Erik serra i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fa un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormora, mentre il respiro gli si spezza in gola.

Scrivete nei commenti quale stile vi piace di più.

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Flavio

Chi siamo, artisti?

Oggi mi domando chi io sia. Per quale motivo sposto mari e monti per scrivere storie, al punto da rischiare tutto per farlo. Cosa mi spinge a consumare tempo e risorse in questa impresa? Diventare uno scrittore, riuscire a far adattare le mie storie sullo schermo: tutto questo è per vanità? Oppure è un atto di generosità, un desiderio di condividere? O forse puro egoismo, quello di voler viaggiare nell’immaginazione alla ricerca di quelle famose perle, pensando che questo tragitto valga il tempo e il denaro altrui.

È un lavoro difficile, quello del contastorie. Come tutti i lavori belli, ti illude che basti il processo creativo a dare vita alla storia. Ovviamente, non è così. Scrivere storie somiglia un po’ a suonare la chitarra: sembra facile, e tutti sono capaci di strimpellarla. Ma diventare un virtuoso della storia, della trama, è un’arte difficile da inquadrare.

A volte mi chiedo se io lo sia davvero o se semplicemente stia facendo di tutto per convincere gli altri (e me stesso) di esserlo. Fatico a trovare un motivo, una ragione per tutto questo. Penso e spero di non essere l’unico a vivere questo dilemma. Anzi, credo che questa paura si estenda ben al di là dei confini dei contastorie.

Questo “mal comune mezzo gaudio” lenisce solo in parte quella sensazione di fragilità che permea il mio fare. Spesso mi dico che “devo andare avanti e non pensare”, e a volte funziona. A volte mi ritrovo in un luogo buio solo perché ho scelto di chiudere gli occhi. E, in questi casi, la mia forza di volontà ha la meglio.

La forza di volontà… Ora che ho scritto più di una storia, mi sembra di vederla come un filo rosso della mia poetica. Ho un rispetto incredibile per essa, e penso che ciò derivi dal mio assoluto desiderio di indipendenza. Questo è il tema dell’Anello di Saturno: quanto siamo noi a scegliere il nostro destino e quanto, invece, sono le forze fuori dal nostro controllo?

L’artista è colui che fa della propria ricerca interiore bellezza. Scavare tra i demoni per forgiare diamanti. Per farlo, c’è chi canta, chi suona, chi scrive o costruisce. Tutti legati da questo impellente desiderio di ricerca interiore ed esplorazione del mondo attorno. Oggi ho fatto ricerche sulla Val di Non, che sarà il luogo in cui la mia prossima saga si svolgerà. Prima di andarci fisicamente, spinto da quel desiderio di scoperta che mi porta a testare e tentare cose nuove, ho fatto un giro con le mappe di Apple. Mi sono messo lì, sono entrato in quello che si chiama “streetview” e mi sono fatto “un giro virtuale” dei vari paesi che la popolano. Ho cercato di percepire le distanze, i paesaggi.

E mi dico che è davvero un periodo incredibile per coloro che vogliono raccontare storie. Vi è una conoscenza a disposizione che era impensabile anche solo dieci anni fa. Abbiamo mappe su mappe.

E mentre lo facevo, qualcosa in me mi ricordava che “la mappa non è il territorio” e che, per quanto ci si sforzi di conoscere qualcosa attraverso l’analisi e lo studio, è nel processo vivo e reale che avviene il mutamento, la sensazione, l’odore. È quando tutti i sensi vengono calibrati sull’esperienza che l’autore può davvero esprimere qualcosa di umano, colmo di un calore personale e unico, e non lo specchio di tutto ciò che altri hanno vissuto prima di lui.

La conoscenza indica la via, ma è l’esperienza a portarci a destinazione.

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