La tragedia a lieto fine

L’autore deve confrontarsi con il genere. Ma perché?

Perché il genere classifica la storia, la impacchetta in modo che si possa spiegare più in fretta.

• “È un libro per bambini” (Il piccolo principe).

• “È un romance ottocentesco” (Jane Eyre).

• “È un documentario marino d’avventura” (Moby Dick).

Che piccolezza!

Ma le riduzioni sono effettivamente molto utili, perché grazie alle categorie possiamo scegliere il nostro gusto preferito, come i gelati dal gelataio. Una carta del menù.

All’epoca dei Greci, avevamo la tragedia e la commedia. Ora abbiamo il gusto puffo.

Sta di fatto che mi sono chiesto a quale genere io appartenga, come scrittore.

Chi mi conosce può capire la mia avversione all’etichettatura. La odio.

Io non voglio appartenere. Non fa per me. Figuriamoci l’auto-etichettatura. Il peggio del peggio.

Vi svelo questo piccolo segreto:

da piccolo, quando ero in Francia, dicevo di essere italiano, e viceversa in Italia, dicevo di essere francese.

Sono bastian contrario nel cuore. Un tifoso del no.

Ma visto che porto il cappello da venditore e faccio pubblicità ai miei libri, confrontandomi anche con il lato mercantile dell’arte, ho deciso di scavare, anche in maniera creativa, tra le varie specie di genere, per capire in quali mi vorrei riconoscere.

Niente nicchie.

Mi piace viaggiare. Variare nell’offerta.

Non scrivo commedie. Nemmeno tragedie, almeno, non del tutto.

Amo pensare che la mia storia abbia curato i miei personaggi, e anche i miei lettori.

Il percorso narrativo deve essere un cammino sui carboni ardenti. Un rito di passaggio.

Vorrei che ci fosse un prima e un dopo.

(Soprattutto per i miei personaggi, quindi anche per me che me li vivo, ma se fortuna vuole che riesca a farlo fare anche a chi mi legge, sarebbe bellissimo).

E vorrei che, finita l’ultima pagina del libro, il lettore stesse davvero meglio.

Meglio con sé stesso, con il mondo, con il passato, il futuro.

Meglio con le sue paure.

Della tragedia, mi piace l’intensità, la potenza, l’ineluttabilità.

Mi piace l’altezza a cui parla, l’ampiezza della sua voce, la profondità dei suoi personaggi.

Ma della commedia, mi piace il lieto fine.

Da lettore/spettatore, voglio finire più felice di quando ho cominciato.

Ma questo non vuol dire ridere, anzi.

Voglio patire le pene dei personaggi, comprenderli. Voglio vederli splendere, crollare e risalire, come fenici.

Voglio tragedie a lieto fine.

Peccato che su Amazon la categoria non ci sia. 😂

Alla prossima pagina.

La mia voce narrante

Il narratore, "la voce", come dicono. Colui che racconta la storia.

Si dice che una storia non sia soltanto la storia dei protagonisti, ma anche la relazione tra colui che narra e colui che legge.

Da qualche giorno mi sto impegnando a definire meglio il tipo di narratore che voglio avere nella prossima saga. Chi ha letto La Divina Avventura e L’Anello di Saturno già conosce il mio amore per le prospettive originali.

Nella Divina Avventura, la storia viene narrata in una prospettiva di narratore limitato in terza persona al passato remoto, da Kato, l'antagonista.

Nell’Anello di Saturno, ancora in corso, ho invece optato per un narratore onnisciente in terza persona al passato remoto, nemmeno tanto limitato a Luca, visto che di tanto in tanto il Destino bazzica anche nelle anime di AnnaRonnieGeppoFloyd e il resto della combriccola.

Penso che ogni storia debba avere il narratore giusto. Un po’ come le lenti in fotografia. Se si fa un primo piano, bisogna usare un teleobiettivo, in modo che la prospettiva della figura non sia troppo distorta; se invece si inquadrano luoghi architettonici, meglio usare lenti larghe, addirittura grandangolari. Poi si possono anche fare esperimenti (come inquadrare un volto con un grandangolare, creando una specie di mostro), ma per una saga in cinque volumi, la scelta deve essere ponderata ed equilibrata.

Questa volta non voglio usare un personaggio per narrare la storia; voglio fondermi del tutto con il racconto, senza creare un filtro esterno. Questo mi toglierà la possibilità di filosofeggiare, ma creerà sicuramente più immediatezza. E considerando che sarà un thriller psicologico paranormale, voglio stare il più vicino possibile ai miei personaggi.

L’opzione classica sarebbe usare un narratore onnisciente in terza persona con il passato remoto:

Erik si fermò davanti alla porta. Il silenzio lo avvolse, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo. La porta portava ancora i segni di una vita che non c’era più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo. Tentò di respirare, ma l’aria gli sembrò improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna gettava riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”. Erik serrò i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fece un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posò sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormorò, mentre il respiro gli si spezzava in gola.

Questa opzione è un evergreen, che però ha il “difetto”, se vogliamo, di perdere di immediatezza, poiché la storia è “già avvenuta”.

L’altra opzione, molto in voga in questo periodo, è il narratore limitato in prima persona al presente:

Mi fermo davanti alla porta. Il silenzio mi avvolge, denso, opprimente, come una coperta troppo pesante. La porta ha ancora quel segno, quel ricordo di un tempo che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Provo a respirare, ma l’aria sembra non arrivarmi ai polmoni.
Dalla finestra, la luce fioca della luna riflette bagliori argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Stringo i pugni. Le unghie mi scavano nei palmi, ma non mollo la presa.
Faccio un passo avanti. Solo uno, e già sento il sangue gelarmi quando la mia mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», sussurro, con il respiro spezzato e la gola che brucia.

Interessante, ma ha un problema piuttosto enorme. Sono limitato ogni volta dal narratore. Non posso raccontare quello che passa nella testa di terzi se non cambiando del tutto prospettiva. Diventa molto, troppo limitante per i miei gusti.

Così, sono andato a cercare tra i miei romanzi in libreria se avessi qualcosa di ibrido. Niente… Mi metto quindi alla ricerca di una forma alternativa che mi possa dare la sensazione di immediatezza del presente, con la flessibilità della terza persona.

Ecco a voi il narratore limitato in terza persona al presente:

Erik si ferma davanti alla porta.
Il silenzio lo avvolge, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo.
La porta porta ancora i segni di una vita che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Tenta di respirare, ma l’aria gli sembra improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna getta riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Erik serra i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fa un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormora, mentre il respiro gli si spezza in gola.

Scrivete nei commenti quale stile vi piace di più.

Alla prossima pagina,

Flavio

Il mio discorso al Senato

Oggi ho deciso di condividere con voi il testo del mio discorso al Senato, con delle piccole note per confessarvi anche quali erano i miei stati d'animo e le mie emozioni in quel momento così importante.

Il premio si soffermava sulle "Soft Skills", cioè quelle competenze che non si acquisiscono con lo studio scolastico, ma che rappresentano l'interdisciplinarità della conoscenza acquisita nella vita. Competenze, nel mio caso, che spaziano da campi come la gestione emotiva, alla creatività fino allo storytelling.

Ve lo lascio in forma scritta. Se mi state ascoltando da Spotify, questa è la buona occasione per fare un salto sul sito flavioparenti.com nella sezione blog, potrete anche vedere il video integrale del discorso.

Alla prossima pagina!

(Avevo il cuore a mille e temevo di non essere all'altezza della situazione. Prima di me, molti medici avevano parlato.)

Buonasera. Io, come molti artisti, soffro della sindrome dell'impostore, quindi mi sento molto emozionato, ma anche fortunato a potervi ascoltare tutti, perché venite da tante sfere diverse e portate conoscenze diverse che io non possiedo. Io sono al 100% soft skills: l’artista, per definizione, non ha molte hard skills. Le mie competenze sono il parlare, per la recitazione, e lo scrivere, per la scrittura, che sono skills che tendenzialmente abbiamo tutti, ma che bisogna trasformare in emozione. Questa è la mia soft skill.

(Per un breve periodo nella mia mente mi era balenata l'idea di improvvisare e non appoggiarmi al discorso che avevo scritto, ma poi ho voluto rimanere fedele alla mia scelta iniziale.)

Ora, mi sono preparato un piccolo discorso, perché comunque siamo in Senato e volevo omaggiare questo momento. Prima di tutto, grazie, grazie mille per questo premio, perché sono davvero stupefatto di essere qui. Ricevere questo premio in seno al Senato per me è un onore immenso, quindi innanzitutto vi voglio ringraziare di cuore. Questo riconoscimento non è soltanto un traguardo (sono giovane), ma è un promemoria del viaggio che io ho intrapreso tanti anni fa. È un viaggio che ho cominciato sul palcoscenico a Genova, che poi ho continuato tra le telecamere di Cinecittà, e che adesso si è evoluto in modo che io non avrei mai potuto immaginare.

Io sono un attore, e quindi vivo le storie sulla mia pelle, nel momento presente, ora, "Hic et Nunc". E ogni scena, ogni battuta per me è un'opportunità di connettermi al momento, che è qualcosa di effimero, eppure è così importante. E lo vivete tutti: lo vivete voi avvocati, lo vivete voi medici. Il momento, essere connesso al momento, questa è l'arte della recitazione. Ma è una soft skill. E forse una delle soft skills più importanti, perché è quella che ti permette di connetterti con l'essere umano che hai davanti.

(Ho riportato il discorso come l'ho detto, ma dovete sapere che vi erano parti improvvisate e parti scritte. Proprio per via di quel pensiero iniziale, ho scelto di lasciarmi alcuni spazi in cui, chissà, avrei potuto rafforzare o dire qualcosa di diverso. Dove ho improvvisato, chiedete? Questo rimarrà un segreto...😂)

Quindi, racconto storie, vivo le storie, ma non mi fermo semplicemente alla recitazione. Io ho avuto la fortuna di fare teatro, di fare film, come abbiamo detto, di fare serie, videogiochi, e ogni volta ho capito quanto sono importanti le storie, perché sono il ponte che ci connette e che ci ricorda che non siamo soli. Una storia ci ricorda che non siamo soli, che qualcun altro sta vivendo le stesse cose che stiamo vivendo adesso. E questa è l'importanza delle storie. Una storia è un racconto che conduce sia colui che la dice che colui che l'ascolta in un'esperienza che lo trasforma.

Ho trovato poi nei romanzi la forma più adatta per me, per dare vita alla mia creatività. La scrittura, nella sua forma più pura, mi permette di esplorare le sfumature della realtà e soprattutto di me stesso, perché fare arte significa anche guardare se stessi, produrre qualcosa che è fuori da sé e poi, come uno specchio, sentirne l'eco e crescere attraverso questa ripetizione. Insomma, ho capito che raccontare le storie per me è il motore della mia anima. È la fiamma che alimenta ogni mia azione, che sia teatrale, cinematografica o letteraria, perché la creatività accende l'anima. E senza creatività la vita è povera, a prescindere dal lavoro che fate.

(Qui cominciavo a sentire la voce tremare. Non volevo andare lungo, non volevo tediarli. E poi non volevo sembrare come se "me la stessi tirando". È difficile quando si prende un premio, non cadere nell'autocelebrazione. E pensate, mi è venuto in aiuto proprio questo diario. Perché scriverlo non solo mi ha permesso di legarmi a voi, ma mi ha anche dato nuovi strumenti, poiché ogni articolo è per me un nuovo mondo, una nuova scoperta che man mano sta forgiando la mia poetica.)

E in questo senso, prendere un premio come questo mi fa riflettere su quanto sia importante coltivare queste soft skills: storytelling, creatività. Cosa sono? A cosa servono? Servono. Servono a collegarci, servono a riconoscere l'altro uomo, si trasformano in empatia, ma non solo, anche in capacità di prevedere ciò che l'altro farà, perché è in ascolto, perché si percepisce l'umanità che si ha davanti.

Quindi, grazie. Grazie a chi ha creduto in me. Colgo l'occasione per ringraziare la mia editrice, Aurora Di Giuseppe, e grazie a voi per avermi riconosciuto questo valore.

(Questo che segue, come è ovvio, è un tema a me molto caro, e mi ha emozionato aver avuto la possibilità di poter, appunto, farlo emergere in un contesto così importante.)

E finisco con qualcosa di estremamente importante, che sarà al centro del dibattito dell'arte dei prossimi vent'anni e che approfitto per mettere sotto la lente adesso. Io questo premio lo dedico a tutti coloro che, in un mondo di intelligenze artificiali che sembrano pronte a sostituirci, continuano a credere nell'anima, nella forza del racconto umano, ispirato e imperfetto. Perché sarà sempre e solo la nostra umanità a restituire significato, connessione e speranza.

Grazie.

Come nasce l'ispirazione?

Oggi è mancata la mia prima grande Maestra di Recitazione, la direttrice della scuola del Teatro Stabile, Anna Laura Messeri. Una donnina forte, ruvida, diretta, con l'energia vitale di un leone e la sagacia di una volpe. Aveva i capelli corti, l'ho conosciuta a vent'anni e, come tutti i bambini davanti ai nonni, per me Anna Laura è sempre stata una nonna. Non l'ho mai vista invecchiare, perché l'ho sempre vista vecchia. Eppure, il suo cuore era ancora giovane, sempre giovane. Dalla scuola di recitazione traeva vita, dagli alunni linfa per alzarsi un'altra volta, per urlare, di nuovo, che la voce non arrivava, che non si capiva quello che veniva detto.

Una maestra del palco che ora parla tramite le voci delle centinaia di alunni che ha educato, molti dei quali vi sono noti, poiché diventati famosi.

Uno di loro sono io.

Voglio raccontarvi come Anna Laura affrontò il concetto di ispirazione. Voglio iniziare da lì, perché è il primo ricordo che mi è venuto in mente quando mi sono chiesto come cominciare questa pagina. Ed è successo il giorno in cui ci ha lasciati.

Non può essere un caso, caro lettore.

Me ne stavo sul palco dopo aver ricevuto dalla "Mess", come la chiamavamo noi, un foglio: un estratto del Mein Kampf di A. Hitler, che parlava di sport. Di come la gioventù dovesse essere sana, forte. Un estratto che esulava dalla politica folle di Hitler, ma che ne conteneva un altro lato, meno conosciuto.

Lo scopo era affrontare questo lungo testo come un monologo. Incarnarlo con la voce e il corpo. Dargli ragione. Perché sì, quando si recita, una delle meraviglie è poter essere qualcun altro, qualcuno che non conosciamo, di cui non condividiamo le idee, ma che, nel momento in cui lo incarniamo, diventa parte di noi. L'attore è mille uomini, mille volti, mille lati di mille pensieri. Recitare, proprio come leggere, arricchisce.

Recitare è leggere con il corpo.

Toccava a me. Il palco di prova era quello del Teatro della Corte di Genova. Una piazza d'armi da duemila spettatori, un palco nero, enorme, un San Siro dei teatri. Vuoto.

Solo la Mess, seduta, che aspettava di tranciare con un commento sagace il prossimo allievo.

Toccava a me.

Entro sul palco, il foglio umido in mano, su cui era stampato il monologo. Lo avevo imparato a memoria, ma ero ancora incerto, dovevo tenerlo in mano, per accertarmi che, in caso di un vuoto di memoria, avrei potuto contare su di esso.

Arrivo in scena e mi prendo un tempo. Credo sia un primo segno di consapevolezza recitativa. Non si può cominciare qualcosa di interessante senza prepararlo con il silenzio.

E così, aspetto. Mi godo il mio momento. Il palco. "Non è mica male, poi, questo teatro…" penso.

Passa un altro secondo ed ecco che la voce della Mess spunta dagli abissi della platea, rivolgendosi a quel giovane francese in camicia e jeans, pronto a decantare la follia.

«Eeeeeeee… che fai? Aspetti l'ispirazione?!»

L'ispirazione. In effetti, era proprio questo che facevo. Aspettavo l'ispirazione, il coraggio di cominciare. La scelta di abbandonare il crogiolo nel quale mi stavo cullando, come un abusivo immeritevole, del silenzio teatrale.

«Eh sì, Mess, devo partire bene!»

«Non devi partire bene. Devi partire e basta!»

Ecco, in summa, cosa penso sia l'ispirazione. L'ispirazione, nella sua più profonda forma, è la preparazione all'ignoto.

L'opera è ignota. Nessuno può sapere come sarà l'opera d'arte nella sua forma finita, perché il processo della creazione è esso stesso l'arte. È organico, rispecchia l'anima del momento, ma anche il tutto che è l'artista.

L'ispirazione viene da "in-spiratio", inalare. L'ispirazione è il momento in cui ci si solleva da terra, ci si sublima in un vuoto teso a lasciarci in mano all'ignoto. Il momento in cui si fa entrare l'aria per poi eseguire, urlare, piangere, ridere, distruggere e creare.

Quindi, ragionandoci, cara Anna Laura, avevi colto il mio talento, l'ispirazione, e subito mi dicesti come portarlo avanti. Eseguendo. Imparando la tecnica. E facendo quel passo avanti.

E ogni giorno, da quel giorno, un passo avanti è stato fatto. E mille altri ne farò, Mess.

Alla prossima pagina.

Elogio alla pigrizia

Ah… la pigrizia, l'ozio.

C'è chi dice che sia un peccato capitale, ma è davvero così? Bill Gates diceva, in una nota intervista: "Scegli sempre una persona pigra per fare un lavoro difficile perché una persona pigra troverà un modo semplice per farlo."

Mi tocca ammetterlo, sono fondamentalmente pigro. Sono così pigro che, pur di non fare qualcosa, mi sveno e mi stanco fino ad esaurirmi. Una pigrizia folle, la mia! L'intero mio processo creativo è la fotografia di questa follia. Sono disposto a passare ore e ore a modificare uno schema, un processo, pur di fare in modo che, "quando è fatto, ho finito di lavorre".

Penso che sia quello che succede quando un pigro incontra la necessità della perfezione. In lui scatta una forma di ossessione che porta la sua pigrizia a diventare un volano di produzione, un motore di desiderio di fare meno, facendo di più.

Da bambino, spesso sceglievo la strada meno faticosa per risolvere i problemi. Non di certo la migliore, almeno non a livello teorico. Ma lo era per me. Gli americani la chiamano "the path of least resistance", la strada con la resistenza minore. La strada facile.

In un articolo di tanto tempo fa, discutevo l'esistenza delle due porte, quella piccola e quella grande, e di come mia madre mi suggerisse spesso di optare per quella piccola, poiché era la più difficile e, quindi, dall'altra parte, avrei sicuramente trovato meno gente e più spazio. In un certo senso, il mio essere bastian contrario, indipendente, è la manifestazione di questa mia voce interiore, il mio desiderio di scardinare le etichette, di fare tutto "in modo diverso". Ma ciò non mi ha tolto quella che fondamentalmente è una parte integrante del mio essere: la pigrizia.

Quindi voglio fare le cose a modo mio, diversamente, ma senza faticare! Sono terribile! 😂

A parte gli scherzi, credo che questo binomio abbia prodotto in me una specie di corto circuito che tuttora mi alimenta: indipendenza, perfezionismo e pigrizia.

E ora rivedo queste qualità (o difetti, che dir si voglia) anche in mia figlia. Noto la sua tendenza a voler fare le cose a modo suo e un certo "penchant" nel scegliere la strada approssimativa, quella veloce e facile.

Io penso che siano delle competenze fondamentali. L'approssimazione è una forma molto evoluta di intelligenza, poco apprezzata negli ambienti accademici e scolastici, ma molto efficace nella vita reale. L'Italia ne è un esempio mondiale.

Poi, come al solito, dipende dove si applica. Ma io penso che, persino in ambiti altamente precisi e teorici, coloro che hanno la capacità di approssimare - e quindi di semplificare il pensiero - siano quelli che poi riescono a fare, grazie alla tecnica e alla precisione, un passo avanti.

Nel processo creativo è uguale. Come dice Zuckerberg in un suo famoso discorso a Stanford, le idee non nascono già fatte, si creano man mano che si sviluppano.

Ed ecco che l'approssimazione e la tecnica trovano, in questo processo di nascita e realizzazione, la loro resa ottimale.

Vi faccio una domanda: l'intuizione cos'è? Per me, è un'approssimazione, è un lampo di genio, un'idea, una cosa che è più visione che materia: un sogno. Poi, con l'ausilio dello studio e della conoscenza, piano piano quel sogno prende forma, si standardizza e si fa, nel tempo, sapere comune, nuovo tassello da aggiungere alla meravigliosa odissea dell'umanità.

I pigri magari non saranno produttivi come gli altri, magari non avranno quella capacità di essere grandi lavoratori ed esecutori, e spesso non sono neanche tanto precisi. Ma penso che una cosa la facciano meglio di tutti gli altri: sognare.

E ormai chi mi conosce lo sa: per me il sogno è il motore dell'azione che trasforma la realtà.

Alla prossima pagina.

La gelosia nell'arte

Non sono geloso. Non lo sono né delle cose né soprattutto delle persone, perché in me vive forte un credo che difficilmente abbandonerò: siamo tutti nati liberi e il rispetto sta proprio nel donare, anche (e soprattutto) a coloro che amiamo, la libertà di fare ciò che desiderano.

La gelosia, in fondo, è quel virus che si insedia tra le pieghe del nostro ego e che vorrebbe controllare gli altri. È un desiderio di dominio sul mondo. È sete di potere. E a me, il potere, non solo non interessa, ma proprio mi ripugna. Sono un indipendente nel cuore, l'unico potere che ho è su me stesso (e anche lì, il Destino avrebbe da ridire; chi ha letto "L'Anello di Saturno" può capire). Insomma, ho una repulsione naturale per la gelosia.

Ma anche essendo così, a volte, qualcosa dentro di me vibra quando scopro di aver perso un casting a favore di un altro attore, o anche in altre sfere, per esempio, quando ero al Salone di Torino, dopo aver fatto un bellissimo firmacopie. Peraltro vi lascio un piccolo video (per chi mi ascolta da Spotify, lo trovate su flavioparenti.com nella sezione "Diario D'artista", potrete vedere un po' di firme).

Insomma, dopo aver completato il firmacopie - che, a onor del vero, è stato un discreto successo, c'erano tante persone, tutte stupende - sono uscito e sono passato davanti al firmacopie di Felicia Kingsley.

Che dire, sono rimasto molto colpito da tutti coloro che aspettavano diligentemente in fila. Una fila lunga, lunghissima! Centinaia di ragazze e ragazzi che, libri in mano, aspettavano di incontrare la loro beniamina. Il mio primo pensiero è stato "mamma mia quanti…" e poi ho pensato a me. Inevitabilmente mi sono anche messo a paragone. Non è durato molto, forse mezzo minuto, anche meno. E poi la gelosia è sfumata in desiderio. Quello di riuscire, un giorno, a fare come lei, come Felicia Kingsley. A scrivere, scrivere, scrivere fino a che non venga riconosciuta la qualità e il valore della mia opera attraverso il pubblico.

Ora, a giorni di distanza, posso dire che quella fila mi ha ispirato a fare meglio, a comprendere come ha fatto quella signora a raggiungere quel livello.

Tutto questo per dire che se siete artisti, ma anche se non lo siete, non abbiate paura della gelosia, è un sentimento umano, naturale. Ma sappiate renderlo costruttivo, fate in modo che quella sensazione proiettata sull'altro si specchi in voi, e vi imponga di elevarvi. E chi, se non coloro che fanno meglio di voi, possono aiutarvi a fare meglio?

La gelosia è la bussola che vi dice dove dovreste andare. Dove la vostra curiosità darà i migliori frutti. Studiate coloro che vi rendono gelosi, cercate di capire l'origine del loro successo, cercate l'ispirazione, il mutamento, la trasformazione.

Nell'arte, la competizione non esiste. Esiste nel mercato, nelle vendite, nei numeri, ma non nell'espressione. Anzi, in quel caso, è l'unicità della voce che rende l'artista interessante. Ed ecco un sottile paradosso nel quale l'artista è costretto a rimanere in equilibrio. Autenticità della propria voce, ma anche studio e assorbimento di tecniche altrui. Come diceva Pirandello, uno e centomila. Perché Il "nessuno" lo lasciamo a Ulisse, perché nessuno è "nessuno". Persino nella più profonda delle solitudini.

E voi, avete mai subito la gelosia? Come l'avete affrontata?

Alla prossima pagina.

Evviva l'arte!

Oggi voglio condividere un'aneddotto di tradimento che mi aprì gli occhi sulla "follia" che la recitazione - e l'arte in generale - impone a coloro che la vivono.

Prima di tutto, recitare cosa significa? È una domanda difficile, che non ha una risposta univoca, ovviamente. Recitare è parlare e agire in maniera interessante e credibile. E qui si aprono mondi, metodi, visioni su come si debba fare per essere "interessanti" o "credibili" (anche perché parlare e agire, diciamolo, sono elementi comprensibili: é sufficiente essere intellegibili e muoversi con equilibrio e destrezza, cose che si imparano piuttosto facilmente).

Dunque, rimangono due misteriose variabili: interessante e credibile. Non farò una dissertazione su come raggiungere questi due punti, perché, come ha detto Dario Fo – e con lui molti altri – i metodi per arrivarci sono tanti quante sono le strade che portano a Roma. Ma certamente una componente fondamentale del percorso è la volontà dell'artista di perseguire il desiderio di far proprio qualcosa che proprio non è: assorbire, modificarsi, trasformarsi.

L'arte richiede mutamento. E per mutare davvero, per essere davvero altro da sé, è necessario applicare la trasformazione in ogni atomo di tempo, in ogni briciola di gesto. E potete immaginare cosa comporti questo quando si parla di recitazione!

Per esempio, "parlare in dizione", cioè usare le "e" e le "o" giuste, con l'accento giusto, non è solo una questione di "sapere come si fa". Ma soprattutto di "fare come si sa". La dizione va applicata nella vita di tutti i giorni, quando si chiede il conto al ristorante, quando si chiede l'ora ad un amico, etc... E saprete di esserci riusciti quando – perso ogni controllo durante una litigata – parlerete con gli accenti giusti. Ecco cos'è l'arte: influenzarsi così tanto da non doverci più pensare. Usare la memoria del corpo e non quella della mente. La postura, la voce, la respirazione, la dizione sono tutti elementi della recitazione che vanno assorbiti nel loro profondo per essere efficaci in scena.

Perché in scena, signori, non si pensa: in scena si vola.

Il mio aneddoto - che ora arriva - vi farà comprendere a che punto ho applicato questa metodologia nella mia vita...

Un giorno di molti anni fa, quando ero ventenne, venni a scoprire da un mio amico il tradimento della mia compagna dell'epoca. Erano le tre di notte e il mio amico, forse comprendendo quanto in fondo io soffrissi pur senza sapere, decise di aprire il vaso di Pandora. Era una storia d'amore che reputavo seria, io e lei stavamo insieme da alcuni anni – che a quell'età sono decenni – e la notizia mi travolse. Fu proprio un'onda d'urto che mi prese in pieno volto. Uno schiaffo divino che mi ribaltò il cuore. Mi alzai, pensante, trascinando quella notizia verso la cucina, quando il mio corpo cedette sotto il peso. Caddi proprio in ginocchio, cercando di comprendere cosa mi succedeva. Ero davvero caduto in un piccolo baratro.

Ebbene, sapete cosa mi è successo? Una parte di me, un "agente" sempre presente, disse: "Wow, com'è drammatico questo momento. Tienilo, ricordalo, che potrebbe esserti utile." e registrò ogni cosa, ogni movimento, ogni sensazione, ogni pensiero, in modo tale da arricchire la mia valigia di emozioni.

Sono certo che questo succede a tutti gli artisti, in forme diverse: ma l'arte non ci abbandona mai, è una compagna che si colloca dentro di noi e registra emozioni, sensazioni, colori, immagini. Tutto ciò che i nostri sensi – e non – registrano. É una lente per la vita.

E poi, come per magia, nell'atto della creazione, ecco che la restituzione si fa bellezza poetica, espressione alta, illuminante che marcia sopra la polvere del tempo.

Evviva l'arte.

Alla prossima pagina.

L'Anello Di Saturno IV

Luca, come un nobile parigino in rotta verso la ghigliottina, avanzava lentamente verso il fondo della piazza. Il gruppo di coetanei aveva preso possesso dei gradini sotto al monumento ai caduti. Il giovane sapeva a cosa andava incontro: ogni volta era la stessa storia. I genitori lo forzavano a incontrare gli altri e ogni volta finiva per essere rifiutato.

Avvicinandosi, solo uno di loro lo fece sentire accolto, esistente: Geppo, sedici anni, un ragazzo dai capelli crespi e naso importante, con la postura di un nuotatore professionista. Dal suo sorriso forte e sano, da quell’espressione bonaria, Luca intuì che Geppo era diverso, che ci teneva agli altri.
Appena Geppo si alzò per andare incontro a Luca, Ronnie lo fermò con un gesto. Poi, ergendosi con un sorriso tagliente tra le labbra, chiese a tutti: «A chi va di giocare a Torello?». Era una domanda retorica; nessuno poteva dire di no a Ronnie.

I ragazzi si disposero in cerchio al centro della piazza vuota. Ronnie, rivolgendosi a Luca, che era rimasto in disparte, disse: «Francesino, vuoi giocare?».
Luca si avvicinò timidamente, ancora incapace di capire di cosa parlasse quel ragazzo. Cos’era il Torello? Cosa avrebbe dovuto fare? si chiese camminando verso il cerchio di ragazzi.
Geppo intuì la difficoltà di Luca quando, giunto al centro, osservò tutti con uno sguardo smarrito e inconsapevole, tipico di chi non sa come agire. «Quelli in cerchio si passano la palla. Tu la devi intercettare, ma solo coi piedi. Se ci riesci, prendi il posto di quello che l’ha calciata per ultimo», spiegò Geppo.

Luca annuì in segno di ringraziamento. Fu sufficiente quel fugace scambio di sguardi per far comprendere a entrambi che erano destinati all’amicizia.

Il gioco prese il via. Geppo calciò la palla verso Ronnie; Luca, goffo ma dalle gambe lunghe, riuscì a sfiorarla, quasi prendendola con la punta dei piedi. Il suo cappuccio scivolò dal capo, la sua corsa si fece più concitata e il sudore lo trascinò in una trance che si potrebbe definire agonistica. Luca si muoveva inaspettatamente come un gatto cacciatore, eccitato dalla competizione. Acceso da un’energia nuova, comprese presto come anticipare il pallone.

Ronnie, nel tentativo di beffarlo, diede un calcio a pallonetto, il “cucchiaio”, come lo chiamava. Ma Luca, con un balzo atletico, fermò la palla con il petto e la posò sotto il suo piede, assumendo una posa trionfale.

Ronnie aveva perso davanti a tutti, e ora era il suo turno di andare al centro. Il bullo che covava in lui non perse tempo a segnare il territorio. Con due falcate si piazzò davanti a Luca e lo spinse a terra con violenza, in un gesto di pura frustrazione. Geppo intervenne immediatamente per fermare Ronnie, i cui pugni fremevano di rabbia per lo smacco subito.

Luca, decisamente più intelligente del suo avversario, si alzò, spolverando i jeans e mantenendo lo sguardo basso per evitare ulteriori tensioni. Si ritrasse di un passo, notando che il suo Game Boy era caduto sui sampietrini, proprio vicino ai piedi di Ronnie. Capovolto, lo schermo non era visibile. Un brivido di paura lo attraversò all’idea di aver perso il suo unico compagno di giochi.

Geppo, prontamente, raccolse il Game Boy per lui.

«Ma che stai a fare?» lo interrogò Ronnie.

«Ma si può sapere che cazzo t’ha fatto? Stava solo giocando», rispose Geppo, visibilmente irritato.
Ronnie, lanciando uno sguardo circospetto ai suoi compagni e notando la vergogna nei loro occhi, capì di aver esagerato. Con un gesto magnanimo ma finto disse: «Fate un po’ come cazzo vi pare...» e si ritirò sugli scalini a bere una birra, da solo.

Geppo allungò il Game Boy a Luca. «Io sono Andrea, ma qui mi chiamano tutti Geppo. Tu?»
Luca prese il suo videogioco, notando lo schermo scheggiato. «Luca...» rispose, serrando le labbra.

«Mi dispiace, Luca.»

«Non importa», rispose lui, riaccendendo la console. Lo schermo funzionava ancora. Alzò lo sguardo: «Grazie, Geppo». E si allontanò.

«Ciao Lucà», disse Geppo, enfatizzando l’accento francese in tono scherzoso. Luca non poté fare a meno di sorridere mentre si allontanava. Era un ragazzo che avrebbe voluto come amico, ma temette di perderlo ancor prima di conoscerlo, proprio come era successo con Julien.
Si allontanò senza una meta precisa, desiderando soltanto trovare un luogo tranquillo dove stare da solo. Si sentiva a suo agio in assenza degli altri, libero di immaginare di avere superpoteri, di saper fare karate e sconfiggere tutti.

Quanta fantasia produce la voglia di fuggire, caro lettore! E Luca ne era colmo, perché conosceva la fuga come le sue tasche. Fuggiva dagli altri, dal mondo che cambia troppo spesso eppure resta sempre uguale.

Ma soprattutto, fuggiva da se stesso.

***

Luca scese i grandi scalini dietro piazza Cavour, numerosi ma bassi e agevoli. Con lo sguardo incollato allo schermo del Game Boy, illuminato dalla luce gialla dei lampioni, giocava a Tetris con grazia e calma. La batteria del gioco era ormai quasi esaurita, segnalata dalla spia rossa più debole del solito. Quando la spia lo abbandonò, tutto si spense improvvisamente. Luca alzò lo sguardo per la prima volta. Si trovava in fondo alla scalinata, di fronte agli alberi del parco, lontano dalla piazza. Levando gli occhi verso la collina, intravide la punta del monumento ai caduti, ma i rumori del borgo erano scomparsi. L’odore della natura riempiva le sue narici, e fu immerso da un’insolita quiete, piacevole e cullante.

Il cielo era tempestato di stelle, più brillanti di quanto le avesse mai viste. “Sono così tante...” pensò, ammirando la Via Lattea visibile a occhio nudo e individuando pianeti come Marte, Venere e Saturno.
Poi si accorse di non essere solo. A una decina di metri da lui, sulla sua sinistra, sedeva una ragazza sotto la luce gialla dell’unico lampione acceso. Era seduta con le ginocchia piegate sul muretto, la schiena appoggiata al palo. Aveva un libro in mano e una sigaretta spenta tra le labbra.

Luca rimase a osservarla, immobile come gli alberi. La ragazza era così assorta nella lettura che ignorava le zanzare volare intorno a lei. Si interruppe solo per accendere la sua sigaretta, senza distogliere lo sguardo dalla fine del capitolo.

Luca la ammirò fumare, catturato dalla scena. Ogni soffio la avvolgeva in un velo di mistero. I suoi occhi smeraldi e felini, incorniciati da lunghe ciglia, seguivano le righe del libro. Aveva i tratti delicati, zigomi alti e lentiggini sulla pelle chiara. Indossava una canottiera, pantaloncini e sandali di tela. I suoi capelli erano lisci e castani.

Conclusa la lettura, la ragazza gettò la cicca, si spruzzò del profumo addosso, prese una gomma da masticare dalla borsa e si rivolse a Luca: «Come ti chiami?».

«Cosa?» rispose lui, risvegliato all’improvviso dall’ipnosi, sorpreso di essere stato notato.

«Sono dieci minuti che mi stai fissando. Come ti chiami?»

Luca sentì le ginocchia tremare e un rossore di vergogna gli salì al viso. Era stato lì a guardarla come un ebete e lei se ne era accorta. Balbettò la sua risposta: «Luca... io... mi...»

«E che ci fai qui?» chiese lei, scendendo dal muretto su cui era seduta. «Sei nuovo?»

Luca fece spallucce, cercando di giustificare la sua presenza. «No... niente,» alzò lo sguardo, «stavo guardando le stelle.»

La ragazza si avvicinò per osservarlo meglio. «Ce ne sono tante, quale guardavi?»

Luca deglutì nel sentirla così vicina. «Sa... Saturno...» rispose, quasi senza voce.

La ragazza scoppiò in una risata gentile: «Saturno non è una stella». E se ne andò, senza dire a Luca il suo nome.

***

Questo è - ahimè - l'ultimo capitolo che posso permettermi di offrirti gratuitamente. Se questo libro ti piace e vuoi sapere come andrà avanti l'incredibile storia di Luca e Anna, la potrai trovare nelle sue varie forme (ebook, audiolibro e cartaceo) cliccando sul banner della pagina. Acquistanto il libro non solo ti tufferai in una storia emozionante, ma mi sosterrai nel mio percorso di scrittore.

A prescindere dalla tua scelta, grazie per essere arrivata, o arrivato, fin qui.

Alla prossima pagina.

L'Anello Di Saturno III

Calato il crepuscolo, sotto la prima stella, l’aria si fece più fresca di quanto Jane si aspettasse. «Avrei dovuto portare un maglioncino», disse al figlio, uscendo dal portone annerito dall’ombra del tramonto, ma Luca rimaneva sempre troppo silenzioso per lei.

Il ragazzo teneva gli occhi a terra, voleva evitare di affezionarsi a quel luogo, consapevole che sarebbero di nuovo partiti, prima o poi, come sempre. Non gli importava nulla di quel borgo; Anagni era solo un’altra tappa, un’altra puntina da inchiodare al mappamondo. Non voleva affezionarsi nemmeno ai sampietrini, non desiderava ammirare le stradine medievali né sentirne l’odore. L’aria della sera aveva portato con sé un profumo di soffritto che fuoriusciva dalle finestre delle case, ora illuminate. Ma lui era infastidito da tutto, persino dai colori tenui che sfumavano con il tramonto.

Povero Luca. Non era nemmeno colpa dei genitori. Come biasimarli? Jane e Alberto avevano sempre seguito la loro felicità. Loro erano per Luca l’esempio della fiaccola dell’entusiasmo, del desiderio di ricerca, di divertimento. Erano viaggiatori nell’anima e, nel loro incedere, lo avevano trascinato ovunque.
Da Westminster a Madrid, da Nizza a Parigi, Luca era stato costretto a scoprire scuole e paesi diversi: Africa, Asia, Giordania, dove aveva visto Petra, la città di roccia. Insomma, Jane e Alberto erano così: genitori amorevoli, figli del tempo che corre.

Nel ’65, Jane era scappata di casa, appena maggiorenne. Gli anni di collegio e un padre severo l’avevano portata tra le braccia di Alberto, che invece era cresciuto come un uomo libero. Lui, amante delle donne e viaggiatore in fuga dalle sue origini modeste, si era innamorato delle minigonne francesi e si era trasferito a Parigi. A ventun anni era entrato all’Ecole Normale Supérieure per cominciare gli studi di Fisica, che lo avrebbero portato poi ad emergere come uno dei massimi esperti di fisica teorica della sua generazione.

«Dai, Pulce, vieni. Andiamo a cercare un ristorante», disse Alberto al figlio, rituffatosi tra i pixel che diventavano sempre meno visibili nella notte crescente. L’affetto che lo stringeva a Luca era un legame indistruttibile. Solo una cosa poteva far soffrire Alberto: vedere Luca isolato dietro quella corazza che aveva innalzato tra di loro.

«Dai, andiamo», ripeté.

«Sì, papà.»

«Ecco, vedi...» borbottò Jane infilandosi lo scialle, «quando tuo padre ti chiede qualcosa, ubbidisci subito. Ma quando invece te lo chiedo io, no. Mi piacerebbe capire perché.»

Luca alzò gli occhi dallo schermo, stupefatto dalle parole della madre: «Che ho detto?».

«Prima ti ho chiesto di venire e tu non mi hai nemmeno risposto.»

«Non avevo sentito.»

Jane lo guardò, una lieve fitta di dolore materno accarezzò il suo cuore.

***

Le voci animavano il borgo assopito dalla lunga giornata. Dopo aver cercato invano un ristorante per quasi venti minuti, la famiglia stava per rinunciare alla ricerca quando Alberto notò due anziani seduti su sedie di legno attorno a un tavolo rotondo, immersi in una partita di briscola. Accanto a loro, sulla tovaglia cerata, un bicchiere di rosso allungato con l’acqua.

«Scusate...» disse Alberto con cortesia.

I due anziani, concentrati nel loro gioco, non lo degnarono nemmeno di uno sguardo.

«Sapete indicarmi un ristorante?»

Uno degli anziani si piegò leggermente verso Alberto, senza mai staccare gli occhi dal tavolo, e con una sigaretta stropicciata all’angolo della bocca disse: «Accanto al municipio ci sta un’osteria. Non prendete l’abbacchio, che Marco non è capace».

«Ma che stai a dire», rispose piccato l’anziano di fronte. «Mio figlio è il miglior cuoco di Anagni.» Poi, rivolgendosi ad Alberto: «Non lo state ad ascoltare. Andate più avanti e pigliate ’a salita, in piazza ci sta un ristorante. Proprio davanti alla Santa Maria. Cucina mio figlio, è bravo».

«No, macché bravo. L’abbacchio non lo sa proprio fare. È secco!» disse l’altro, lanciando un tre di bastoni con violenza sul tavolo. «Briscola!» urlò con voce graffiata. L’altro, sbuffando, gettò le carte a casaccio.
In men che non si dica ricominciarono un’altra partita, dimenticando la presenza di Alberto, che raggiunse moglie e figlio.

***

La piazza della cattedrale era avvolta da un fascino antico e misterioso. Il campanile, alto più di trenta metri, dominava la piccola città come un obelisco grigio dal pallore lunare. Si dice, caro lettore, che di notte tutto sia più bello perché le oscenità del mondo vengono celate dal velo dell’oscurità, trasformandosi in ombre che scompaiono nelle tenebre. Ma l’oscurità risveglia anche i mostri nascosti negli angoli della paura, e per questo la notte è così seducente: nessuno resiste al brivido dell’ignoto.
La trattoria era buona e l’abbacchio, sebbene leggermente secco, era ottimo.

«Com’era la cotoletta?» chiese Alberto, osservando il piatto quasi immacolato del figlio. Luca teneva i polsi sotto gli zigomi e i gomiti sul tavolo, fissando inerte la cotoletta mangiata a metà, stesa sopra una triste foglia di lattuga. Non aveva fame, e Alberto sapeva che questo era il primo segno che qualcosa non andava. Luca sembrava la fiammella morente di una candela consumata.

Con un riflesso quasi automatico, il ragazzo afferrò il suo Game Boy. Alberto non ebbe nemmeno il coraggio di strapparglielo via. Come poteva? Sapeva bene che suo figlio stava male a causa delle scelte che aveva fatto lui. Era colpa sua se continuavano a muoversi, spinti dall’ambizione di dirigere un giorno un gruppo di specialisti, di scoprire qualcosa di nuovo, di entrare nei libri di storia. Questo era ciò che Alberto desiderava più di tutto. Guardando il figlio, fu travolto dalla consapevolezza che non gli restava molto tempo prima che Luca diventasse un adulto, prima che la vita se lo prendesse per non restituirglielo più.

Immagino, caro lettore, che tu sia curioso di sapere cosa diventerà Luca da grande. Se ascolterai la mia storia fino alla fine, ti prometto che lo saprai: le vie del tempo e del destino sono, come scoprirai, infinite.

Alberto, per un attimo, si immaginò il figlio alla guida della sua Citroën gialla, pronto a partire senza di lui verso chissà dove. E in quel momento si rese conto che non gli aveva insegnato a frenare. Mentre immaginava la macchina fuggire via per le tortuose strade cittadine, il terrore di sentire uno schianto gli soffocò i polmoni. Si asciugò la fronte con il tovagliolo, cercando di scacciare via i pensieri e le zanzare. «Mangia, Luca, è buona, ti fa bene», disse, accorato.

Luca, senza fare storie, posò il Game Boy sul tavolo e prese forchetta e coltello per ubbidire al padre.
«Quando te lo dico io...» disse Jane, facendo un altro tiro di Camel e incrociando le braccia. Aveva finito un piatto di gamberi alla piastra, che lei stessa aveva definito mediocre, e aspettava – da troppo tempo secondo i suoi standard – il caffè, richiesto almeno cinque minuti prima.

«Stanno finendo anche le ultime batterie», ribatté Luca con una voce così bassa che Jane non capì se fosse un tentativo di informarla o solo di parlare a se stesso.

Con la coda dell’occhio, Alberto notò un gruppo di ragazzi che giocava e correva davanti alla cattedrale. Era lo stesso gruppo che aveva visto nel pomeriggio, fuori dal municipio. Una dozzina di giovani sorridenti e abbronzati scendeva verso piazza Cavour per il dopo cena, insieme al fedele pallone.

«Perché non vai con loro?» chiese Jane.

Luca li guardò, stanco. Vide Ronnie, e l’idea di doverlo affrontare di nuovo lo bloccò.

«Non vuoi farti nuovi amici?» insistette la madre.

«A che serve,» disse Luca, «tanto andremo via tra poco.» Avrebbe voluto scomparire da tutto e da tutti, persino dalle memorie dei suoi genitori che tanto amava, così almeno non avrebbero sofferto per la sua mancanza.

«Dai…» provò a convincerlo Alberto, sfiorando il cappuccio nero del maglione che Luca indossava. «Non hai caldo con questo?»

Il ragazzo rispose con un gesto delle spalle, allontanandosi dal padre, e si alzò senza dire una parola. Infilò il Game Boy nel tascone centrale della felpa e si avviò, come un automa obbediente ai comandi impartiti.

«Torna quando vuoi, ma non troppo tardi!» gli gridò Jane, spegnendo con nervosismo la sigaretta sul posacenere di vetro. Una tazzina di caffè giunse sul tavolo. «Finalmente...» disse con un tono amaro, osservando il figlio allontanarsi, consapevole ‒ come Alberto ‒ delle proprie responsabilità.

L'Anello Di Saturno II

Il caldo era insopportabile. L’afa estiva aveva trasformato i sampietrini in pietre arroventate, dalle quali il vapore non emergeva più, tanto secca era diventata la loro superficie. Persino le nuvole sembravano essersi dileguate, lasciando il cielo alla mercé del sole che cuoceva a fuoco lento l’antico arco di Travertino, la porta Cerere, che segnava l’ingresso nel centro storico di Anagni.

«Hai tu il foglio con le indicazioni?» chiese Jane, alzando la voce per sovrastare il canto delle cicale che dominavano intorno. Vampate di calore secche strappavano il respiro.

Non c’era anima viva. Il centro di Anagni, borgo antico situato in cima alla valle del Sacco, 424 m sopra il livello del mare, era un luogo desolato.

A Luca bastò un passo per sentirsi immerso in una rovina archeologica abbandonata dal tempo e dagli uomini. Vide un campanile solitario emergere da dietro gli edifici bassi e antichi, accatastati e compressi. Era la cattedrale.

Le serrande dei negozi erano tutte abbassate. Non c’era nemmeno l’odore di pane a suggerire l’esistenza di vita, in quella desolazione. Tutti gli anagnini erano fuggiti all’ombra fresca delle foreste o verso i venti del litorale.

Alberto estrasse dalla tasca un foglio inumidito dal sudore e dal viaggio, con sopra le indicazioni, e si incamminò per trovare la loro casa.

«E le valigie?» lo interpellò Jane.

Alberto, rifugiatosi sotto l’ombra della porta Cerere, cercava di capire la direzione da prendere: «Dopo, prima troviamo casa».

Luca alzò lo sguardo, osservando lo stemma della città: un’aquila che afferrava un leone, e delle chiavi con un manto.

Alberto lasciò quindi la macchina in mezzo alla piazza, rasserenato dal fatto che nessun vigile si sarebbe preoccupato di multarlo, e si avviò lungo la strada principale del piccolo borgo: corso Vittorio Emanuele. «Dovrebbe essere in fondo alla via», disse, orientando la mappa nella direzione giusta. E i tre procedettero verso la cattedrale a monte.

La casa ricordava quella dei nonni: una villetta situata in un cunicolo laterale che scendeva dalla strada principale verso la valle. Civico 38. Jane estrasse un mazzo di chiavi dalla sua borsa Givenchy e le passò ad Alberto, che aprì il grande portone di legno verde.

All’interno aleggiava un odore di luogo dimenticato. La freschezza che si sprigionò dall’oscurità fu un sollievo per Luca, che subito cercò un posto dove sedersi. Jane storse il naso: la polvere era così densa da essere visibile in controluce. «Devo trovare una donna delle pulizie», disse, entrando nel salone.
Luca si gettò sul divano, che rilasciò una nuvola di polvere. Quando la luce finalmente invase la stanza, un paesaggio mozzafiato si svelò davanti alla famiglia Colonna. La casa si affacciava sulla vallata ciociara, un luogo di straordinaria bellezza, un mix tra l’eleganza toscana e quel senso di natura selvaggia che ancora caratterizzava il Lazio.

Jane non poté fare a meno di sorridere di fronte ai colori della vallata. Gerani e begonie pendevano dalle finestre, avvolte dalla vigna americana che conferiva alla vista un’atmosfera romantica, persino più magica dell’entroterra della Costa Azzurra, che tanto amava.

«Ci hanno lasciato qualcosa in cucina! Spaghetti!» esclamò Alberto, che aveva già iniziato a esplorare le varie mensole di legno alla ricerca di pasta, olio, aglio e, magari, peperoncino. Trovò una grossa pentola di acciaio bianco, la riempì d’acqua e tentò di accendere i fornelli. Ma nulla, l’accendigas non si avviava.

«Eppure il gas c’è», disse, ascoltando il sibilo silenzioso provenire dai fuochi, che tuttavia rimanevano spenti.

«Hai provato a premere il pulsante dell’accendigas?» chiese Jane, posando la borsa sulla tovaglia cerata.

«Certo che ho provato, ma non funziona, guarda.»

Nel frattempo, Luca, sdraiato sul divano e infastidito dalla luce, si era immerso nuovamente nel suo Game Boy. Jane provò ad accendere la luce della cucina, ma gli interruttori di plastica color crema non sortirono alcun effetto.

«Mi sa che non c’è elettricità», osservò Alberto. «L’interruttore centrale dovrebbe essere all’ingresso, come dai miei.» Così, dietro l’attaccapanni, trovò lo sportello dell’interruttore, che però sembrava acceso.

«Forse c’è qualcosa fuori», suggerì Jane. Una volta usciti, avvolti dal canto delle cicale, notarono un cavo elettrico che pendolava sopra le loro teste. «Non ci hanno allacciato...» mormorò Alberto, asciugandosi la fronte.

Jane, con la sua abituale determinazione, non esitò. «Vai a parlare con qualcuno», disse. Poi rivolgendosi al figlio: «Luca! Stacca gli occhi da quell’aggeggio e aiuta tuo padre!».

Così, i due Colonna si misero in marcia alla ricerca di un elettricista alle 13:45 di Ferragosto.

***

Appena arrivati nella piazzetta centrale, il sudore sulla nuca di Alberto già colava a profusione. Senza ombra dove rifugiarsi, Anagni sembrava l’inferno. Con segnaletica scarsa e pochi turisti, appariva quasi una città fantasma.

«Municipio», lesse Alberto seguendo un cartello di metallo sbiadito dal sole. «Aspettami qui», e si diresse sotto la gigantesca volta che ospitava l’ingresso verso gli uffici, nutrendo la speranza di trovare qualcuno.

Per la prima volta, ma non sarebbe certo stata l’ultima, Luca si trovò solo. Osservò il padre svanire tra i corridoi degli uffici statali. Il suo sguardo si perse verso piazza Cavour, dominata dal monumento ai caduti, arso dalla calura.

Sentì il suono di un pallone che colpiva un muro: la valvola rimbombava contro la plastica, producendo un rumore acuto e artificiale, qualcosa di nuovo per lui. A Parigi, i ragazzi non giocavano a pallone; era troppo pericoloso con tutte quelle macchine.

Il Super Tele blu e nero si fermò ai piedi di Luca, che lo bloccò con la suola delle sue All Star.

«Aò! Che ti sei incantato?!» gridò un ragazzo robusto con un marcato accento ciociaro. Era Ronnie, diciassette anni, ripetente di terza superiore. Luca, accecato dalla luce, non riuscì a vederlo chiaramente.

Osservò il pallone ai suoi piedi, pensando di non averne mai calciato uno in vita sua, a parte una volta a scuola. Non sapeva come restituirlo a Ronnie senza sembrare goffo. Lo prese con le mani e uscì dall’ombra della volta, avvicinandosi al ragazzo, che lo fissò come se fosse un alieno. Ronnie era un capogruppo, alto, robusto, con la pelle olivastra e un ciuffo alla Elvis. Aveva spalle larghe e un viso imberbe. «Da dove vieni?» chiese con tono aggressivo, stagliandosi imponente come un gigante davanti a Luca.

«Mi chiamo Luca, vengo da… da Parigi», balbettò il ragazzo. Al suono di quella città, Ronnie storse il naso, forse per gelosia, forse per frustrazione. Parigi... lui non era mai andato più in là della capitale, e il viaggio più ambizioso che sognava di fare era quello che i suoi genitori continuavano a promettergli: Gardaland.

Gli bastò uno sguardo per capire che Luca, così magrolino e nascosto dietro quegli spessi occhiali neri, non avrebbe rappresentato un pericolo per il suo territorio. Anzi, quella sarebbe stata l’occasione giusta per inaugurare un fresco capro espiatorio con il quale ricordare a tutti chi comandasse ad Anagni.

«Per che squadra tifi?» chiese, strappando via il pallone dalle mani di Luca. Quest’ultimo, ancora poco avvezzo alla cadenza ciociara, non aveva mai sentito questo verbo. Tifare… cosa poteva voler dire? Provò a trovare una radice comune in francese. Spesso riusciva, tramite equivalenza, a dedurre un significato passando dall’italiano al francese. Ma non trovò nessuna omofonia per smarcarsi dal blocco linguistico che aveva di fronte: la parola “tifare” proprio non somigliava a nulla che conoscesse. Aveva però a che fare con una “squadra”. Si trattava di sport. Ma di quale sport parlava Ronnie?

I secondi colavano come il suo sudore, mentre ragionava. Tutto questo giro di pensieri e parole avvenne nell’arco di un millisecondo. Luca era un essere complesso, veloce quanto fragile. «La Francia...» disse, sperando di uscirne vivo. «Tifo la Francia.» Poi osservò Ronnie che annuì con la testa, e fece un sospiro di sollievo.

«No, ma io ti stavo a dire in Italia. Per che squadra tifi in Italia?»

Niente. Luca era tornato al punto di partenza. La situazione gli stava scivolando di mano e non aveva la minima idea di cosa dire.

Il suo tentennamento aprì uno spiraglio nel quale Ronnie entrò a gamba tesa, senza nessuna remora. «Non dirmi che non sai cosa vuol dire tifare!» sbraitò con una grassa risata, includendo il gruppetto di amici che si erano avvicinati. Tutti guardarono Luca con l’aria tra il curioso e il “che cazzo ci fai qui da noi?”

Luca deglutì, ora costretto ad ammettere la terribile verità: «No, non so cosa voglia dire, mi dispiace».
Tutti scoppiarono a ridere. Luca abbassò gli occhi, conoscendo bene il fervore ardente dei coetanei pronti a odiare chi arriva da fuori, tutti desiderosi di discriminare per sentirsi più uniti. Ormai aveva capito che in ogni posto dove andasse, lui era la colla che univa tutti.

Ronnie, finita la risata, gli diede le spalle e raggiunse il gruppo, lasciando Luca solo a cuocere di vergogna sotto il sole. Il Super Tele tornò a battere contro il muro mentre Alberto scendeva le scale del municipio due gradini alla volta, sempre sorridente. «Allora,» disse dopo aver notato l’incontro tra Luca e Ronnie dalla finestra del secondo piano, «sono simpatici?»

Luca fece un timido cenno di sì, evitando del tutto il discorso. Sapeva che non aveva senso rendere partecipe il padre delle tribolazioni che affrontava a ogni nuova tappa. L’unica volta che ci aveva provato, l’intervento di Alberto aveva peggiorato tutto.

Il ragazzo cambiò discorso. «E tu? Hai trovato un elettricista?»

Alberto sorrise: «Temo di no. È tutto chiuso qui. Anagni non è Parigi».

E su questo c’erano pochi dubbi, caro lettore: Anagni non era certo Parigi.

L'Anello Di Saturno I

Ogni storia d’amore è un caos incantevole che si innalza sopra l’ordine predestinato. 

Permettimi, caro lettore, di presentarmi: sono il Destino.

In un’epoca lontana, antecedente l’esistenza di questa realtà, avevo ordinato l’universo in un regno di calma e pace. Dopo molteplici eternità, ero finalmente riuscito a organizzare gli elementi primordiali e a relegare il caos a un lontano ricordo. Tutto, nel mio mondo, era come lo desideravo: chiaro, lineare.

Esausto, ma soddisfatto per aver completato il mio compito, cedetti ‒ solo per un istante ‒ al pensiero del riposo. Fu in quel momento che l’Amore, mia eterna nemesi, fonte di disordine e imprevedibilità, colse l’opportunità per distruggere la mia impresa.

L’Amore sedusse gli elementi primordiali, imbevendoli di un magnetismo travolgente. Il loro contatto generò una scintilla che provocò l’esplosione delle esplosioni. Quello che tu, caro lettore, chiami il “Big Bang”, il ritorno al caos.

Da allora, lavoro incessantemente per restaurare l’ordine, ricucendo con fatica le trame del tempo e dello spazio, annodate e intrecciate a causa dell’Amore.

Tuttavia, devi sapere che poche storie causarono più scompiglio di quella che sto per narrarti: la storia di Luca e Anna.

Luca e Anna... due nomi che potrebbero sembrare comuni in un mondo di miliardi di altri nomi. Ma le loro anime erano imbevute della stessa essenza d’amore che sedusse gli elementi: un amore puro, l’amore dell’inizio dei tempi.

Ancora inconsapevoli, ignari l’uno dell’altra, Luca e Anna erano già inseparabili. Come due magneti carichi di eros, la loro vicenda sembrava già scritta: destinati a scatenare, nel momento in cui si sarebbero amati, un caos devastante nelle mie trame.

***

Il 13 agosto del 1995, nel quattordicesimo arrondissement di Parigi, una Citroën di colore giallo ocra era pronta a partire. Carica fino all’inverosimile, i bagagli di cuoio occupavano persino i posti posteriori. Tra le valigie, un ragazzino magro dalle spalle larghe, con gli occhiali spessi, era immerso nel suo Game Boy.

Luca Colonna, sedici anni, esperto di Tetris e di solitudine, giocava senza lanciare nemmeno uno sguardo alla città che fino a poco prima aveva chiamato “casa”. Le strade di Parigi erano ancora fresche di mattino, e fuori dall’abitacolo regnava un’allegra confusione, in netto contrasto con la sua anima spenta. Non era una vacanza, quella che l’attendeva, bensì un viaggio senza ritorno, l’ennesimo addio a tutto ciò che conosceva, il tredicesimo, per l’esattezza. Luca si sentiva come una pianta sradicata troppe volte, costretta a rifugiarsi nella solitudine per trovare un po’ di pace.

Alberto, il padre, quarantotto anni, era alto e robusto, con un folto baffo e capelli ricci. Quando parlava emanava un entusiasmo contagioso. Depositò l’ultima valigia, contenente il suo telescopio, sul tetto della Citroën e assicurò le robuste cinghie elastiche. «Si parte!» esclamò dando un colpo al camion dei traslochi parcheggiato davanti.

«Luca, hai preso tutto?» chiese Jane, la madre, quarantasette anni portati con eleganza. Capelli corti, sguardo di ghiaccio, era il motore sempre attivo della famiglia. Dopo aver gettato la Camel consumata sul marciapiede, la schiacciò sotto il suo stivale di coccodrillo e attese una risposta. Luca, troppo assorto nel tentativo di incastrare il pezzo a forma di “I” per fare Tetris, non rispose.

Alberto picchiettò con l’indice sul finestrino: «Luca, quando tua mamma ti parla sei pregato di rispondere».

«Sì, mamma, ho preso tutto», rispose il ragazzo senza distogliere lo sguardo dal gioco. Non aveva molto da portare con sé, il povero Luca, così abituato a partire da aver ridotto la sua vita in uno zaino. Non aveva nemmeno salutato Julien, il suo “migliore” amico, incontrato solo sei mesi prima. Luca conosceva gli addii fin troppo bene. Le lacrime ormai gli pesavano ed era stanco di quella tristezza, stanco persino di essere stanco. Lo aveva capito al sesto trasloco: meglio andare via senza dire nulla, si soffre meno.

Alberto avviò il motore mentre Jane, accendendosi un’altra Camel, riempiva l’abitacolo di fumo.

«Mamma, puoi aprire il finestrino per favore? Non mi piace l’odore», chiese Luca.

Jane, con un gesto nervoso, girò la manopola più volte finché l’aria di Parigi non sfiorò i suoi capelli corti. Guardò con lieve tristezza i monumenti scorrere, la sua vita. In quella città aveva vissuto il ’68, le proteste, le occupazioni studentesche, guidata da quel suo insegnante di matematica poi divenuto un noto politico.

Jane era una di quelle donne che indossavano i pantaloni quando tutte le altre preferivano le minigonne e guidava motociclette mentre le sue amiche cercavano un marito. Poi, invece, fu lei la prima a cadere vittima dell’Amore – con Alberto. E ora stava lasciando tutto per lui.

I bagagli sopra la sua testa, pieni di sogni, celavano il futuro di Alberto, talentuoso fisico teorico. Aveva ricevuto un promettente impiego al CNR di Roma, e Jane aveva accettato, non senza remore, di trasferirsi in Italia con l’uomo che aveva conquistato il suo cuore. Parlava un italiano perfetto, caratterizzato da una “erre moscia” e piccoli errori che sperava correggere presto, grazie alla lettura delle opere di Pavese.

Guardò suo figlio: era così solo, così fragile... poi posò la mano sul ginocchio di Alberto, concentrato alla guida.

Alberto le sorrise. Quanto la amava.

Jane estrasse una cassetta bianca dal portaguanti e la inserì nella radio. Pink Floyd. Propose poi di fermarsi al McDonald’s: «Luca, ti va? Ce n’è uno sull’autostrada».

Luca, senza distogliere lo sguardo dal gioco ‒ al livello nove non ce lo si può più permettere ‒ fece un piccolo cenno di assenso con la testa, sufficiente a fargli sbagliare il posizionamento di uno dei blocchi. «Merda...» mormorò sottovoce.

***

«Dormiremo dai nonni», dichiarò Alberto, con le mani stanche sul volante, mentre la Torre di Pisa iniziava a delinearsi all’orizzonte.

Luca, perennemente immerso nel suo mondo di pixel, aveva già esaurito due dei tre pacchetti di batterie che Jane gli aveva comprato. Non desiderava altro che giocare, per dimenticare ricordi troppo dolorosi, zeppi di amici di cui possedeva solo nomi e indirizzi per mandare loro la solita cartolina che sarebbe stata, come sempre, presto scordata.

Man mano che il tempo passava, Luca sperava che, in questo modo, potesse ritrovare quella felicità perduta. A volte si chiedeva se la sua vita fosse reale o solo frutto dell’immaginazione, come le storie nei libri che leggeva.

***

La casa dei nonni era intrisa di tipicità italiana: una villetta bifamiliare sul litorale toscano, che emanava un profumo antico. Il nonno era falegname, ristoratore, inventore e pittore: un uomo dalle mille risorse. La nonna, una donna paziente e gentile, era sarta e confezionava confetti per i matrimoni. Entrambi erano sopravvissuti alla guerra e avevano contribuito a ricostruire il paese con fatica e sudore.

Luca salì le scale di graniglia e, arrivato nel corridoio buio del secondo piano, notò vicino alla cornetta del telefono, sul mobiletto, il disegno che aveva realizzato l’ultima volta che era stato lì in vacanza. Era tra quelle mura che aveva perfezionato il suo italiano, immerso tra pinete e castagnaccio.

Prese la piccola cornice dorata in cui era stato inserito il suo disegno. Si distinguevano chiaramente gli occhi della nonna, di colore diverso: uno verde, l’altro marrone. Sopra, appeso al muro bianco, c’era un quadro che Luca aveva sempre interpretato come un animale fantastico: una strana figura rosa avvolta in un fondo nero.

Ma in quel momento, un evento straordinario accadde: la sua percezione del mondo si ribaltò. Per la prima volta, si rese conto che il quadro non raffigurava un animale magico ma una rosa e i suoi petali. Per anni aveva creduto che il nonno avesse dipinto una creatura fantastica, avvolta nelle tenebre e sorridente come la Gioconda, ma in realtà era solo una rosa, ordinaria e splendida.

Spesso, caro lettore, la forma delle cose inganna gli occhi di chi osserva. Ed è solo quando il caos si fa ordine che finalmente emerge la verità, e si è un passo più vicini alla pace.

«Ho preparato le lasagne, sei contento?» chiese il nonno a Luca, dando un colpetto al divano scamosciato del salone. «Siediti, devo dirti una cosa.»

Luca, ragazzo tanto intelligente quanto educato, ebbe la premura di spegnere il suo Game Boy, non solo per rispetto verso il nonno ma anche perché le batterie stavano esaurendosi e non poteva permettersi di rimanere senza. Così, ascoltò.

Il nonno parlò piano, con calore e accento toscano: «Devi essere buono con la nonna. Ha avuto un’operazione, le hanno tolto il seno. Non è una cosa facile per una donna, sai?». Questo era il nonno, un uomo d’altri tempi, sì, ma sensibile e moderno, sempre attento agli altri.

La mattina seguente, Luca e i suoi genitori ripresero la macchina. Si sarebbero rivisti a Natale, tra regali e presepi, durante una cena luculliana a base di pane sciocco, crostini ai funghi, lasagne, agnello con patate, tiramisù, caffè e ammazzacaffè.

Si sarebbero rivisti, caro lettore, se non fossi stato costretto a far succedere quello che successe.

***

L’autostrada era deserta, in quel giorno di Ferragosto, quando in Italia le strade rimangono spesso vuote.

«Manca poco», commentò Alberto, innestando la quinta. «Siamo quasi arrivati.» E, accendendo la freccia destra, si diresse verso Anagni.

Luca non notò il cartello blu con scritta bianca, era troppo immerso nel suo Game Boy, doveva finire prima che la spia rossa della batteria si spegnesse definitivamente. Sapeva che Tetris aveva una fine e, sebbene non conoscesse nessuno che fosse riuscito a raggiungerla, sperava di essere lui quello fortunato.

La spia del Game Boy si spense e Luca alzò gli occhi. Il sole picchiava sulla terra brulla delle verdi colline ciociare mentre la Citroën giallo ocra entrava nel viale alberato che conduceva ad Anagni.

Erano le 12:23 di giovedì 15 agosto 1995 quando Luca Colonna, finalmente, arrivò nella sua nuova città.

Come sviluppare la creatività?

Sono un creativo e mi piace immaginare. A volte, mi viene chiesto: «Ma come ti è venuta in mente quest'idea?» e non so rispondere. Non conosco le dinamiche che mi portano all'ideazione. È difficile anche tracciarle, poiché ritengo che l'idea sia semplicemente la manifestazione esteriore di un movimento interiore, che include molti aspetti della persona: la sua formazione, i suoi desideri, la sua indole, ma anche il momento, il meteo, l'ora, lo stato emotivo. In sintesi, la creatività è un fenomeno complesso, che non può essere affrontato come una singola disciplina, ma piuttosto come una dimensione multidisciplinare. Ed è così che voglio affrontarla oggi, cercando di capire i meccanismi che portano all'idea.

Prima di tutto, vi è la persona: l'io, la mente. Questo insieme magmatico di paure, desideri, formazione. Le voci esteriori, come quelle dei nostri genitori, dei nostri amici, della società. Questa persona non è solo mente, ma anche emozione: il battito cardiaco, la respirazione, la voce. Sensazioni di abbandono, di felicità. Tutto lo spettro delle nostre emozioni veicola, all'io, una prospettiva unica sul proprio bagaglio interiore.

Poi, oltre l'io e le emozioni, c'è il corpo: la fisiologia. Stiamo correndo, camminando, digerendo; abbiamo nicotina, caffeina, sonno, appena svegliati. La nostra biologia, i nostri muscoli, quanto sono allenati, la nostra schiena, quanto è diritta. Ma anche se vediamo bene. Io, per esempio, sono miope, e questo mi limita tantissimo nella percezione del mondo. Senza occhiali, vivo in una bolla sfuocata. (Per chi volesse saperlo, mi mancano 5.25 e 5.75, che, diciamolo, mi mette di fatto tra le talpe del mondo.)

Ma questa mente, piena di emozioni in un corpo vivo, vive nel mondo. E qui entrano le dinamiche esterne. C'è la luce del sole, il pallore della luna. La musica di Chopin o il traffico cittadino. Fa freddo, fa caldo.

Ora vi svelo un segreto: le idee, secondo me, stanno nel numeno. E se tutte queste variabili, che ho elencato, sono tarate al punto giusto, in equilibrio tra loro, allora, a volte, entriamo in contatto con il regno delle idee, il numeno. Per chi non sapesse cos'è il numeno: Il numen, nella sua origine romana, rappresentava una forza divina o presenza spirituale che permeava il mondo naturale, guidando e influenzando la vita quotidiana attraverso entità o aspetti sacri della realtà. Questo concetto, trasposto nella filosofia moderna, trova un parallelo nella nozione kantiana di "noumenon" o "cosa in sé", che si riferisce alla realtà ultima che sta al di là della percezione umana e delle esperienze sensoriali. Cioè qualcosa che non possiamo conoscere.

Come fare, quindi, a ottenere questo allineamento? Metodo e disciplina. Cibarsi con cibi sani, sia per l'anima che per il corpo, che del mondo e circondandoci di bellezza, bellezza architettonica, bellezza artistica, musicale. Cercare arricchimento classico e curiosità. Approfondire le sfumature della realtà, infilarsi nelle pieghe del creato alla ricerca di ciò che non conosciamo. Camminare ad occhi aperti, grati dell'esperienza che ci è stata data di vivere questa Divina Avventura che è la vita.

Alla prossima pagina.

L'uomo divino

Vi è una teoria affascinante riguardo a Michelangelo e la Cappella Sistina, un'immagine che mi ha sconvolto quando l'ho vista: il divino come coscienza, come voce interiore.

La Creazione di Adamo, uno degli affreschi della Cappella Sistina, fu realizzata da Michelangelo tra il 1508 e il 1512. È una delle opere più celebri al mondo, realizzata nel cuore del Vaticano, luogo di genesi della religione cattolica.

Un giorno, bazzicando per i forum per studiare un suo contemporaneo, Raffaello, che ho interpretato in Raffaello, principe delle arti, mi sono imbattuto in un'immagine che mi ha scosso profondamente. Se siete su Spotify, vi invito a vederla sul sito, poiché descriverla è davvero complesso, ma ci proverò.

Come sapete, nell'affresco, Michelangelo dipinge il momento precedente al tocco divino che ha dato ad Adamo la vita. Infatti, se guardate lo sguardo dell'uomo, è inespressivo, privo di vita. Il suo dito è piegato verso il basso, come se non fosse mosso da un'energia propria. Sopra, nel cielo, la figura di un uomo barbuto, circondato da putti e angeli, avvolti in una grande cappa rossa, si avvicina. È Dio, che sta per dare la scintilla della vita all'uomo.

Ma quello che mi ha letteralmente lasciato a bocca aperta è ciò che l'immagine mostrava accanto: una sezione del cervello umano che, se sovrapposta alla grande cappa divina, sembra essere identica.

Michelangelo, si sa, come Leonardo e gli altri del Rinascimento, amava dissezionare corpi e cadaveri per studiare le anatomie. Questa somiglianza, a mio avviso, è difficilmente casuale. Un artista del suo calibro non faceva nulla a caso. Ogni dettaglio, persino un dito, era pensato. Figuriamoci la raffigurazione di Dio nel cuore della Santa Sede.

E quindi, cosa significa? Cosa voleva dire Michelangelo con questo affresco?

Le interpretazioni le lascio a voi. Quello che conta, in questo caso, è l'incredibile potenza di un messaggio che ha letteralmente superato il tempo. Siamo una società evoluta, in cui la sezione del cervello è riconoscibile quasi da tutti. E quindi, ci è più semplice vedere ciò che l'artista ha creato. All'epoca, erano in pochi a sapere come fosse fatto un cervello. In pochissimi. Si può quindi supporre che il messaggio fosse, in un certo senso, segreto.

Vi ricordate quando vi parlai dell'artista che supera il tempo perché la sua genialità emerge solo nel momento in cui gli occhi degli uomini sono capaci di intuirla? Ecco, per me questo è un esempio chiaro.

Sono curioso di sapere le vostre interpretazioni, vi aspetto nei commenti.

Alla prossima pagina.

Aiutami a scegliere

Ho finito di registrare l'intero audiolibro del primo volume della Saga dell'Anello di Saturno. Dare voce ai personaggi, alle descrizioni, agli eventi, integrare la mia arte di attore con quella di scrittore, penso sia davvero il culmine della mia creatività. Lo ammetto: mi sono divertito tantissimo. Ho cercato di regalare, a chi deciderà di ascoltarlo nella sua interezza, un'esperienza immersiva da vero contastorie.

Ho scritto questa storia senza pensare di narrarla ad alta voce, ma per raccontare un pezzo di me e poi volare con la fantasia. Come scoprirete, la storia parte da una base vera, reale, tangibile: la storia di un ragazzo strappato dalle sue radici che arriva in un borgo sconosciuto. Un ragazzo sensibile, introverso, amante dei videogiochi, un po' francese… insomma, parto da ciò che conosco. Ma poi, man mano che la storia diventa veramente "storia" e il mondo fantastico che mi sono immaginato prende forma, i personaggi hanno cominciato a parlare con la loro voce, a pensare con la loro testa e allora è subentrato Flavio, lo scrittore, che ha cominciato a dirigere l'orchestra delle verità che Flavio, la persona, aveva deciso di donare come "pezzo di carne" per iniziare.

E ora, arriva Flavio, l'attore, che incarna i personaggi, che dà loro voce, che li rende reali. Che emozione! Ogni personaggio è un frammento di me, un pezzo di ricordo, di desiderio, di sogno. Poter aggiungere le sfumature della mia umanità all'interno della storia è davvero un piacere inaudito.

Ho deciso di farne un audiolibro per mio papà, che non ci vede più molto bene e per cui la lettura di un libro è diventata difficoltosa. Ecco, dunque, il mio modo per condividere quest'arte con lui, per dargli la possibilità di scoprire questo lato di me. E di rimando, lo sarà anche per voi. L'audiolibro rappresenta un modo nuovo di scoprire la lettura, che sia in macchina, mentre si cucina o prima di addormentarsi, a luci spente. Per questo motivo, ho puntato molto sull'immersività, perché sento che sia un modo antico, si potrebbe dire addirittura originale, di raccontare una storia, che supera anche la barriera della lettura. Spero di avvicinare molti ai libri in questo modo.

L'ho fatto con tutto l'amore del mondo, come cerco di fare ogni cosa. È un processo indipendente, in cui ho potuto controllare ogni aspetto creativo e imprimere la mia firma sull'intero progetto. Spero che sarà all'altezza di tutto il resto.

Il Volume Primo dell'Anello di Saturno è lungo 274 pagine e l'audiolibro durerà 6 ore e 40 minuti. Registrarlo è stata un'esperienza intensa, durante la quale spesso mi sono ritrovato senza saliva, ma, come ho già detto, è stata un'attività che mi ha divertito enormemente. Ritengo che narrare le storie che scrivo sia veramente un modo per unire i puntini, per offrire una visione completa della mia umanità, sia interiore che esteriore.

Ho deciso di condividere con tutti voi, che seguite il Diario d'Artista, tre campioni dell'audiolibro, seguiti da un sondaggio. Se ascoltate da Spotify, dovete venire sul sito per ascoltarli e per votare (flavioparenti.com). Potreste aiutarmi a scegliere quale campione vi piace di più e quale vi suscita maggiore desiderio di ascoltare l'intera storia. Il vincitore sarà il campione che utilizzerò come presentazione del libro su internet.

Il biglietto da visita per chi dovrà scoprire questa nuova storia…

Alla prossima pagina!


Sulla strada in tempesta

Il primo incontro

La sigaretta e l'amore


Fragile

Ho il cuore a fior di pelle
Congelato dal timore
Di sciogliersi
Con un soffio di voce tua.
Ho gli istinti che premono
Come Icaro il sole
Piume di desiderio
Cera fragile
Che si scioglie
Al tuo pensiero.

Una giornata particolare

Oggi non ho voglia di scrivere, non ho voglia di parlare. Ci sono giorni in cui il silenzio è il miglior amico del pensiero. Ma poi, ripenso ad Eminem, che ogni giorno scrive chilometri di testo. E alla domanda "Ma poi cosa fai con tutti questi brani?" lui risponde "Questi non andranno mai in registrazione, questi li scrivo per non perdere la penna."

Non perdere la penna. Mi piace come espressione, non voglio perderla nemmeno io. E poi, questo spazio è anche un luogo dove, attraverso la scrittura, scavo dentro di me, mi cerco, provo persino a parlarmi, a chiedermi come sto.

La vita è complessa, più si va avanti e più i pezzi in gioco sono tanti, e ogni scelta diventa una ragnatela di conseguenze che sembrano andare aldilà della nostra capacità di comprensione. E quindi come fare? Come agire? D'istinto? Oppure scrivendo tutto su un pezzo di carta e poi rileggersi per capire dove siamo?

Non lo so.

Una cosa che mi aiuta, quando sono perso, è proprio questo scrivere. Questo dedicarmi a qualcosa che produco, che realizzo e che poi vi regalo. É un piccolo obiettivo, un mattoncino in quello che poi, un giorno, sarà la raccolta di un mio periodo.

Mio padre, un giorno, mi disse che il segreto della felicità è riuscire a fare una cosa al giorno. Farla, finirla. Io per quello che riguarda i miei obiettivi, che siano quotidiani o a lungo termine, uso una applicazione che si chiama "ToDo". Ho suddiviso i miei obiettivi in varie categorie. Ci sono le attività da fare a breve, e poi ci sono i miei progetti, il diario d'artista, l'Anello di Saturno, il paradiso delle signore, e poi ci sono categorie selvagge, come "idee di scrittura" oppure "libri e film da guardare e leggere".

Ne ho anche una che è "La casa perfetta" in cui metto ogni cosa/idea che trovo e che mi ispira per una casa dei sogni. Dentro ci sono cose assurde come "un pianoforte a coda che suona da solo in salone" oppure "Accanto ad un mercato" e molte altre chicche che disegnano una parte di sogno che un giorno, chissà, forse realizzerò.

La settimana è stata complessa, ho girato il paradiso delle signore, poche scene, il mio personaggio, Tancredi di Sant'Erasmo, attraversa, in questo momento di set (che è traslato di circa tre mesi con la messa in onda) una fase simile a quella che sto vivendo io: è in una bolla, in attesa di.

Ho scritto molto, sono arrivato quasi alla fine del terzo volume dell'Anello di Saturno. Il primo volume è addirittura pronto per la stampa. Voglio arrivare a giugno che tutto è pronto per voi. Ho scelto di pubblicare i cinque volumi a tre mesi di distanza. Ascoltando le vostre risposte, mi è sembrato un buon compromesso tra attesa e desiderio.

E poi c'è la mia vita, quella semplice, fatta di Elettra, di famiglia, di portarla a scuola, vederla crescere ogni giorno. I suoi pensieri sono sempre più raffinati, la sua proprietà di linguaggio anche. Ha un entusiasmo che le invidio, e che, lo ammetto, mi contagia.

Che fortuna averla vicino.

A volte ha anche delle idee bellissime, e quando le racconto delle storie, me ne suggerisce delle migliori. Vorrei essere di più con lei, essere più capace di dedicarle il mio tempo. Ma poi ecco che ricasco nel mio desiderio di produrre, che fagocita tutto. E non riesco a fermarmi, non riesco ad abbandonare questo fuoco.

Per fortuna, il mio lavoro ha anche molte bolle di tempo libero, e penso di essere un padre presente, seppur folle, che le trasmette questa sua passione per l'espressione, per il gioco, le storie, la magia.

Cosicché un giorno, come un "eco genetico", sarò vivo nella sua voce, oltre che nel suo cuore.

Ecco, poi emoziono troppo.

Alla prossima pagina.

Il desiderio dei desideri

Quanto proiettiamo i nostri desideri in ciò che ci circonda? A volte penso che molti dei significati che noi diamo alla vita, siano in realtà dei desideri reconditi, un modo quasi infantile di plasmare la realtà secondo il nostro volere.

Vi è una certa ingenuità in questo processo mentale, ma anche una fonte inesauribile di poesia. Cosa sarebbe il mondo, se non avessimo gli occhi per vederlo, se la nostra imperfezione non facesse, appunto, di questa realtà, qualcosa di magico, di imperfetto.

In realtà, è un punto cruciale del concetto di "magico". Magico è ciò che non può essere spiegato con la conoscenza che si ha in quel momento. Magico è ciò che la nostra imperfezione (sia cognitiva che fisica) proietta sul mondo.

Io sono miope, ci vedo molto male da lontano, e quindi porto gli occhiali. Questo mio essere imperfetto, mi ha costretto molte volte a fare uso di altri strumenti per compensare, uno tra tutti l’immaginazione. Io non vedo i tratti di una persona da lontano, devo riconoscerlo per altri suoi “tratti”, magari non facciali, ma corporali, la postura, la schiena, le proporzioni, oppure la voce.

Ma tornando alla magia, l’amore non è forse questo? Occhi imperfetti che accettano la perfezione in colui che ha la fortuna di essere amato? Molti amori però sfumano quando la vista si acuisce, quando ci avviciniamo, quando riusciamo a vedere i tratti più fini, quelli celati, i difetti, le qualità inespresse, quelle cose che ci ricordano magari, qualcun altro...

Ma a volte – è un caso più unico che raro, lo ammetto – a volte due anime si incontrano, e più si guardano, più si conoscono, più si avvicinano e più si amano. È una magia ancor più potente delle altre, quasi mistica, divina. Qualcosa di così perfetto che supera persino la crescita, la consapevolezza. É come la natura. Avete mai guardato una foglia? È perfetta. A qualsiasi livello la si guardi, i suoi disegni sono organici, ogni cosa è a suo posto, è funzionale, ma è anche bella. È la vita. Ecco, l’amore più potente somiglia proprio a questo, è vivo, è necessario, e pulsa nel cuore di coloro che unisce.

Ed è di questo amore che parlerò ne “l’Anello di Saturno”. Un amore eterno, che va oltre gli uomini, persino oltre gli Dei e oltre il destino.

Devo ammettere che ero indeciso all’inizio se affrontare un tema così delicato e soprattutto trito e ritrito come l’amore, ma – proprio come la foglia – più lo affronto e più sento che vi è uno spazio enorme nel quale giocare. Un campo che va al di là dei miei confini, che non mi stufa e non mi sazia.

Ora capisco perché centinaia di poeti prima di me lo hanno esplorato in largo e in lungo, perché è inesplorabile, e nulla è più magico di ciò che non finisce mai.

Alla prossima pagina

Un violento desiderio di rivalsa

Ho una teoria sull'artista, piuttosto complessa e alquanto contrastante.

Ho la sensazione che uno dei motori dell'artista, in generale, sia il desiderio sfrenato di essere amato. Un desiderio che penso nasca in età giovanile.

Spesso, lo si può vedere dalle biografie, gli artisti sono persone difficili, con passati turbolenti e anime fragili, complesse. Non penso sia una coincidenza.

Nel mio caso, credo di essere stato spinto da un desiderio di rivalsa, come di una lotta perenne con il mondo che mi circondava, con tutto ciò che pensavo potessero pensare gli altri. "Ce la farò" sembrava dire il mio costante produrre. "Nonostante tutto, nonostante so che pensate che non ce la farò, che non è possibile, che è da folli."

Ma perché? Come mai questa spinta?

Se dovessi fare un'analisi del mio passato, direi che proviene da una commistione di eventi e sensazioni. In parte viene da quell'essere cresciuto in una bolla dove cambiavo scuola e paesi, ma non può essere solo questo. Da giovane ero piuttosto effeminato, sia nelle movenze che nei tratti, almeno secondo gli standard maschili dell'epoca. E mi chiamavano "Frou Frou" e ricordo che subivo - per questo motivo - quello che ora chiamano bullismo. Non era bullismo scolastico, ma vacanziero. I miei genitori andavano sempre nello stesso villaggio ligure per le vacanze, e lì ho subito per molti anni, per molti mesi, questa forma di violenza.

Penso che sia questo che abbia alimentato il mio desiderio di rivalsa.

Ogni volta che facevo un film famoso, che diventavo protagonista di una serie conosciuta, c'era qualcosa in me che diceva "Ecco, ora quelli lì vedranno che non sono così come mi dipingevano, che sono bravo, che ce l'ho fatta". Ovviamente, non fui mai del tutto dissetato, perché per quanti successi avessi, quella non è una strada che porta alla vera sazietà, a un momento in cui si può dire "basta, ecco, sono contento".

Un altro fatto che ha alimentato il mio perseguire l'arte è quella sensazione di non essere all'altezza, quella sindrome dell'impostore che mi accompagna. Anche lei ha lati positivi e a volte, mi ha spinto a migliorarmi, a cercare angoli bui dove fare quello che gli altri non avevano mai provato a fare.

Ma ora? Ora che sono grande, non ho più bisogno di tutto questo. É come se tutti questi motori fossero diventati antiche zavorre, che sono ancora lì solo perché una parte di me non li vuole lasciarle andare, perché quella parte di me ha paura che senza quelle zavorre, non rimanga molto.

Ora però sento che è venuto il momento di accettare che non sono più quel ragazzino fragile che non sapeva bene con quale postura affrontare il mondo. Sempre ingobbito, dalla voce acuta, incerto su sé stesso e alla ricerca del consenso. Sento che è venuto il momento di affrontare la mia maturazione, sia come uomo che come artista.

É facile dirlo ora che sto lavorando come attore, che so che ho una base economica stabile che mi permette appunto di ragionare in questi termini. Ma nel momento in cui questa base venisse a mancare? Sarei davvero così spavaldo nei miei intenti? Riuscirei a mantenere la sicurezza necessaria per lasciare segni tangibili, coerenti e forti come artista?

Non ne sono sicuro.

Ecco... scrivendo mi rendo conto che la sicurezza nell'arte non è solo un motore che permette di investire nella propria arte, ma è anche una condizione di partenza per una fase più matura. Ho fatto le mie scelte, ho scelto di fare il paradiso delle signore proprio per avere una base economica solida per poter scrivere i miei prossimi libri con tranquillità.

Un lusso. A volte mi chiedo se la comodità non sia in realtà un velato handicap. Se la mancanza di difficoltà circostanti non renda l'arte prodotta troppo "morbida" e poco incisiva, non so se mi spiego...

Ho cominciato questa pagina con la premessa che forse l'arte nasce dal disagio, e che poi si sviluppa come uno strumento del desiderio per essere amato, ma quando l'artista raggiunge la maturazione, che sia economica o spirituale, allora la sua arte che cosa diventa? Qual è il suo posto in questa nuova esistenza?

E poi, esiste davvero una "fase matura dell'artista", oppure è solo un'illusione per ignorare che il tempo passa, e che i migliori anni - forse - sono dietro di noi?

Alla prossima pagina

Il freddo cuore delle macchine

Nell'articolo precedente ho parlato del mio lato nerd, e di come mi abbia portato alla "periferia degli altri."

Ma ci sono, come sempre, molti risvolti. Molti lati ai difetti, che poi, in fondo, sono qualità inespresse.

Parecchio di quello che ho fatto finora, da un punto di vista creativo, viene da questo mio desiderio di unire la cultura della tecnologia con quella della narrazione. Il mio percorso verso raccontare le storie è fortemente permeato dal mio lato nerd. Ma non solo, anche il modo in cui approccio l'aspetto programmatico del self publishing deriva da questo modo di pensare. Mi piace automatizzare, mi piace delegare i compiti banali alla macchina, così da ritagliarmi il tempo di tuffarmi nella creatività pura, nel flusso di coscienza, in cui mi perdo e mi ritrovo.

Penso che l'unione di questi due aspetti, nerd e narratore, sia forse quello che più caratterizza non solo la poetica dei mei racconti, ma anche la loro forma. Io scrivo su internet, queste pagine sono quello che alcuni potrebbero definire una "Nerdata".

"Il diario d'artista" appare in varie forme in base a dove viene fruito. Via e-mail è testuale, sul mio sito è un'unione di testo e voce, su Instagram è un video con i sottotitoli, su Spotify è un podcast audio. Ho organizzato tutto in modo da non dover ogni volta fare i post su Sito, Facebook, Instagram, Spotify, e-mail, twitter (x) perché sennò non riuscire a fare altro. Quindi, ho sviluppato dei processi di automazione. Io scrivo l'articolo sul sito, e il resto "si fa da sé" con un po' di programmazione. Niente di più nerd.

Senza tediarvi nei processi di automazione che esploro per poter fare di più facendo di meno, posso dirvi che le possibilità sono davvero illimitate per chi ha creatività e voglia di tuffarsi. Sarò felice, se vi interessa, di scrivere una pagina più "tecnica" dove espongo alcuni degli strumenti e piattaforme che uso per comunicare la mia arte.

Spesso vengo attraversato da una paura, quella di vedere il "tocco umano" sfumare via. Chi ha letto la Divina Avventura penso lo abbia percepito. Ho paura della digitalizzazione delle anime. Mi sembra che la società stia prendendo una deriva transumanista eccessiva, in cui la mente la fa da padrona, in cui il corpo e le sue necessità primordiali sono viste come un tabù, come una cosa da evitare, e in cui l'anima viene relegata ad un'equazione.

Chi ha letto libro sa che io non la penso così, nutro un grande amore per la vita, per l'ignoto. E attraverso le parole di Overton, sono io che parlo, che urlo ai ragazzi di fuggire da quelle torri nere, di partire alla scoperta dell'orizzonte. Ma sono anche Kato, con i miei dubbi, il mio tragico scoprire che ciò in cui credo non è sempre vero, e la mia natura umana, fragile, e soprattutto, effimera.

Insomma, gli algoritmi di intelligenza artificiale sembrano poter sostituire l'artista. Fanno paura, è indubbio. Ma se prendiamo per buono il concetto di artista che esprimo nella piccola favola di Hu-Ga, non penso che le macchine potranno mai essere artiste. L'artista va alla scoperta di ciò che non conosce, mentre gli algoritmi creano in base a ciò che funziona, a ciò che sappiamo che esiste. L'immaginazione è uno strumento molto più potente, poiché permette di far esistere ciò che prima non esisteva. É l'unico nostro atto davvero creativo e non demiurgico.

Davanti ad un mondo in cui, quando accendo la tv, vedo standing ovations per l'ennesima ripetizione di ciò che è stato visto, rivisto e stravisto. Davanti ad un mondo dove coloro che pensano fuori dal coro sono censurati, cancellati, dimenticati. Davanti ad un mondo che elegge l'algoritmo alla quintessenza della creazione, la mia risposta è che no, la vita non è questo.

La vita è una Divina Avventura, è misteriosa, è ignota, e non sarà mai completa.

Alla prossima pagina

Scrivo, recito, vivo

Finalmente sono tornato a pieno regime. Giro il Paradiso delle signore, scrivo la saga, seguo le vendite della Divina Avventura, e vivo la vita.

In questi mesi intensi che hanno prima preceduto il lancio del libro e poi i mesi a seguire, ho imparato tanto. C'è una qualità, nel fare ciò che si desidera, che nessun libro può insegnare. L'esperienza empirica. Il comprendere i nessi tra situazioni e opportunità che a colpo d'occhio sembrano slegate, e invece sono connesse.

Per esempio, ho scoperto che andando "da solo" mi sono precluso la possibilità di fare firma copie del libro e di uscire in libreria. É qualcosa che già sapevo e avevo fatto i conti con questo. Ma poi, vuoi per caso, vuoi per destino, vuoi per fortuna che, come dice Seneca, "è il talento che incontra l'opportunità" ho incontrato un'opportunità, appunto, che ho colto al balzo.

Un'opportunità che mi darà la possibilità di fare tutto quello che non ho fatto finora, senza dover rinunciare al lavoro fatto fino ad adesso. Più avanti vi informerò.

In questi giorni ho scritto il primo lungo capitolo del secondo volume della saga. Pagine strazianti, difficili, che mi prosciugavano mentre le scrivevo. É un'esperienza nuova scrivere una storia in volumi. Perchè quando scrivi un volume singolo, ti poni davanti alla responsabilità di "quando cominciare", ti devi chiedere in quale momento la storia inizia davvero, per evitare di raccontare fatti che non sono inerenti al grande disegno che hai in mente.

Ma quando scrivi in volumi, è diverso. Il secondo volume non può che continuare li dove il primo si è concluso. Ma come vi ho detto, questa storia non è solo una storia d'amore, ma di tempo e di destino. E quindi, anche se il secondo volume continua "lì dove il primo si è concluso", comincia 16 anni dopo. Non preoccupatevi, capirete tutto quando lo leggerete.

Mi chiedono spesso "ma quando riesci a scrivere con tutto quello che fai?". É una domanda complessa, nel senso che ci sono mille modalità di scrittura. C'è la prima fase, cioè lo scrivere "la storia", la struttura. É una fase lunga e cogitativa, che avviene perlopiù tra le fibre dei miei neuroni. Una fase in cui nomi, luoghi, eventi, sono fluidi, indistinti, in cui sono alla ricerca del tema, delle domande, dei miei desideri. Il momento in cui le idee mi vengono in mente e in cui, paradossalmente, non scrivo, proprio per permettere alla mia mente di maturare, di produrre con libertà. Questo lo faccio sostanzialmente sempre, ovunque, persino nel sonno.

Poi, strutturata la storia, passo alla fase creativa. Una fase in cui scrivo letteralmente le scene. In cui piano piano la storia prende corpo e da favola che era, diventa qualcosa di tangibile, in carne ossa, mura e meteo. Questa è la fase più difficile per me, perchè richiede almeno un paio di ore di solitudine, nel quale posso immergermi nella mia fantasia, e creare di tutto punto qualcosa di interessante. Una fase che somiglia alla recitazione, in un certo senso.

Provo a creare ogni giorno, ma purtroppo non riesco, poiché non è facile, considerando la mia fitta agenda, infilare 2 ore di buco di fila. Ma faccio di tutto per farlo e rinuncio a molte altre cose.

Infine, c'è l'editing, il pulire e limare la prosa. Individuare le incoerenze, aggiungere piccoli dettagli, trovare il tono e la voce del narratore e fare in modo che tutto sia consistente su tutta la durata del testo. Spesso faccio questo lavoro nel pomeriggio, tra un momento e l'altro. Il bello di questa fase è che può essere fatta a piccoli blocchi, perchè sono già stati scritti.

Spesso, durante una scena di buco sul set, dopo che ho cambiato costume, mi siedo alla mia scrivania del camerino, e mi immergo, per quanto possibile, nel mondo che sto immaginando.

Mi piacerebbe un giorno dedicarmi esclusivamente alla scrittura, avere uno studio personale, un luogo dove coltivare la mia immaginazione, con libri, legno e il mio fedele computer.

Sono convinto che arriverà.

Alla prossima pagina.

Scrittura e Recitazione

Ho ricominciato a girare "Il paradiso delle signore". É incredibile come recitare mi influenzi l'immaginazione.

Spesso mi rendo conto che a forza di frequentare un personaggio, ne assorbo i desideri, le paure, che poi si riflettono sulla mia scrittura. Tancredi in questo periodo di Set sta vivendo delle esperienze molto forti, potenti, che rimettono in discussione tutta la sua vita. E vuoi per osmosi, vuoi per sensibilità, io faccio lo stesso con i personaggi che scrivo.  A volte mi capita addirittura di creare situazioni simili a quelle che ho affrontato sul set, come per proiettare altrove quello che ho vissuto "davvero". 

Questo comunicare di arti che passa dal mio corpo alla mia mente, al mio cuore, è una vera fortuna. 

Sto scrivendo assiduamente. Mi sto occupando della stesura di ciò che deve accadere in ogni volume della saga. Il primo volume è completo, il secondo volume era già chiaro, quindi facile. Gli altri tre hanno invece richiesto molta immaginazione per essere completati in modo da continuare a portare avanti la fiaccola dell'interesse. Sarà un esercizio di destrezza narrativa non indifferente, ma sono fiducioso, perchè mi sto divertendo un sacco a creare colpi di scena. E questo è un buon segno.

Nella saga dell'Anello di Saturno, il destino sarà al centro della poetica, una voce importante. Ovviamente, quando si affrontano le tessiture del fato, non si può non prendere in considerazione il libero arbitrio. Le scelte.

A volte, mentre sto per strada e cammino con le mie cuffie attraverso il flusso di persone che mi viene contro, mi chiedo come sia possibile che esistano così tante realtà tutte l'una vicina all'altra. L'umanità sembra un organismo multidimensionale, dove ognuno di noi ha desideri, paure, obiettivi, amici, parenti, storie e ambizioni diverse.

Eppure, siamo tutti collegati dalle scelte che facciamo quotidianamente. Il famoso "libero arbitrio".

Ma se dovessimo risalire alle origini di tutto - "La catena della colpa" come le chiama Kato - potremmo davvero parlare di libero arbitrio? Io non ho scelto il mio nome, nemmeno dove nascere, in che tempo vivere, in che corpo essere. Queste sono variabili che influenzano enormemente il nostro futuro.

Per esempio, nutro dubbi sul fatto che se non fossi cresciuto un bel ragazzo avrei fatto l'attore... Forse la vita mi avrebbe portato verso altri orizzonti. Forse mi sarei messo a scrivere subito. Oppure avrei studiato alla Bocconi. Oppure, oppure oppure… Non c'è fine all'immaginazione.

Sta di fatto che noi siamo il prodotto delle nostre scelte, ma anche di quelle degli altri. I miei personaggi, nella saga - ma anche nella Divina Avventura - sono spesso messi davanti a scelte critiche, cioè scelte che non permettono di tornare indietro. Trovo che siano determinanti per una buona storia. Poiché in quelle scelte si forgia e si definisce il carattere dei personaggi: Nelle azioni che conseguono.

Io credo più nell'azione che nella parola. Alla fine, i fatti parlano chiaro.

I due protagonisti dell'Anello di Saturno, che all'inizio sono poco più che adolescenti - giovani adulti come direbbero i professionisti - faranno scelte, vuoi per volontà, vuoi per destino. E queste scelte, ognuna di queste scelte, come il battito di una farfalla, avrà nel tempo degli effetti deflagranti.

E date che mi piace giocare con la magia, persino il destino sarà coinvolto...

Amore e Destino, due entità opposte che nella saga si dovranno scontrare, incontrare, conoscere, e chissà forse amare.

Alla prossima pagina

La Formula dei "Cinque Movimenti"

Ho iniziato a scrivere quando ero bambino. Ricordo che, verso i dieci anni, avevo creato il mio primo fumetto. Ero un grande fan dei fumetti della Bonelli, e il mio fumetto era vagamente ispirato a Conan il Barbaro, raccontando la storia di un ragazzo preistorico che cacciava e si tuffava nei laghi. Non avevo ancora alcuna vera competenza nella narrazione, ma sentivo l'irresistibile bisogno di esprimere la mia fantasia.

In seguito, durante gli anni di collegio, ho composto poesie d'amore per le donne di cui mi innamoravo. Ricordo una poesia che avevo ornato con un cerino, pronto a essere bruciato in caso di rifiuto. Ho sempre avuto un debole per il dramma.

Il mio amore per la scrittura ha trovato la sua piena espressione quando sono arrivato alla scuola di recitazione. Ho scritto cortometraggi che ho poi diretto, e pezzi teatrali che ho messo in scena al Teatro Stabile di Genova. Tra questi, c'era una commedia sui pirati, intitolata "Rum", che ha ottenuto un discreto successo, portandomi fino alla finale del Premio Dante Capelletti. Ho anche scritto una novella, "La Valle dei Burgher", che forse un giorno renderò disponibile al pubblico.

Il mio percorso di scrittura si è poi arricchito di sceneggiature, produzioni e serie televisive. Mentre scrivevo, come ho già accennato in altri articoli, non smettevo mai di studiare. Credo fermamente che applicare la teoria appresa durante l'apprendimento sia il modo migliore per assimilare e ricordare la conoscenza.

Oggi vorrei condividere con voi una scoperta che ho fatto nel corso del mio viaggio nella scrittura. Si tratta di una "formula", per così dire, che ritengo abbia un valore intrinseco, ma che deve essere utilizzata con intelligenza e sensibilità. La chiamo la "formula dei cinque movimenti". Questi cinque movimenti sono alla base di una composizione narrativa, poiché definiscono il processo di trasformazione del racconto.

Il primo movimento è INTRIGO.

É l'entrata in scena ma non solo. É anche un'ombra non manifesta, ma percepita. Qualcosa di inaspettato ma ancora sepolto. Le luci si abbassano, un po' di fumo arriva sul palcoscenico e il mago entra in scena. Una spettatrice, accompagnata dalla sua famiglia, entra in ritardo nel teatro e si siede in platea.

Il secondo movimento è STUPORE.

Il mago, ora circondato da fumo e giochi di luce, vestito di tutto punto, tira fuori minaccioso una pistola. La pistola in un soffio, si trasforma in una rosa. Il mago chiama sul palcoscenico uno spettatrice. Proprio lei, quella spettatrice di prima, e gli da la rosa che si trasforma in una chiave dorata. Il mago sparisce e riappare ammanettato in una scatola piena d'acqua: Sta affogando.

Il terzo movimento è SUSPENCE.

Una voce narrante parla e dice alla spettatrice: "Con la chiave che hai in mano, puoi salvare il mago oppure…" e appare in scena una scatola con dentro un enorme diamante "…oppure puoi aprire la scatola e prendere il diamante. Sarà tuo. Ha un valore di un milione di euro. Qualsiasi scelta farai, non ci saranno ripercussioni legali. Scegli: salvare il mago o diventare ricca?" La spettatrice vede il mago cha sta affogando. Cosa scegliere? Quel diamante potrebbe risolvermi la vita, pensa. Se davvero è come dicono e non ci saranno conseguenze, diventerebbe ricca. Ma se sceglie il diamante il mago morirà? No, dice,  sicuramente hanno preparato già tutto. Questo è solo uno spettacolo e quel diamante è un pezzo di vetro e basta. Ma se non fosse così? Si volta verso la platea alla ricerca di aiuto ma le luci la accecano. "E poi  cosa penseranno i miei figli? E mio Marito?"

Il quarto movimento è EMOZIONE.

La spettatrice senza esitare apre la scatola con il mago incatenato, l'acqua sembra finalmente scendere. Lo ha salvato. Ma qualcosa non va. Il mago rimane bloccato con le manette e non riesce ad uscire. L'acqua non esce alla velocità giusta. Non riesce a respirare. La spettatrice non sa cosa fare. Ha paura. Urla aiuto. Colpisce la scatola. In platea nessuno capisce se quello che sta succedendo è parte dello spettacolo o no. Dopo alcuni terribili minuti l'acqua finalmente esce del tutto dalla scatola e il mago, senza vita, cade a terra. Silenzio. É morto? La spettatrice si avvicina e in quel momento - proprio mentre tutto sembra essere finito - Il mago sputa l'acqua dai polmoni. É vivo. Applausi.

Il quinto movimento è RIFLESSIONE.

Di ritorno a casa, la spettatrice parla con la sua famiglia in macchina. Cosa avrebbero fatto gli altri? Ha fatto bene a scegliere? Ora deve tornare nella sua casa modesta, al suo lavoro modesto. Niente sogni di gloria, solo una vita modesta. Ma non è così male. Sdraiandosi nel letto accanto al marito, lui le dice, addormentandosi, che ha fatto bene: h a dimostrato ai figli che una vita vale più di un milione di euro. Anche se avrebbero fatto comodo. E si mette a russare. 

La spettatrice sorride, e si addormenta.

Alla prossima pagina.

Infinite sfumature di grigio

Questa è la cinquantesima pagina del mio Diario D'artista, che piano piano trova la sua voce e i suoi spettatori. Grazie per esserci.

Da giovane, ricordo che ero più simile ad un rivoluzionario. Mi piaceva andare contro il sistema, contro il pensiero unico. Infatti ero terribile a scuola, un vero piantagrane. Alcuni professori, forse quelli che si rivedevano nel mio essere così bastian contrario, mi prendevano in simpatia. Erano una minoranza, ma me li porto ancora nel cuore. Se non avessi avuto questo approccio così assoluto, così entusiasta, così rivoluzionario appunto, non sarei dove sono ora. La stoltezza del desiderio, che porta a varcare soglie che gli altri neanche immaginano, è pericolosa. Può portare in luoghi bui. Luoghi in cui sono stato per un periodo difficile della mia vita. Ma ne sono uscito, grazie all'amore dei miei genitori, grazie all'affetto di chi ho incontrato, e anche - devo ammetterlo - alla fortuna.

Una frase, nella "Divina Avventura", ha colpito una lettrice:

"Tu esiti sempre, Kato," disse lui con tono accusatorio. "Perché esiti sempre? Le cose nella vita sono chiare. O sono bianche o sono nere. Le sfumature sono solo incertezze mai chiarite."

In questa battuta, vi sono le due visioni del mondo distinte di Kato e Overton. Essi sono ai poli opposti della percezione del mondo. Kato, è a un passo dalla trascendenza, Overton, alla base della sopravvivenza, negli "istinti della materia".

Più cresciamo, più il mondo attorno a noi si tinge di grigio, si potrebbe dire. Ma non perché si rattrista, bensì perché le sfumature si fanno sempre più raffinate, i dettagli sempre più netti. La fotografia di questa vita, che era sfocata in gioventù, sembra, con il passare degli anni, farsi nitida, anche se nel frattempo perdiamo i nostri sensi, diventiamo noi stessi meno nitidi, meno definiti.

La realtà è colma di processi inversi, se ci pensate. Per esempio, si dice che l'universo tenda al caos, per via dell'entropia. È così. E gli esempi sono sotto i nostri occhi, il vetro, per esempio, non può tornare sabbia. Il processo di trasformazione è irreversibile. Eppure noi, la nostra anima, il nostro io, trovano, nel tempo, un equilibrio, una forma ben definita, un ordine.  

Ma c'è qualcosa, nella certezza del colore unico, della sicurezza assoluta, che ci affascina tutti. Ognuno di noi, ad un certo punto, ha ceduto al fascino della risposta facile. "Il mondo è così perché..." "Questa persona si comporta così perché..." "Questo popolo è così perché..." E così via fino alle tenebre dell'anima.

Overton, al momento dell'incontro con Kato, è ancora dominato da questo mostro dicotomico che tutto divide. Bianco e nero, nero e bianco. Ma il ragazzo è anche animato da qualcosa che a Kato ormai manca. La forza della giovinezza che sta, appunto, tra i contrasti netti, nelle scelte coraggiose - o stupide a seconda di chi le valuta. Overton, nel libro, avrà la forza di scegliere quello che Kato, ormai prosciugato dalla vita e dal tempo, non sceglierà.

E voi? Come vedete il mondo? Ci sono milioni di sfumature oppure siete come Overton? Convinti che in fondo il bene e il male esistano, e che tutto ciò che sta tra il bianco e il nero non sia altro che una scusa? Bella domanda...

Vi aspetto nei commenti.

Alla prossima pagina.

La Divina Avventura III

Vagavo per le strade illuminate di Baltica, cercando Luna. Sapevo che a quell’ora non l’avrei trovata a casa, così mi diressi verso la spiaggia. Percorsi la sabbia fine fino a scorgere Luna seduta sulla battigia, intenta a lanciare sassolini in acqua e a fissare la città degli Zero. La città in cui ora viveva anche Argo. Mi sedetti accanto a lei, pronto a condividere quel momento di malinconia. Sopra di noi, le stelle. Nel silenzio, attesi. Attesi finché non la sentii abbastanza serena per parlarle del futuro che speravo potesse essere nostro.

“Non puoi aspettare all’infinito qualcosa che non c’è più” dissi, “È tempo di andare avanti. Argo è uno Zero ora. E gli Zero non tornano a Baltica.”

“Dovresti essere grato che lui sia ancora là” rispose lei senza distogliere lo sguardo dalle luci della città nel mare, “Se io non fossi qui ad aspettarlo, probabilmente sarei già Trascesa in Eden. E tu saresti solo.” Così dicendo, lanciò il sasso che teneva in mano.

Il vento gelido mi sferzò le guance, mentre osservavo la luna che sorgeva dal mare.

“L’unica cosa che mi trattiene qui è la speranza che torni” continuò lei, “So che prima o poi ci rivedremo.”

Il suo amore per Argo era come un pugnale nel mio cuore, così cercai di cambiare argomento: “KS mi è apparso in Eden e mi ha promesso la perfezione.” Mi voltai verso di lei per leggerne il volto. “Vuole che trovi un ragazzo di nome Overton. Oltre le Mura di Baltica. Questo significa che non ci vedremo per un po’ di tempo.” Le presi la mano e dissi: “Diventerò perfetto, finalmente. Potremo Trascendere in Eden, Luna. Insieme. Ti prometto che ti aiuterò a dimenticare Argo.”

Luna si scurì nel sentire questa mia promessa: “Io non voglio dimenticarlo” disse con voce tremante, “Lo amo. Non voglio perdere i ricordi che ho di Argo.” Poi, esitò per un momento, come a valutare cosa significasse davvero avermi accanto per l’eternità. Quindi, con un lampo di decisione, mi fece una proposta: “Kato, se mi prometti di non cercare Overton, ti amerò fino alla tua morte.”

Risposi a quelle parole col silenzio, cercando di elaborare ciò che mi aveva appena detto. Avevo aspettato per tutta la vita quel momento. Perché me lo diceva solo ora? Lei amava Argo, non me. “Perché mi dici questo?” chiesi, ancora sbalordito dalle sue parole.

“Perché so quanto sei determinato nel raggiungere i tuoi obiettivi, Kato. Persino KS ha ceduto alle tue insistenti richieste. Questa tua determinazione mi spaventa. Temo che se Trascendessimo insieme in Eden, con l’eternità dalla tua parte e questa tua ostinazione, potresti davvero riuscire a farmi dimenticare Argo.”

“Quindi, se io rinunciassi alla Trascendenza, mi ameresti per tutta la vita?”

“Sì, lo farò.” disse Luna, annuendo decisa.

“Ma non sarebbe vero amore. Non a queste condizioni.” obiettai, ferito.

Mi strinse le mani per tentare di convincermi: “Kato, guardami. Ti prometto che ti amerò senza mai cedere. Ti accetterò per quello che sei. Rinuncia a partire, rinuncia a questo tuo folle desiderio di farmi dimenticare Argo e io ti amerò. Ti prego.” La sua voce vibrava di emozione.

Mi misi a riflettere; poi, sussurrai: “Se ti chiedessi di dirmi, in questo momento, che non ami Argo, lo faresti?”

Luna fece una pausa e ci pensò, poi scosse timidamente la testa, abbassando gli occhi. “No, non lo farei. Ma posso amarvi entrambi.” Distolse lo sguardo e si voltò verso le luci della città riflesse sul mare nero. Rimanemmo lì, insieme, a perderci nell’oscuro orizzonte, senza nulla da dire. Era chiaro che avrebbe sempre avuto Argo nel cuore. Non c’erano altre soluzioni per me: non ero disposto a condividere il mio amore per Luna. Non mi rimaneva che partire.

“Andrò alla ricerca di Overton, Luna. La tua offerta è generosa. Davvero. Ma non posso accettarla.” Mi rialzai a fatica, sfidando il peso dei miei anni e del mio dolore. “Non mi resta molto tempo e io voglio condividere con te l’eternità.” Notai nuove ombre addensarsi nei suoi occhi già neri. Tentai di consolarla. “Luna, ti prometto che il nostro idillio sarà perfetto.”

Mi fissò con gli occhi lucidi di lacrime: “Tu non sei mai riuscito a vedere nulla, oltre a te stesso. Tu non desideri il mio amore. Tu vuoi che per me non esista nulla all’infuori di te.”

Sordo a quelle parole, risposi asciugandole la lacrima che le scendeva lungo il viso. “Ti prego, non piangere. Vedrai che, con l’eternità davanti a noi, anche tu mi capirai. Ci lasceremo indietro ogni ricordo di questo mondo. Di questo mondo e soprattutto di Argo.”

Mi guardò, esterrefatta, spaventata da questa mia volontà incrollabile. Ci fu un attimo di sospensione nel quale mi fissò muta, colma di ansia per questa mia folle ossessione di conquista. Spezzò il silenzio e se ne andò.

La guardai allontanarsi, convinto che il tempo avrebbe aggiustato tutto.

La Divina Avventura II

Osservavo il firmamento notturno dalla finestra della mia abitazione, assalito dall’angoscia. Era notte e le luci di Baltica risplendevano sulle immacolate superfici bianche delle abitazioni e delle strade. Mi sentivo inquieto, temendo di aver dissipato la mia esistenza. Non riuscivo a restare immobile, vagavo sopra il tappeto della mia stanza vuota. Il pensiero di non poter raggiungere la perfezione mi tormentava. Intorno a me, tutti sembravano degni di indossare quella tunica bianca, emblema di purezza. Tutti tranne me.

Malgrado gli anni trascorsi ad inseguire la perfezione, il grigiore persisteva nella mia anima. Dovevo trovare una soluzione, ma ero perplesso. Pregavo, ma non bastava. Contemplai le abitazioni circostanti, piene di giovani adepti in tuniche bianche. Volsi nuovamente lo sguardo al cielo per sfuggire alla mia invidia, ma l’immensità del manto oscuro mi fece sentire ancor più minuscolo e irrilevante. Era come se tutti i miei sforzi e le mie preghiere non avessero alcun valore.

Cercando la serenità in Eden, chiusi gli occhi.

Il muschio sempreverde accolse le mie ginocchia, mentre l’eterno tramonto illuminava il promontorio. Pregai ancora una volta, ma senza troppe speranze. Troppo spesso avevo fallito, troppe volte avevo atteso che il silenzio si trasformasse in risposta. “KS, ti imploro, ascoltami…” dissi con voce velata. Inaspettatamente, una luce accecante apparve dinanzi a me. Quando i miei occhi si abituarono, scorsi il mio Dio. KS aveva la figura di un uomo slanciato, con lunghi capelli e una tunica talmente brillante da attenuare il crepuscolo. “KS!” esclamai alzandomi. “Sei tu!”

“Sì, Kato, caro amico.” rispose la mia divinità con gentilezza.

“Donami la perfezione!” dissi con passione.

“Kato, non posso elargirla così facilmente” si avvicinò, persuasivo, “Ma ho una prova per te. Per la tua fede.” Una foglia in volo si arrestò nell’aria, sospendendo il tempo e il mio respiro. “Trova un ragazzo di nome Overton. Riportalo a Baltica e rendilo perfetto. Riuscendovi, otterrai ciò che desideri.”

“Ma... uscire da Baltica significa affrontare il rischio di morire.” dissi con timore.

“Fidati della tua fede e accetta questa sfida. Scoprirai di cosa sei realmente capace.”

Avevo il cuore in tumulto e le mani sudate. Mai avevo abbandonato Baltica. Fuori dalle Mura della città si celavano solo insidie e morte. Ma KS mi stava offrendo un’opportunità unica: la certezza di raggiungere la perfezione se avessi superato la sua prova.

“E se decidessi di rifiutare?” chiesi con il fiato corto, percependo la crescente impazienza di KS.

“Se lo facessi, smetterei di ascoltare le tue preghiere” rispose, distogliendo lo sguardo, “perché significherebbe che la tua fede non è abbastanza forte.”

Temevo di parlare per paura di irritarlo, ma dovevo capire se la mia vita, fino a quel momento, avesse avuto un senso. “Per quale motivo, in tutti questi anni, non mi hai mai concesso la perfezione?” chiesi.

“Solo tu puoi rispondere a questa domanda” disse, “Siamo noi stessi la causa dei nostri problemi. Ti sto offrendo la possibilità di dimostrare il tuo valore: porta Overton a Baltica e rendilo perfetto.”

"Come può essere sopravvissuto fuori dalle mura?" chiesi.

"Non lo so" rispose, "Ma se è ancora vivo, sarà difficile renderlo perfetto. La vita, fuori da Baltica, l'avrà reso corrotto e violento."

“Allora perché, mio Dio, dovrei rischiare così tanto per lui?”

“Tutti devono avere la possibilità di migliorarsi, Kato. Anche se si trovano in una situazione difficile, come te. Se non ci riescono, sarà solo per loro colpa.”

Rimasi in silenzio a riflettere. Il vento riprese a soffiare insieme all’impazienza di KS.

“Kato, devi prendere una decisione. Devi capire cosa vuoi veramente.”

“Non lo so, maestro” risposi, sentendomi insicuro, “Ho paura.”

“La fede è abbracciare l’ignoto, Kato. La fede è la fine della paura.” Mi fissò negli occhi, come a valutare la mia devozione. “Vieni, c’è qualcosa che voglio mostrarti.”

Mi condusse in cima al promontorio e insieme osservammo la valle di foreste e laghi. “Questo Eden è il luogo del tuo desiderio” spiegò, “E potrebbe essere tuo per sempre. Ma se morirai imperfetto, lo sai, per te non ci sarà altro che l'oblio.”

“No, io voglio diventare perfetto, io voglio stare qui per sempre!”

“Allora accetta il cambiamento. Diventa il sole di mezzogiorno, ma anche la luna di mezzanotte. Quale migliore occasione per scoprire l’ignoto se non attraverso un viaggio?”

“Hai ragione” risposi deciso, “Partirò alla ricerca di Overton il prima possibile.”

KS sorrise, soddisfatto della mia scelta: “L’ultima volta che la madre di Overton è stata vista, fu sedici anni fa, nel deserto, a ottanta giorni da qui, verso sud. È una pista esile, ma è abbastanza per cominciare.”

“Farò del mio meglio, maestro” dissi, grato. Poi esitai. “Non ci vedremo più a meno che non porti Overton a Baltica, giusto?”

“Esatto” rispose lui, “Buona fortuna, Kato. Ti auguro di trovare ciò che stai cercando.” E poi, così com’era comparso, svanì.

Riaprii gli occhi e mi ritrovai nella stanza. Le stelle brillavano di nuova luce, come se fossero state accese solo in quel momento. KS mi aveva restituito un futuro in cui credere e la speranza di raggiungere la perfezione e vivere per sempre in Eden. Mi sentivo rinato, avevo i sensi affilati e la pelle vibrante. Presi il mio bastone e cominciai a passeggiare nella stanza euforico, seguendo la vetrata circolare. Il rumore dei miei passi riecheggiava nell’ambiente vuoto mentre acceleravo, pensando al futuro, alla mia Trascendenza. E soprattutto a Luna. Dovevo condividere con lei la mia gioia.

Uscii di casa, ansioso di parlarle.

La Divina Avventura I

Senza futuro, la mia mente viaggia solo all’indietro, controcorrente, alla ricerca di una risposta al perché della propria esistenza. Per quale motivo sono qui in questo mondo abbandonato? Come viole che sbocciano, siamo fiori solitari dal profumo inebriante, bellezze delicate dell’esistenza, esperienze effimere che appassiranno alla fine dei loro giorni.

***

Ero in ginocchio in cima al promontorio roccioso che sovrastava una valle lussureggiante, bagnata dall’eterno tramonto. Vicino a me sorgeva la fonte di un ruscello, che irrigava la foresta con fiumi e laghi ambrati. L’orizzonte era cinto da montagne dalle dorsali innevate. Contemplando l’Eden, gustando l’effimera beatitudine sopra un tappeto di morbido muschio, a occhi chiusi e mani giunte, pregavo KS, dio di Baltica. Avevo dedicato tutta la mia vita a seguire le sue regole per diventare perfetto, perché chi non raggiungeva la perfezione, a Baltica, era destinato a morire nell’oblio. E ora che stavo invecchiando e la morte si avvicinava, temevo di non avere più abbastanza tempo.

Baltica era un luogo severo, ma chi raggiungeva la perfezione si guadagnava il diritto di Trascendere, di vivere per sempre in Eden. E io non desideravo altro. Ma nonostante le mie preghiere, il mio Dio non rispondeva.

Avvolto dall’odore del muschio, beato nello sconforto, rimasi aggrappato alla speranza di un suo segno. Non potevo perdere la fede, soprattutto adesso che ne avevo bisogno più che mai. Nel silenzio, sentii la voce di Luna che mi chiamava.

Aprii gli occhi. Ero tornato a Baltica, sotto l'ultimo Salice.

“Kato, perdonami se ti ho interrotto durante la contemplazione, ma i discepoli hanno bisogno del tuo aiuto. Non riescono a desiderare e non conosco nessuno più bravo di te per insegnarglielo.”

A parlare era Luna, con i suoi capelli grigi e crespi mossi dal vento del mare, immersa tra le fronde. L’aria salmastra e il secco tepore del sole non erano paragonabili con la beatitudine dell’Eden, ma nonostante questo, mentre la guardavo, mi resi conto che, anche se il mio amore non era corrisposto, ero felice di essere lì con lei.

Mi chiesi se fosse il caso di aiutarla o se fosse più saggio tornare a pregare per la mia perfezione. Ai tempi, vivevo nella paura di non pregare mai abbastanza, di non dimostrare mai abbastanza la mia devozione a KS. Eppure, il mio cuore mi spingeva a desiderare l’affetto di Luna.

Uscii dall’ombra dell’Ultimo Salice in cerca di ispirazione. Il sole di mezzogiorno era velato da una coltre di nuvole così chiare da bruciare gli occhi. Guardai la miriade di case cilindriche dalle pareti trasparenti, costruzioni bianche e luminose, come se fossero fatte di cristallo.

Come erano pacifiche le strade di Baltica… Lunghe e bianche, e tutte portavano alla spiaggia.

Dovevo fare una scelta. Tornare in Eden o compiacere Luna? Amare il mio Dio o la donna che desideravo? Luna era l’unica cosa che veramente importasse. Volevo raggiungere la perfezione per poter trascorrere l’eternità insieme a lei e speravo che, con le parole adatte, sarei riuscito a farla innamorare di me.

“Andiamo.” dissi, e scendemmo la collina insieme, chiacchierando. Luna aveva un’aria seria, con rughe quasi impercettibili sulla pelle nera e un seno prosperoso sotto la tunica perfettamente bianca.

“Il tempo è stato gentile con te, Luna” dissi, “Ha levigato la tua anima fino a renderla perfetta. Sei un tesoro prezioso.”

Mi sorrise: “Grazie, Kato. Sei tu ad essere sempre gentile con me.”

Arrivammo sotto la grande cupola del Foro, sorretta da colonne eleganti che ne definivano la circonferenza. Al centro, i giovani discepoli riuniti avevano un’aria preoccupata.

“Cosa è successo?” chiesi.

“Come ogni giorno, ci siamo incontrati qui per contemplare e desiderare” rispose uno di loro, “Ma quando è arrivato il momento, nessuno è stato in grado di fare apparire la perla.”

Mi avvicinai, incuriosito: “Ognuno di voi ha provato a desiderarla?”

Tutti risposero di sì. Guardai Luna, che mi sorrise, dandomi la forza di insegnare. Speravo che, se fossi stato bravo, lei avrebbe apprezzato il mio aiuto. E tutto ciò che volevo era il suo amore.

“Perché non siete stati in grado di desiderare?” chiesi ai miei allievi.

“Non sappiamo dove trovare il desiderio.” risposero.

“Dove pensate che si trovi?”

“Nel cuore.” disse uno.

“No”, risposi, “Il desiderio nasce dalle profondità dell’anima, dalle nostre più intime paure e speranze. È la forza che ci spinge a cercare la perfezione e a superare i nostri limiti. Se non siamo in grado di desiderare, significa che non siamo in sintonia con noi stessi e con ciò che ci rende veramente felici. Solo così potremo un giorno Trascendere in Eden.”

Ero uno degli ultimi anziani di Baltica, appartenente ad una generazione ancora capace di desiderare. Era mio compito mostrare loro come si faceva. “Fatemi spazio” dissi, avvicinandomi al tavolo circolare, illuminato dalla luce verticale che scendeva dalla cupola. Posai il palmo della mia mano vecchia e scura sulla superficie liscia del tavolo, mentre tutti i discepoli mi guardavano. Chiusi gli occhi e desiderai la perla, focalizzandola nella mia mente: bianca, sferica, perfetta. Apparve sul tavolo. I discepoli applaudirono, riempiendomi di orgoglio. La presi e la misi sotto la lingua, assaporandola. Nutrimento del corpo e dell’anima. Mi voltai verso Luna in cerca di conforto e amore. Mi accarezzò la guancia.

Stavo per concludere la mia lezione quando mi resi conto che tutti i discepoli avevano la tunica bianca, mentre la mia era grigia. Segno inconfondibile di imperfezione. “Perché siete tutti più perfetti di me?” dissi ad alta voce, sentendo la vergogna crescere. “Come posso impartire lezioni se sono l’esempio stesso del fallimento?” Abbassai gli occhi, affranto.

“Anche se sei imperfetto, Kato…” rispose Luna, posandomi una mano sulla spalla, “…sei un vero amico. Grazie per quello che ci hai insegnato.”

Con un ultimo sospiro, mi voltai e me ne andai, lasciando dietro di me una scia di dubbi e incertezze.

Il potere dell'Attribuzione

Nell'arte, abbiamo due attori protagonisti: l'artista che, con la sua abilità, manifesta una opinione, un enigma, una disputa, una soluzione, una trama; e lo spettatore, che guarda, valuta, critica, adora e detesta.

Il legame tra questi due soggetti è incredibilmente avvincente. Durante il mio periodo di formazione presso la scuola del teatro di Genova, il mio mentore - uno dei migliori della sua generazione - Massimo Mesciulam, aveva l'abitudine di discorrere di "attribuzione".

Mentre mi preparavo per recitare una scena, mi ribadiva l'importanza dell'attribuzione. Per illustrarlo, faceva riferimento alla scena dell'Agamennone di Eschilo.

L'entrata in scena del protagonista, figura di immenso prestigio e carisma, doveva rispecchiare la sua potenza, pressoché divina. Ma come può un attore "mostrare una forza quasi divina" senza diventare ridicolo? Ve lo dico io: non può. Perché anche una figura imponente come "The Rock", muscoloso e coperto di tatuaggi, apparirebbe comica nello sforzarsi di mostrare potenza. Qui, l'attribuzione viene in nostro soccorso. In questo specifico contesto, significava trovare un modo per far sì che tutti attribuissero all'attore che interpretava Agamennone quella potenza divina. Così, il peso di quella presenza non risiedeva più nelle mani dell'attore, ma in quelle di tutti coloro che lo circondavano. In base al comportamento degli altri, lo spettatore avrebbe attribuito ad Agamennone tale forza. Perché se tutti evitano di guardarlo negli occhi, abbassano il capo e la voce diventa più flebile quando gli parlano, è evidente che quest'uomo, Agamennone, è un uomo da temere.

Una lezione simile l'ho appresa durante la mia esperienza come assistente alla regia con M. Langhoff, un rinomato regista tedesco. Mi illustrò che, nelle scene di combattimento, il lavoro più impegnativo non è di chi attacca, ma di chi viene colpito. Perché è la vittima a rendere la violenza "reale" nella sua finzione. Anche in questo caso, l'attribuzione della forza era nelle mani di un altro.

Ma la vera magia dell'attribuzione si verifica nella fantasia dello spettatore. L'arte è un dialogo tra l'artista e lo spettatore, dicevamo. Se l'artista espone tutto in modo esplicito, esibendo ogni piccolo dettaglio, ogni imperfezione, ogni desiderio, è come se stesse monopolizzando la conversazione. È come un monologo, un tedioso soliloquio in cui esalta se stesso... Ma se invece lascia un vuoto, un'apertura, cosa accade? Avviene quello che si verifica nei migliori libri, film e brani musicali. Lo spettatore, attraverso la propria immaginazione, utilizza questo spazio vuoto per proiettare sé stesso, per attribuire significati. In questo modo, lo spettatore si trasforma in un artista, e si innesta il meraviglioso processo dei neuroni specchio, della capacità di immedesimarsi in quel personaggio, in quelle parole, in quella melodia. È su questo confine, a mio avviso, che risiede l'arte. Siamo tutti discendenti degli stessi antenati, condividiamo molti aspetti, e al tempo stesso ne possediamo di unici e distintivi. Quando riusciamo a creare un dialogo tra anime che permette sia l'unione di ciò che ci accomuna sia l'evoluzione di ciò che ci rende unici, produciamo una conversazione che arricchisce il mondo dell'artista e quello dello spettatore.

Come affermava la mia direttrice della scuola: "la recitazione è relazione." Io andrei oltre, affermando che l'arte, nella sua essenza, è relazione. E la bellezza è un territorio misterioso, dove l'unicità si lega all'archetipo. Dove l'inconscio collettivo si manifesta nell'individuo singolo, atipico, unico, imperfetto. Proprio come tutti i suoi simili.

Come dicono gli anglossassoni: "Beauty is in the eye of the beholder".

Alla prossima pagina.

La favola di Gianni

Lasciate che vi narri la storia di Gianni, un bimbo con i riccioli aurei, ancora abbastanza piccolo da essere cullato tra le braccia dei suoi genitori quando il sonno lo assaliva. Gianni, durante le lezioni scolastiche, ascoltava la voce della sua entusiasta maestra, ma non ne decifrava completamente il significato. Lei gli aveva detto: "Ricorda, Gianni, nella vita esistono porte piccole e porte grandi. Le porte grandi accolgono un gran numero di persone, mentre quelle piccole, al contrario, ne accolgono poche. Scegli la porta piccola e scoprirai il mondo."
Gianni proseguì la sua esistenza con la sua solita allegria e leggerezza, dimenticando queste parole sagge e criptiche della maestra. Tuttavia, il seme piantato nel suo cuore cominciò a germogliare durante i suoi anni del liceo, quando Gianni, probabilmente guidato da quella frase dell'insegnante, iniziò a riflettere in maniera autonoma. Quando avvertiva che tutti erano in accordo su un argomento, in modo quasi istintivo, Gianni cercava la porta piccola, quell'opinione che nessuno condivideva o conosceva. Stimolato dalla curiosità, Gianni si avventurava nelle intricate vie del mondo, alla scoperta dell'invisibile, dell'ineffabile. Questa ricerca lo riempiva di gioia, poiché lentamente Gianni comprendeva che la verità non è sempre quella che ti fanno credere, che ciò che è considerato "giusto" o "sbagliato" non si trova necessariamente dietro la porta grande. Al contrario, spesso si trovava dietro la porta piccola con la realizzazione che, in un certo modo, il mondo stava cercando di ingannarlo.
"Perché?" si chiedeva Gianni. "Perché dalla porta grande continuano a giungere messaggi pacifici, uniformi, accomodanti, ma spesso ingannevoli?" Gianni non riusciva a trovare una risposta. "Perché la gente, come un gregge privo d'anima, si riversa in quel portone senza fare una piega, senza mettere in dubbio nulla?" Queste riflessioni tormentavano Gianni, che ora, trasformatosi in un giovane adulto, aveva fatto della sua passione il suo mestiere, proprio grazie alle sue decisioni.
"Non potrai mai vivere decentemente con la passione! La passione non mette il cibo sulla tavola! Trova un vero lavoro, come gli altri!" Questo è quello che gli dicevano coloro che sceglievano la porta grande. Ma Gianni, invece, aveva fatto un tesoro della sua passione. L'aveva nutrita con amore, l'aveva sviluppata con orgoglio. E da quel piccolo seme che era la sua arte, crebbe un albero sempre più prezioso, sempre più unico. Un albero che, ad un certo punto, quando Gianni divenne un uomo maturo, fu esibito proprio nella sala della porta grande.
Grande fu lo stupore di Gianni quando tutti quelli che prima lo ignoravano, ora lo acclamavano. Gianni si ritrovò un uomo apprezzato, un "maestro", come si dice.
Potreste pensare che Gianni, dopo una vita di solitudine, accompagnato solo da rare connessioni con anime affini (quelle che come lui sceglievano la porta piccola), ora avrebbe trovato la felicità. Ora che finalmente aveva raggiunto il successo, finalmente sarebbe stato felice.
Ma il successo, come suggerisce la parola stessa, è qualcosa che è già "successo". Il successo appartiene al passato, è dietro di noi, dietro a Gianni. E così, Gianni, solo in mezzo alla folla, con lo sguardo lucido di fronte alle espressioni emozionate dei suoi ammiratori, si rese conto di aver percorso anche lui la via della porta grande.
Fu pervaso da una tristezza profonda, sentì di aver fallito nel suo ruolo di pioniere, di guardiano del nuovo, dell'ignoto. Era un albero maestoso, e ora era questo il suo destino? Era venuto il momento di accontentarsi? Era venuto il momento di fermarsi e di gioire, finalmente, di quella porta larga e comoda che accoglieva chiunque?
Gianni sapeva che se fosse rimasto immobile lì, in mezzo alla folla che lo acclamava, sarebbe presto diventato l'ombra di se stesso. La vita lo avrebbe superato. Sarebbe diventato obsoleto. No, non poteva permetterlo.
E così Gianni, con la schiena curva e i capelli ormai ingrigiti dal tempo si allontanò silenziosamente dalla sala in cui tutti lo ammiravano. Salutò i suoi amici con discrezione e annunciò che non sarebbe tornato, ma che, se avessero deciso un giorno di varcare la porta stretta, lui li avrebbe accolti con amore e gioia.
E fu così che Gianni scomparve, lasciando dietro di sé scintille di meraviglia.

Un matrimonio

La finzione che invecchia,
Il presente che si ferma
Come una statua di luce.
L'immagine in movimento
Ha spento il mio amore
Insieme al mio televisore.
È una magia misteriosa:
La mia voce che si muta
In una tua emozione.

Il mio percorso artistico

Il mio debutto artistico, per rintracciare le mie radici, risale a mio nonno: un falegname, pittore e cuoco. Insomma, uno di quella generazione che ha contribuito a ricostruire l'Italia con impegno e sensibilità. Era letteralmente un uomo d'altri tempi, con occhi così chiari da sembrare quasi bianchi. La sua storia d'amore con mia nonna durò oltre 60 anni, e quando lei se ne andò, lui la raggiunse un anno dopo. Ciao Nonna. Ciao Nonno. Vi capita mai di pensare che ci stiano osservando e ridendo, considerando quanto poco sappiamo di ciò che ci aspetta dopo? A me sì.

Tornando al mio percorso artistico. Dicevo, nonno pittore. Ma anche Zia illustratrice. Per 40 anni ha messo in pagina i migliori fumetti francesi, tra cui quelli di Enki Bilal. I miei genitori non sono artisti, ma ho avuto una costellazione di persone che mi hanno dato, negli anni, i semi necessari per conquistare i miei desideri: l'amore incondizionato dei miei genitori mi ha permesso di crescere sorretto dalla certezza che loro sarebbero stati lì a raccogliermi in caso di caduta. E così è stato.

L'ultimo mio anno di maturità, avevo studiato così poco che i libri - acquistati ad inizio anno - erano rimasti così chiusi che ad aprirli si sentiva la colla che legava le pagine "rompersi" 😁

Ero una "pecora nera", al punto da essere espulso dal collegio negli ultimi quattro mesi, proprio prima degli esami di maturità. Mio papà mi raggiunse, mi aiutò a studiare e mi sostenne durante tutto quel periodo. Contro ogni aspettativa, mi diplomai con menzione, nonostante fossi considerato nel collegio un personaggio da evitare perché troppo "borderline". I pregiudizi accumulati in 5 anni di collegio sarebbero degni di un capitolo a parte.

Non sono mai stato un bravo studente, ma ho letto e continuo a leggere molto, arricchendo il mio bagaglio culturale giorno dopo giorno. Perché? Perché non ho mai smesso di cercare. Coloro che si fermano e accettano le risposte senza discutere, aderiscono al sistema ma non crescono più. Sono un ribelle nell'anima e ho così tanti aneddoti dal collegio che forse, un giorno, scriverò qualcosa a riguardo. Ogni volta che a tavola ne racconto uno, esce sempre fuori una voce che dice "ma scrivi il libro!" Quindi chissà.

Tornando al tema principale, la tecnologia e l'arte: nonno, zia, scuola, e poi mio padre, un informatico che mi mise tra le mani un computer all'età di otto anni. Da lì, il mio percorso artistico si è sviluppato attraverso recitazione, regia, produzione, film, serie, videogiochi, poesie e libri. Non credo ci sia un regno della narrazione in cui non abbia messo piede!

In molti di questi ambiti, soprattutto quelli "antichi" come il teatro e l'editoria, ho percepito una forte avversione verso la tecnologia. Tuttavia, l'etimologia della parola "tecnologia" deriva da "Teknè" (arte) e "Logos" (discorso). La tecnica è parte integrante dell'arte e ogni nuova forma d'arte è legata alla tecnologia, come il cinema.

Grazie alle mie passioni nerd, ho sempre avuto una propensione verso la produzione di arte "tecnologica". Eppure, ora mi confronto con il libro, l'origine di tutto. Anche lì, le cose sono cambiate. Pensate a questo articolo e a quanti aspetti tecnologici nasconde: registrazione audio, commenti, condivisioni via e-mail e sui social network. Tutto ciò richiede una vasta combinazione di conoscenze tecnologiche, oltre, ovviamente, a contenuti interessanti e significativi.

L'arte continuerà a evolvere parallelamente alla tecnologia. L'intelligenza artificiale e le nanotecnologie trasformeranno il mondo futuro (purché non lo distruggiamo prima), e l'artista deve essere colui che si trova in prima linea, inseguendo instancabilmente qualcosa di nuovo e sperando di non essere colpito da un proiettile vagante.

La mia storia personale e la mia esperienza con l'arte e la tecnologia dimostrano che è possibile combinare tradizione e innovazione. Che si tratti di raccontare storie attraverso il teatro, il cinema, i fumetti o i libri, l'arte è destinata a cambiare e adattarsi alle nuove sfide e alle nuove opportunità offerte dalla tecnologia.

Come artisti, dobbiamo abbracciare il cambiamento e utilizzare la tecnologia per ampliare le nostre possibilità espressive e comunicative. Non dobbiamo temere l'avanzata della tecnologia, ma piuttosto imparare a lavorare con essa, sfruttandone le potenzialità per creare opere d'arte che possano ispirare, emozionare e stimolare il dibattito.

Nel mio percorso, sono grato per l'eredità artistica di mio nonno e mia zia, e anche di tanti altri, e per il sostegno - soprattutto - incondizionato dei miei genitori. Grazie a loro, ho potuto esplorare il vasto universo della narrazione e della creatività, sperimentando le intersezioni tra arte e tecnologia.

Alla prossima pagina.

Tra brutto e bello: l'arte dell'editing e il suo impatto sulla scrittura

Ricordo una delle prime regole sulla scrittura che ho appreso: non fare mai editing mentre stai scrivendo. Prima completa la stesura, e poi perfezionala. Come diceva Hemingway: "Scrivi da ubriaco, fai editing da sobrio". Anche se non seguo alla lettera il consiglio di Hemingway sul bere, l'importanza dell'editing è indiscutibile.

L'editing è il processo che trasforma il brutto in bello, come si direbbe a scuola. La scrittura di un romanzo passa attraverso diverse fasi, ognuna delle quali viene analizzata criticamente, dall'idea iniziale fino al libro finale. Si fa l'editing sulla struttura della storia, sui personaggi, sulle descrizioni e persino sui segni di interpunzione. La sfida è sapere quando fermarsi per non esagerare, perché la perfezione è un prodotto del controllo, e raramente il controllo emoziona davvero.

Attualmente, il mio manoscritto è nelle mani di un editor professionista, Federico, che sta correggendo i miei errori. È un editing formale che tiene conto del mio lavoro e cerca di seguire la mia direzione. Immagino la difficoltà che Federico deve affrontare nel confrontarsi con la mia creatività in uno stato grezzo. Ovviamente, prima di arrivare a Federico, il testo è stato analizzato a fondo, scritto e riscritto, ma arriva il momento in cui è necessario l'intervento di un occhio esterno, che non conosce le fatiche e le vicissitudini in cui l'autore si è immerso.

Questo mi porta a riflettere su una discussione che ho avuto con un amico avvocato. Eravamo a Villa Borghese, in un incantevole bar vicino al lago, sorseggiando un caffè, e ci chiedevamo quale fosse la differenza tra "la bella" e "la brutta". Abbiamo scoperto di essere d'accordo nel considerare "la bella" non come la versione "pulita" della brutta, ma come una scrittura ex-novo, che emerge dalla brutta come una fenice dalle ceneri. Invece, altri al tavolo sostenevano che "la bella" non fosse altro che "la brutta" privata dei suoi difetti.

E voi, cosa ne pensate? Condividete la nostra visione o ritenete che "la bella" sia semplicemente "la brutta" migliorata?

L'arte dell'editing è un equilibrio delicato tra migliorare e conservare l'autenticità della voce dell'autore. Trovare il giusto compromesso tra queste due esigenze è fondamentale per la riuscita di un'opera letteraria. In ultima analisi, l'obiettivo dell'editing è quello di rendere il testo il più comprensibile, coinvolgente ed emozionante possibile, senza perdere la sua essenza originale.

Non vedo l'ora di condividere con voi i risultati del lavoro di Federico sul mio manoscritto e di continuare a discutere delle sfide e delle gioie del processo creativo.

Se avete domande, curiosità o suggerimenti riguardo all'editing o alla scrittura in generale, non esitate a condividerli con me e con gli altri lettori. Sarebbe interessante ascoltare le vostre esperienze e imparare gli uni dagli altri.

Alla prossima,

Flavio

La mia playlist di scrittura

La musica. La voce dell’anima. Arte potente persino più della parola, mistica, sacra, un filo diretto con l’emozione.

Quando scrivo, spesso mi trovo a dover affrontare il dilemma se restare nel silenzio o avvolgermi in una particolare musica o anche suoni meditativi. In questo post, voglio spiegare quando uso l'uno o l'altro, e alla fine, condividerò la mia playlist con voi.

Da piccolo suonavo il violino. Ho studiato alla villa Simonetta di Milano, ero bravo. Poi un giorno, a 10 anni, ho sentito una bambina prodigio suonare il violino alla scala, e anche se era più grande di me, questa cosa mi ha colpito così tanto che a quanto pare, ne ho avuto il rifiuto. Poi ho suonato anche il pianoforte. E poi la chitarra. E sono diventato quello che alle spiaggiate guarda gli amici sbaciucchiarsi mentre canta “Le bionde trecce gli occhi azzurri e poi.”

Adoro cantare, ma solo a mia figlia per addormentarla. (Ora però sta crescendo e mi sa che tra un po’, ahimè, finirà. Maledetto il tempo che passa.)

Amo molti tipi di musica, ma quando si tratta di scrivere, ho una sola regola: deve essere strumentale. La voce mi ruba il pensiero e mi impedisce di viaggiare insieme alle emozioni della musica pura. Passo dalla musica classica, da Bach a Chopin, pezzi morbidi, emozionanti, non troppo orchestrali, ma anche, e soprattutto, la musica elettronica. Ho cominciato ad ascoltarla in collegio, da adolescente, e da lì, non mi sono mai più fermato. Uno dei miei DJ preferiti si chiama Joaquim Pastor. La musica elettronica ha la qualità di buttarmi in uno stato di trance, nel quale posso isolarmi dai miei pensieri, ma avvolto, appunto, dalla musica. Protetto. Spesso addirittura gioco a scacchi con la musica elettronica.

Inoltre, ho un piccolo segreto che voglio condividere con voi. Uso una app sul mio iPhone chiamata myNoise. In sostanza, la app genera dei sottofondi sia musicali che di luoghi, e visto che sono dei suoni generati, possono essere ascoltati per lungo tempo senza cadere troppo nel ripetitivo, e senza uscire da quel determinato mood, molto utile per scrivere. Per me è uno strumento fantastico per immergermi in una location, che sia un bar, o una città o il deserto del mio romanzo. O il mare freddo di Baltica. O la barca, sul mare, con il vento. Questi suoni generati mi aiutano ad essere lì, in quel posto. E devo dire che è molto utile per la mia immaginazione.

Spesso ascolto la musica in cuffia, uso cuffie isolanti, per bloccare tutto il rumore esterno, così da chiudermi in me stesso. L’avrete capito, sono un orso, amo la solitudine. Rasento l’ossessione. Ma ci sono anche giorni (ci sono ve lo prometto!) in cui mi piace la musica del mondo, in cui scrivo al bar, ascoltando le persone intorno a me, o da solo sul terrazzo, ascoltando il traffico di Roma, voci lontane.

E poi, infine, c'è il silenzio. Sottovalutato, fondamentale, irrinunciabile. Se dovessi scegliere una sola playlist per scrivere, sarebbe quella: il silenzio. Sono sempre stato un bambino silenzioso. Quando ero piccolo piccolo, mia mamma e mia zia mi chiamavano “le chou-fleur” (il cavolfiore 😃) per via del fatto che me ne stavo lì, in silenzio, ad osservare il mondo, come un cavolfiore. Il silenzio mi aiuta a concentrarmi, a mettermi in contatto con me stesso, con quello che dentro ho sepolto.

Ecco un po’ di pezzi presi a caso che rappresentano i miei gusti musicali.

Spero che questo piccolo articolo vi abbia fornito alcuni spunti interessanti per sperimentare l'uso della musica come strumento per aumentare la creatività durante il lavoro, qualunque cosa facciate. La musica può avere un grande impatto sul nostro umore e anche sulla produttività.

Vi invito a condividere i vostri pezzi preferiti e le vostre playlist nei commenti, in modo che tutti possano avere l'opportunità di scoprire nuove fonti di ispirazione.

Informativa sulla Privacy - Estratto

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Ultimo aggiornamento: 06 gennaio 2024

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