L’autore deve confrontarsi con il genere. Ma perché?
Perché il genere classifica la storia, la impacchetta in modo che si possa spiegare più in fretta.
• “È un libro per bambini” (Il piccolo principe).
• “È un romance ottocentesco” (Jane Eyre).
• “È un documentario marino d’avventura” (Moby Dick).
Che piccolezza!
Ma le riduzioni sono effettivamente molto utili, perché grazie alle categorie possiamo scegliere il nostro gusto preferito, come i gelati dal gelataio. Una carta del menù.
All’epoca dei Greci, avevamo la tragedia e la commedia. Ora abbiamo il gusto puffo.
Sta di fatto che mi sono chiesto a quale genere io appartenga, come scrittore.
Chi mi conosce può capire la mia avversione all’etichettatura. La odio.
Io non voglio appartenere. Non fa per me. Figuriamoci l’auto-etichettatura. Il peggio del peggio.
Vi svelo questo piccolo segreto:
da piccolo, quando ero in Francia, dicevo di essere italiano, e viceversa in Italia, dicevo di essere francese.
Sono bastian contrario nel cuore. Un tifoso del no.
Ma visto che porto il cappello da venditore e faccio pubblicità ai miei libri, confrontandomi anche con il lato mercantile dell’arte, ho deciso di scavare, anche in maniera creativa, tra le varie specie di genere, per capire in quali mi vorrei riconoscere.
Niente nicchie.
Mi piace viaggiare. Variare nell’offerta.
Non scrivo commedie. Nemmeno tragedie, almeno, non del tutto.
Amo pensare che la mia storia abbia curato i miei personaggi, e anche i miei lettori.
Il percorso narrativo deve essere un cammino sui carboni ardenti. Un rito di passaggio.
Vorrei che ci fosse un prima e un dopo.
(Soprattutto per i miei personaggi, quindi anche per me che me li vivo, ma se fortuna vuole che riesca a farlo fare anche a chi mi legge, sarebbe bellissimo).
E vorrei che, finita l’ultima pagina del libro, il lettore stesse davvero meglio.
Meglio con sé stesso, con il mondo, con il passato, il futuro.
Meglio con le sue paure.
Della tragedia, mi piace l’intensità, la potenza, l’ineluttabilità.
Mi piace l’altezza a cui parla, l’ampiezza della sua voce, la profondità dei suoi personaggi.
Ma della commedia, mi piace il lieto fine.
Da lettore/spettatore, voglio finire più felice di quando ho cominciato.
Ma questo non vuol dire ridere, anzi.
Voglio patire le pene dei personaggi, comprenderli. Voglio vederli splendere, crollare e risalire, come fenici.
Voglio tragedie a lieto fine.
Peccato che su Amazon la categoria non ci sia. 😂
Alla prossima pagina.