Quando muore l'arte

Sapete cosa dicevano gli amanuensi e i copisti quando l’invenzione di Gutenberg (la stampa) arrivò a sconquassare l’industria dei libri scritti a mano?

«Scriptores pereunt, ars moritur.»

I copisti scompaiono, l’arte muore.

Molti ritenevano che i libri stampati fossero oggetti meccanici, privi di anima o di bellezza. Filippo di Strata, ad esempio, scriveva nel XV secolo: «Libri impressi sunt meretrices; scripti sunt virgines.»

I libri stampati sono meretrici, quelli scritti a mano, vergini.

Vi ricorda qualcosa? Le parole che vengono spese nei confronti dell’IA generativa sono spesso molto simili. Il disprezzo che generano (piccolo gioco di parole) può essere ridotto a questo: è un prodotto senz’anima, che sostituirà gli artisti.

Ma in realtà la stampa ha fatto esplodere la scrittura. Mai così tanti libri furono scritti, stampati e soprattutto letti dopo l’avvento di Gutenberg. A lui dobbiamo la letteratura moderna. A lui lo sviluppo esponenziale della conoscenza, che ha portato, nei secoli successivi, alla trasformazione radicale della società, del benessere, dell’uomo.

Il dibattito sull’arte e sull’intelligenza artificiale è spesso affrontato in maniera pregiudizievole, perché mette in discussione uno dei tasselli fondamentali dell’artista (proprio come la stampa): l’esecuzione.

Si dice che l’arte sia nel gesto, e che se il gesto viene sostituito dalla macchina, allora di arte non ve n’è più traccia.

Io oso pensare qualcosa di diverso. Qualcosa che cerca di andare oltre la coltre di nebbia davanti alla quale ci troviamo tutti.

L’arte non è nell’esecuzione di uno dei blocchi fondamentali, ma nell’intento, nell'idea, nell’esecuzione, nella distribuzione e nella consegna.

Mi spiego. Se una macchina può fare in pochi secondi ciò che un uomo può fare in mesi, allora il valore di quella cosa decade immediatamente. Ed è lì che nasce la paura dei concept artist, degli scrittori, e persino degli attori. Ormai ci siamo: la tecnologia è così avanzata che si potranno sostituire anche loro (nei prodotti digitali, il teatro, per ora, è intoccato).

Quindi siamo sostituibili? No. Perché è il processo nella sua interezza a produrre vero valore, non il singolo elemento all'interno del processo di creazione.

Questo pensiero è radicale, e richiede un cambio netto di prospettiva: È quello che viene chiamato un cambio di paradigma.

L’IA è qui. È come l’elettricità, il computer, la ruota. Ormai c’è.

Il mio scopo è capire come sopravvivere e, non solo, come prosperare, ora che il terreno è cambiato così grandemente.

Da artista, sono costretto a rivalutare cosa significa essere un artista.

Fare arte non si limita più alla produzione del singolo elemento dell'esecuzione (il testo, la canzone, il disegno, ecc., qualsiasi cosa che potrebbe essere riprodotto dalla IA).
C'è molto di più.
Quell’elemento deve essere parte di un intento più grande, che parta dall’anima dell’artista (l’intento), si propaghi nella risposta umana al mondo dell'artista (l'idea), passi attraverso la realizzazione di quella risposta (l'esecuzione) ma non finisce qui. Serve che l'artista incarni l’impatto che vuole avere sul mondo (la consegna).

In sostanza, si tratta di avere un’idea, di realizzarla e poi di far sapere che esiste. E poi ripetere questo processo, migliorando ogni passo, ogni volta.

L’artista diventa quindi il fautore del proprio successo, colui che viene chiamato non solo per la produzione artigianale degli elementi, ma per l’intera filiera artistica: dall’intento, all’idea, alla realizzazione, alla distribuzione e alla consegna.

L'artista è la manifestazione umana del processo di tutta la filiera.

E lì, l’intelligenza artificiale diventa un compagno di viaggio che permette - per la prima volta da sempre, proprio come la stampa - di aprire le porte, di dare all’artista che lo desidera, le ali per volare da solo.

Non sarà facile.

Ma se prima volare da soli, per gli artisti, era un sogno irrealizzabile, questa rivoluzione restituisce a coloro che hanno intento, idee, spirito critico e anima artistica la possibilità di farcela da soli.

Lo ripeto:
1. Intento (che si alimenta con cultura, lettura, incontri, cibo dell'anima)
2. Idea (hce nasce dall’ascolto di ciò che ci circonda e di ciò che abbiamo dentro)
3. Esecuzione (la nostra risposta, come artisti. Il nostro segno: scrittura, canto, recitazione, quello che vi piace di più.)
4. Distribuzione (marketing, piattaforme digitali, strategia per far conoscere la nostra risposta, per dare impatto.)
5. Discussione con il pubblico (interazioni, social network, un sito, un diario d’artista dove scambiarsi opinioni)

L'arte non è morta. Al contrario.

Stiamo per vivere un’esplosione di artisti indipendenti che riusciranno ad essere grandi quanto (o più) delle major, poiché detentori di ciò che conta e vale davvero all'interno della filiera: l’intento. Il fuoco primigeneo, la luce.

Alla prossima pagina.

La parte più difficile

Qual è la parte più difficile di fare l’artista? Di fare il regista, l’attore, lo scrittore?

Io penso che potrei aprire una sezione del Diario d’artista dedicata solo a questa frase: «La parte più difficile.»

È difficile dare una risposta, perché affrontare questa domanda significa affrontare le nostre debolezze, i nostri pregiudizi.

A volte nascondiamo la parte più difficile a noi stessi. Siamo i primi a illuderci. Spesso, ci si ritrova davanti alla difficoltà e, invece di sormontarla, cambiamo rotta.

Quante volte abbiamo fatto scelte dettate dalla paura? E quante volte dettate dal desiderio?

Forse è lì che sta la parte più difficile per me: quando viene meno il desiderio. Sono vittima della fascinazione che desidero imprimere con l’arte. Voglio vivere affascinato, sono nel mio personalissimo labirinto della speranza.

Molti anni fa, un regista mio maestro mi insegnò che:

«Quando pensi ‘è troppo’, è proprio in quel momento che il lavoro inizia.»

Di questa filosofia ho fatto un mantra, spingendo la mia forza di volontà ben al di là di dove stava quando avevo vent’anni.

Appena uscito dalla scuola di recitazione, avevo recuperato qualcosa di me. Si era accesa una passione che mi ha messo in moto.

Eppure percepisco ancora la tendenza a mollare. Ma badate, non è vista come una resa, anzi. Più come un:

«È tempo di trovare altre erbe più verdi.»

Una sfida non raccolta mascherata da noia. Una fuga superba.

Sì, è proprio questo il mio punto debole: sono una farfalla, un’ape che vola di fiore in fiore.

Molti non lo sanno, ma nel corso della mia carriera d’attore ho fatto mille lavori: assistente alla regia, regista, tecnico attrezzista, produttore, montatore.

Tutto per poter continuare il mio sogno.

Ho cominciato per caso, se vogliamo, questa carriera. Uno spettacolo in TV mi ha attirato l’occhio. Gente che improvvisava. E da lì, scuola di recitazione, teatro, cinema, tv. Tutto liscio.

Ma forse proprio per questo ho continuato a coltivare il desiderio di altro. I miei “veri” sogni.

Dopo aver risparmiato con Distretto di Polizia e Un medico in famiglia, non ho comprato una macchina, né una casa. Ho investito in un sogno: quello di realizzare un videogioco per poter andare lì dove sognavo di andare da bambino. A Los Angeles, all’E3.

E lì ho avuto la gran fortuna di riuscirci e di aver trovato le persone giuste per quel viaggio.

La parte difficile è la fortuna, forse.

E ora sono nell’impresa delle imprese: produrre mondi, storie, sogni, pensieri, ragionamento attraverso delle saghe, dei romanzi lunghi. Dialogare con le anime degli altri, al di là del tempo presente.

Insomma,

Ho fatto tante cose, ma in realtà mi sento come se non avessi ancora fatto nulla.

È una strana sensazione, questa, no? Non vi capita mai?

Forse la parte più difficile è essere felici di quello che abbiamo.

Kato, nel finale de La Divina Avventura, si chiede cosa vorrebbe provare prima di morire, sapendo che quella sensazione lo accompagnerà per l’eternità.

Pensa alla gratitudine. Ma poi, quando si trova davanti alla morte, in quel momento decisivo, il suo pensiero tace, ed emerge la natura. Implacabile: il desiderio di vivere ancora un po'.

Andare avanti.

La parte più difficile è andare avanti.

Ma è anche quella più divertente.

Alla prossima pagina.

La fatica dell'impresa

Oggi attraverso un momento di oscurità, sono stremato dalle mie avventure.

L’idea di scrivere un’altra saga mi pesa più degli altri giorni.

Capita, lo so, fa parte del gioco.

Gli americani lo chiamano “il grind”, quella cosa per cui ogni giorno, un sassolino dopo l’altro, si costruisce il grattacielo.

Con sudore, fatica e forza di volontà.

Lo diceva anche Paperon de’ Paperoni:

“Si diventa ricchi un centesimo alla volta.”

Ma che fatica.

Scrivere L’Anello è stata un’impresa mica da ridere.

In tutto, se dovessimo vedere la storia come un unico libro, parliamo di circa 280.000 parole, indicativamente 1.100-1.200 pagine.

E dalla scrittura alla pubblicazione sono passati circa 12 mesi.

Insomma, ho fatto uno sprint davvero intenso, e ora mi ritrovo un po’ sommerso da fatica, stupore e smarrimento.

Nonostante l’incredibile successo della saga, che si avvicina al traguardo ragguardevole di 10.000 copie vendute, non sono soddisfatto.

Chi mi conosce non penso si stupisca, ma in questo caso è una sensazione difficile da mandare giù.

Vorrei esserlo, davvero.

Ma l’impresa editoriale che sto costruendo, e che piano piano sta dando frutti, ancora non genera un raccolto sostenibile.

Vuoi perché ho appena iniziato, o perché ho scritto “solo” una saga, ma il cammino verso la famosa redditività è ancora lungo.

Potrei mollare tutto e accontentarmi.

Scrivere senza pretese, senza fretta, e lasciare che i miei testi vaghino liberamente, nelle mani di un editore terzo che ne possiede i diritti.

Ma non fa per me.

Ho raggiunto un’età in cui ho bisogno di sentire che lo sforzo che sto facendo elevi il mio operato.

Ho bisogno di sentire l’impresa scorrere nelle vene.

Chissà perché. Forse perché mio papà è un imprenditore.

E per osmosi, nonostante il mio percorso artistico, questo agente interno continua a desiderare maturità e successo.

L’imprenditore che c’è in me si è adoperato, negli anni, a saltare come una farfalla sui sogni dell’artista.

Con il desiderio di renderli grandi, unici, personali.

E ora, con davanti 4 volumi da scrivere della prossima saga, qualcosa in me è stanco.

C’è un Flavio, quello insoddisfatto, con le bretelle da magnate e il sigaro in bocca, che dice:

“No no. Ora tu ti fermi e vediamo come va questa cosa. Vediamo se questa saga dell’Anello è redditizia. Sennò, chiudiamo bottega.”

E poi c’è il Flavio con la barba lunga e le mani piene di inchiostro digitale, con idee a non finire, che si gratta il capo e dice:

“Ma no, vedrai, la prossima storia è quella giusta. Dammi retta, ce la faremo!”

Ecco, sono in mezzo a una trattativa tra le mie due anime.

Strappato tra sogno e concretezza, in bilico tra soldi e sogni.

I libri sono strani.

E penso che, come imprenditore, abbia ancora molto da imparare.

Per esempio, non so quanto resista l’interesse di un libro dopo la sua uscita.

Nel cinema e in molte altre industrie, il grosso delle vendite si fa nei primi giorni, poi arriva il crollo verticale, a causa della sovrapproduzione quotidiana.

Io sogno una crescita lenta e stabile.

Un modello di business sostenibile, in cui ogni saga raggiunga il proprio punto di redditività e non lo molli più.

Una proprietà intellettuale come un valore immobile.

Un “prodotto” che si autoalimenta, che resiste al tempo sia nei contenuti che nel modello imprenditoriale.

Questa è la più grande sfida che potessi accettare con me stesso.

Ancora non l’ho raggiunta, ma sono più vicino di quando ho cominciato.

E come diceva un tale:

“Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,

ripresi via per la piaggia diserta,

sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.”

Alla prossima pagina.

La regia e la Scrittura

Chi ha letto i miei romanzi sa che dentro vi è la mia recitazione, il mio desiderio. Chi ha ascoltato gli audiolibri ancora di più, poiché do voce al mio scrivere. Dicitore e scrittore, una cosa rara tra gli autori.

Ma chi mi conosce da veramente tanto tempo sa bene che la mia passione, forse seconda solo alla scrittura, è sempre stata la regia. Ho prodotto e messo online ben tre prodotti audiovisivi. Il primo era un film di “animazione” denominato Sogno Farfalle Quantiche, in cui raccontavo con estrema creatività visiva la turbolenta estate di Matteo e Flavio. Un filmino dell’estate con funghetti allucinogeni.

Poi ci fu #bymyside, una specie di "Aspettando Godot" urbano, sempre con gli stessi attori e compagni di vita, che mi seguirono anche in quella che fu poi la mia ultima impresa audio-visiva: Days, un film interattivo in cui, come in Rashomon, era possibile per lo spettatore, scegliere “chi” seguire dei personaggi. Un’interazione in cui ciò che cambia non è la storia, bensì il punto di vista. Andò bene, ma non abbastanza.

Del perché forse ne parlerò più avanti. Ora voglio concentrarmi su ciò che queste esperienze mi hanno portato nella scrittura. 

Prima di fare questi film, dovete sapere che avevo fatto 4 anni di regia al Teatro Stabile di Genova, e altrettanti a fare da assistente alla regia di Sciaccaluga, Langhoff, Nichetti.

Insomma, ho la regia nel sangue. Ho visto tutto Kubrick più di una volta, amo l’estetica essenziale, la forma pulita.

Quando leggerete le pagine dei miei libri, ci farete caso. La regia è presente, e ha un sapore fortemente cinematografico, ne sono consapevole.

Ora sto scrivendo Il Labirinto della Speranza, e ciò che faccio, nella prosa, non è scrivere, ma descrivere. Cerco di raccontare, attraverso la parola, l’oggettività dell’azione. Per lasciare poi che il processo creativo avvenga nella mente di chi mi legge. Scrivere e leggere sono legate da un rapporto armonico. Io non sono che la scintilla che accende l’anima, il resto, il lavoro di immaginazione, lo fa il lettore. Per questo ogni lettura è diversa. Perché ogni lettore ha una sua tonalità di rosso mattone, ogni lettore vede la montagna innevata che taglia le nuvole in modo diverso.

L’uomo non è un animale pensante, ma sognante.

Il sogno emerge dalla lettura che gli dà spago.

Sempre più mi piace perdermi nella prosa, per poi, in editing, tagliarne una buona fetta per mantenere il giusto equilibrio, quello fondamentale, quello del desiderio di continuare a leggere.

Ah, giusto, la regia nella scrittura!

Ora, sopresa, come piccola anticipazione di cosa vi aspetta, vi lascio un estratto del Labirinto della Speranza, ditemi voi dove vedete la regia. Se la vedete. Poi vi rispondo nei commenti.

Piccola premessa, questa è una prima stesura, che ho cercato di formalizzare come fosse finale, in questo modo, vi darà una previsione anche di sensazione. Il contenuto potrebbe variare alla pubblicazione. Zero spoiler.


Erik arriva davanti alla porta del suo appartamento.

Gira le chiavi nella serratura.

Apre. 

L’odore di muffa lo travolge. Pesante. Umido. Vivo.

Si ferma sulla soglia.

Un respiro. Un altro. L’aria entra a fatica nei polmoni. Troppo densa di passato.

Entra e chiude la porta alle sue spalle. 

Un clic soffocato.

La polvere aleggia tra i raggi di luna che filtrano dai vetri opachi. Gli spifferi sembrano parlare, sussurrando ricordi sepolti. In quel silenzio, cantano gli echi di una vita. La risata di Alice in cucina. Il suono di un cucchiaino di plastica che batte frenetico sul tavolo. Il profumo del caffè.

Erik volge lo sguardo al corridoio.

Si avvicina.

Si ferma davanti a una porta. Ha un adesivo scolorito al suo centro. Un cuore rosso, fissato con puntine colorate. 

Una scritta.


Alla prossima pagina. (Non è quello che c’è scritto)

Il fantasma della coscienza

Siamo coscienza, siamo passione e nutriamo il desiderio di trasformazione e di vita.

Viviamo costantemente tra le altalene del tempo, tra i viaggi nell’io e nel mondo.

Sto affrontando i temi dell’occulto: inizi da quelli più blandi, come l’astrologia e la lettura dei tarocchi, per giungere alla divinazione e molto altro, il tutto all’interno di un thriller psicologico.

Mi direte: allora stai scrivendo un thriller paranormale?

No, non esattamente. Voglio mettere a fuoco l’ambiguità che regna nel mondo delle percezioni, dei fantasmi e della psicologia.

Psiche, per i Greci, era una dea: aveva un corpo, esisteva in quanto tale.

Ora, per noi, la psiche ha raggiunto una forma molto più astratta eppure altrettanto concreta – se non addirittura di più – di una dea nell’Olimpo.

Noi creiamo manifestazioni della realtà e, piano piano, ne scopriamo i dettagli, contribuendo a definirne il disegno.

Sono le nostre proiezioni a dare forma alla realtà, e questo vale anche nell’occulto.

Una cosa diventa vera se ci si crede abbastanza.

E, visto il mio amore per le parabole, le metafore e le storie fantastiche – che in realtà sono molto pragmatiche e reali – ho scelto di affrontare l’ambiguità del reale nel thriller psicologico.

Cosa, se non una manipolazione della realtà attraverso l’occulto, può incarnare il folle desiderio, la passione, l’amore?

In psicologia si parla spesso della rimozione, del dimenticare un evento tragico pur di sopravvivere alla quotidianità.

In realtà, cosa differenzia questo da un fantasma che torna ad abitare la realtà perché non è pronto a lasciarla andare?

Entrambe le cose sono eteree, inafferrabili eppure trasformano profondamente l’individuo che le vive.

In questa analogia, tra il fantasma e la coscienza, tra il senso di colpa e la visione, si svolge la mia storia.

Un luogo in cui le passioni travolgenti si infiammano senza resistenza, in cui le barriere crollano, i cuori esplodono e, forse, le anime guariscono.

Un’odissea nei generi dell’ambiguità e della tensione.

Un viaggio anche nell’erotismo, nella manipolazione, nell’occulto e nella magia.

Ma, soprattutto, un viaggio nell’anima dei miei personaggi, dei quali scopro, ogni giorno, sfaccettature che non avevo colto.

Ogni giorno diventano sempre più umani, sempre più sfumati e, in un certo senso, sempre più ambigui.

Il bello di scrivere, per me, risiede proprio nell’opportunità di esplorare campi dello scibile che altrimenti non avrei conosciuto.

È come viaggiare con la mente.

Scopro così che le dimensioni che mi circondano sono tante quante le persone che vivono questa realtà.

Anzi, molte di più, perché Erik, Morgana, Euridice, Paolo, Aurora sono, per me, persone che esistono, che pensano, che hanno una visione del bene e del male e problemi da risolvere.

Ho consegnato il primo volume alle beta reader e sto ricevendo i primi riscontri, molto utili soprattutto per comprendere se lo stile, la struttura verbale e il flusso degli eventi risultano efficaci.

Questa saga è un’avventura creativa davvero ricca, che mi ha messo alle corde già a partire dal secondo volume.

Tutto fluisce in modo più sottile, subdolo.

È un labirinto anche per me, del quale conosco “più o meno” il finale, ma che mi costringe, ogni volta, a riscrivere quello che pensavo sarebbe accaduto.

Alla prossima pagina

La rivoluzione in corso

In questi giorni, finito Il Paradiso delle Signore, ho approfittato per recuperare un po’ di contatti con la mia famiglia, sparsa tra Italia e Francia.
Sono andato da mia sorella. Lei fa un lavoro incredibile, è un’infermiera. Di quelle che stavano in prima linea durante il Covid, alle quali tutti inneggiavano balletti e promesse di aumento. Potete immaginare come sia andata a finire.
Ma non è questo il punto.
Parlando con lei, è venuto fuori l’argomento dell’intelligenza artificiale. Come sapete, ci lavoro da ormai più di quattro anni. Il mio approccio è prettamente artistico, cerco di comprenderne le potenzialità, i limiti.
Lei lo ha usato per organizzare il suo viaggio:
“Voglio andare lì, organizza qualcosa che sia X, Y, Z.”
E ovviamente ChatGPT ha organizzato tutto perfettamente, come un bravo assistente.
E mi sono detto:
“Pensa, il suo lavoro, che è a stretto contatto con gli esseri umani, è uno dei pochi che non ha un reale vantaggio se viene coadiuvato dall’implementazione di ChatGPT.”
Questo vuol dire che il suo settore non verrà segnato così tanto dalla rivoluzione in corso.
Non è un discorso nuovo, ma è bene ribadirlo: i lavori che richiedono il tocco umano, che sono i lavori di prossimità tra esseri umani, non saranno in crisi, anzi.
Se posso fare una previsione personale, penso che nei prossimi 5-10 anni ci sarà la fila per fare questi lavori, perché saranno meglio remunerati e più ambiti. Insomma, il panorama cambierà nettamente.
Ma per quanto riguarda i lavori intellettuali?
Quelli che richiedono conoscenza di regole, logica, insomma, quelle cose che l’IA sembra fare benissimo?
Cosa succederà a tutti questi lavori che beneficiano enormemente dell’apporto dell’IA?
Penso che in questo caso, come dice il CEO di Nvidia, non sarà l’IA a rubare il lavoro, ma le persone che la usano.
Come se, nell’arco di pochi anni, gli LLM fossero diventati qualcosa alla stregua del computer o dell’elettricità. Strumenti che ci aumentano.
Sarebbe facile pensare che il nozionismo, la conoscenza in generale siano diventati merce di poco valore, dato che si può accedere a tutto con un clic o una chat.
Ma non è così.
E vi spiego il perché.
L’IA non fa altro che restituire la risposta statisticamente più corretta alla vostra domanda, usando come bacino di informazione tutti i dati a disposizione.
Una specie di Internet in scatola.
Seguendo questo ragionamento, ciò che farà la differenza nell’output non è l’IA, ma la qualità della domanda.
Si ritorna all’uomo come cuore dell’intento.
Senza l’uomo, l’IA rimane ferma.
È l’intento umano, il desiderio di scoperta, di trasformazione, ad animarla.
E come si migliora una domanda?
Come si fa a fare domande e richieste sempre più specifiche, acute, profonde?
Studiando.
Studiando come non mai.
Filosofia, lessico, ragionamento logico.
Tutto fa brodo.
Solo così sarà l’IA a lavorare per voi.
E non il contrario.
Alla prossima pagina.

La buona scrittura

Si dice di Shakespeare che, anche se recitato male, sia interessante.

Sto ripensando a questo proprio ora: a come la potenza di una storia, una vera storia, trascenda da come viene eseguita.

Una buona storia funziona anche se girata male, letta sul treno con le pagine ingiallite o guardata su un piccolo televisore catodico.

Una buona storia funziona perché è lo scheletro dell’intrattenimento.

Non vi può essere sospensione della credulità senza una buona storia, credibile, forte, colma di trasformazione ed emozione.

Per questo spendo così tanto tempo a strutturare le mie storie.

Le definisco e costruisco una griglia, come il ferro armato per il cemento.

La storia, intesa come una struttura di avvenimenti che definisce personaggi, emozioni e significati, è l’anima di un libro, un film, un videogioco.

Ho in mente questa mia teoria della pizza. L'evoluzione da pasta a pizza, poi a prodotto farcito e cotto, come potrebbe essere vista un’opera d’arte: prima pensata, poi prodotta, farcita dal marketing e consegnata al consumatore.

E mi dico che mi sono fregato da solo.

La mia teoria della pizza, in realtà, è la teoria della pasta madre, che altro non è che una reazione chimica tra acqua, farina e sale.

Che altro non è che la vita.

Il ruolo dell’artista è mettere vita nelle sue opere.

Dare letteralmente vita: ecco la responsabilità che mi prefiggo.

Ho avuto un primo desiderio sei mesi fa: scrivere la storia di un uomo che trovava il potere di entrare nella mente della gente.

Uno psicanalista che riusciva a curare entrando fisicamente nella mente di chi voleva aiutare.

Un primo tema della paternità era presente, ma era solo l’inizio della ricerca.

L’inizio è un po’ come andare a scoprire “quello che si vuole scoprire”.

La ricerca della ricerca, in un certo senso.

In questi mesi ho lavorato sulla storia: un agglomerato di frasi, magari trenta.

Queste trenta frasi sono il frutto di strutturazione, modellazione e trasformazione, ma a livello alto.

“No, non in Francia, in Italia.”

Oppure: “No, non un fratello, ma un amico.”

Tutto muta come in una tempesta.

Ma lentamente un pezzo casca sulla carta. Poi un altro.

Ed emerge qualcosa di sfuocato, ma reale.

Si lascia riposare, così da guardarla un paio di mesi dopo con l’occhio di chi può dire:

“Ma tu davvero vuoi investire tutto questo tempo in questa roba?”

Oppure, più ottimista:

“Hm… sì, mi piace.”

E così, tra cinquanta idee cancellate e un paio sopravvissute, si passa alla seconda stesura “dell’idea”.

Poi, stesura dopo stesura, nell’ultimo mese ho concluso la prima “definizione a larghe trame della mia nuova saga in cinque volumi”.

E da un mesetto ho cominciato a scrivere le prime pagine.

Vomito generico, sfuocato anch’esso, ma piano piano comincio a vedere i personaggi, a conoscerli, a scoprirli.

Devo ammettere: poche cose nella vita mi danno tanta soddisfazione.

Alla prossima pagina.

Il pudore di esistere

Mi chiedo cosa mi spinga a considerare continuamente ciò che faccio inferiore a ciò che vale.

Mi spiego. Non faccio assolutamente fatica ad attribuire a qualcuno il successo che ha. Anzi, riesco a trovare argomenti che magari quella persona non aveva neanche immaginato. Riesco ad essere convincente, molto. Riesco a vendere ghiaccio agli esquimesi, quando si tratta di dimostrare una tesi.

Ma solo quando non si tratta di me.

Quando ho a che fare con il mio specchio, quando mi devo chiedere, per esempio, come mai quasi il 60% delle mie vendite viene da quello che si chiama “traffico organico”, cioè persone che hanno incontrato il libro dopo aver incontrato me, ma anche persone che non sanno nulla di me, o altri che hanno sentito parlare del libro (il famoso passaparola), ecco che il mio castello di certezze crolla.

No, non può essere perché il libro piace.

“È perché non sono abbastanza bravo a pubblicizzarlo con i canali a pagamento! Oppure è perché c’è qualcosa che non ho capito, qualcosa di sepolto e nascosto che sicuramente spiega queste vendite.”

Non può essere che qualcosa che faccio venda perché piace.

Ecco, di fondo è proprio questo che penso. E per quanto io provi ad estirpare da me stesso questa idea, a lottare contro il demonio della sindrome dell’impostore, ecco che di nuovo mi ritrovo a vedermi sotto quelle vesti.

Pensate che per anni (a volte mi capita ancora ora) una parte di me diceva che avevo fatto carriera come attore solo perché ero caruccio. Mai e poi mai possa anche balenarmi lontanamente nel cervello l’idea che io, forse, sappia recitare! Ora questa sindrome, almeno nel reparto “recitazione”, si è sedata. Ma ora ho capito perché! Perché si è accesa quella dello scrittore.

“Lascia stare, ma chi ti credi di essere? Kerouac?”

“È solo una perdita di tempo, non ci riuscirai mai.”

Lo dico a me stesso perché davvero, non ne posso più di questo mio atteggiamento.

Come posso riuscire a scacciare via questo pensiero? Come posso fare ad amarmi un po’ di più? A guardarmi nell’anima con una tenerezza sufficiente a quietare quest’agitazione che mi prende?

Sapete come faccio? Mi annullo. Fuggo da me stesso. Ecco perché recito, dirigo, scrivo, gioco a scacchi. Per dimenticarmi di me.

E il naufragar m’è dolce, in questo mar.

C’è chi pensa che mollare tutto sia la soluzione. Che forse bisogna rilassarsi un attimo, dimenticare non se stessi, ma il mondo. Ma come si fa? La mia è fame di vita, di riconoscimento, desiderio di esistere, di urlare la mia presenza, fino a che le lacrime si ghiaccino, fino a che il mio eco tocchi i confini dell’universo. Io voglio essere. Altro che non essere, caro Amleto. Essere, essere, essere!

L’erba del vicino è sempre la più verde… questo vale per il vicino, ma anche per il mondo là fuori dai nostri cuori. Ci sembra più verde e sapete perché? Perché lo vediamo con gli occhi dell’entusiasmo di chi non sa, di chi sogna solo le cose belle, e dimentica il sudore, la fatica e il lavoro che richiede ogni impresa. Persino la più poetica.

Quindi, olio di gomito, perseveranza ed entusiasmo!

Alla prossima pagina.

La mia voce narrante

Il narratore, "la voce", come dicono. Colui che racconta la storia.

Si dice che una storia non sia soltanto la storia dei protagonisti, ma anche la relazione tra colui che narra e colui che legge.

Da qualche giorno mi sto impegnando a definire meglio il tipo di narratore che voglio avere nella prossima saga. Chi ha letto La Divina Avventura e L’Anello di Saturno già conosce il mio amore per le prospettive originali.

Nella Divina Avventura, la storia viene narrata in una prospettiva di narratore limitato in terza persona al passato remoto, da Kato, l'antagonista.

Nell’Anello di Saturno, ancora in corso, ho invece optato per un narratore onnisciente in terza persona al passato remoto, nemmeno tanto limitato a Luca, visto che di tanto in tanto il Destino bazzica anche nelle anime di AnnaRonnieGeppoFloyd e il resto della combriccola.

Penso che ogni storia debba avere il narratore giusto. Un po’ come le lenti in fotografia. Se si fa un primo piano, bisogna usare un teleobiettivo, in modo che la prospettiva della figura non sia troppo distorta; se invece si inquadrano luoghi architettonici, meglio usare lenti larghe, addirittura grandangolari. Poi si possono anche fare esperimenti (come inquadrare un volto con un grandangolare, creando una specie di mostro), ma per una saga in cinque volumi, la scelta deve essere ponderata ed equilibrata.

Questa volta non voglio usare un personaggio per narrare la storia; voglio fondermi del tutto con il racconto, senza creare un filtro esterno. Questo mi toglierà la possibilità di filosofeggiare, ma creerà sicuramente più immediatezza. E considerando che sarà un thriller psicologico paranormale, voglio stare il più vicino possibile ai miei personaggi.

L’opzione classica sarebbe usare un narratore onnisciente in terza persona con il passato remoto:

Erik si fermò davanti alla porta. Il silenzio lo avvolse, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo. La porta portava ancora i segni di una vita che non c’era più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo. Tentò di respirare, ma l’aria gli sembrò improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna gettava riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”. Erik serrò i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fece un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posò sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormorò, mentre il respiro gli si spezzava in gola.

Questa opzione è un evergreen, che però ha il “difetto”, se vogliamo, di perdere di immediatezza, poiché la storia è “già avvenuta”.

L’altra opzione, molto in voga in questo periodo, è il narratore limitato in prima persona al presente:

Mi fermo davanti alla porta. Il silenzio mi avvolge, denso, opprimente, come una coperta troppo pesante. La porta ha ancora quel segno, quel ricordo di un tempo che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Provo a respirare, ma l’aria sembra non arrivarmi ai polmoni.
Dalla finestra, la luce fioca della luna riflette bagliori argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Stringo i pugni. Le unghie mi scavano nei palmi, ma non mollo la presa.
Faccio un passo avanti. Solo uno, e già sento il sangue gelarmi quando la mia mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», sussurro, con il respiro spezzato e la gola che brucia.

Interessante, ma ha un problema piuttosto enorme. Sono limitato ogni volta dal narratore. Non posso raccontare quello che passa nella testa di terzi se non cambiando del tutto prospettiva. Diventa molto, troppo limitante per i miei gusti.

Così, sono andato a cercare tra i miei romanzi in libreria se avessi qualcosa di ibrido. Niente… Mi metto quindi alla ricerca di una forma alternativa che mi possa dare la sensazione di immediatezza del presente, con la flessibilità della terza persona.

Ecco a voi il narratore limitato in terza persona al presente:

Erik si ferma davanti alla porta.
Il silenzio lo avvolge, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo.
La porta porta ancora i segni di una vita che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Tenta di respirare, ma l’aria gli sembra improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna getta riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Erik serra i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fa un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormora, mentre il respiro gli si spezza in gola.

Scrivete nei commenti quale stile vi piace di più.

Alla prossima pagina,

Flavio

Il nuovo anno non esiste

Quali saranno le mie risoluzioni per il nuovo anno?

Perché per il “nuovo anno”? Perché non decidere per “ora”? Perché non attivare sul momento qualcosa che penso possa migliorare la qualità della mia vita?

Gli anni stanno al tempo come le frontiere stanno allo spazio: linee immaginarie che servono a darci un riferimento, a imporci scadenze. Ma io, essere umano, anima in questa realtà, esisto al di là di queste imposizioni così sommarie. Non sono numeri, non sono quantificabile in minuti o chilometri percorsi. Sono più della somma delle mie parti.

Io sono io, ed è con me stesso che devo sviluppare una relazione costruttiva. Non con le imposizioni che mi vengono imposte o che, peggio, mi impongo per rientrare nella normalità.

Alla domanda: “Quali sono le mie risoluzioni per il nuovo anno?”, rispondo con un sagace: nessuna. Le risoluzioni voglio pensarle e applicarle subito, non aspettare il “momento giusto” per decidere di agire.

Nella vita ho sempre fretta. Sono fatto così, come il coniglio bianco che si porta dietro il ticchettio della vita, che mi urla di correre, di andare veloce, di non fermarmi mai.

Persino durante queste vacanze, mentre mi occupo della mia famiglia, dentro di me non c’è altro che la fame del successo. Il desiderio impellente di fare meglio, di riuscire in una nuova impresa, senza curarmi del tempo o dello spazio.

Sono successe tante cose quest’anno. Ho cominciato una saga in cinque volumi che sta avendo molto successo: ho superato ampiamente le 5.000 copie e ora punto alle 10.000, il traguardo iniziale che mi ero dato. Per alcuni sono numeri da fantascienza, ma per me non bastano. Mi conosco: non mi basta mai nulla.

C’è una poesia che ho scritto, Caos, che parla proprio di questo: un desiderio insaziabile, divoratore di mondi e interiora.

Ho finito di registrare l’audiolibro del quarto volume. Ogni audiolibro richiede moltissime ore di lavoro: una decina per la registrazione e 5-6 per l’editing. Faccio tutto io. Potrei delegare, ma non voglio. Voglio delegare solo quando sarò certo che la persona ingaggiata sarà pagata con i proventi dei libri, non di tasca mia.

Fare di propria mano mi permette di capire davvero il processo, di trovare soluzioni per migliorarlo, aumentarlo, automatizzarlo.

Il terzo volume aveva avuto un problema tecnico e non era disponibile su Audible. Ora, finalmente, dopo quasi due mesi dall’uscita, l’audiolibro è disponibile.

Con Antonello abbiamo lavorato alla copertina del prossimo volume, il quarto e penultimo della saga. Penso sia la più bella finora, subito dopo quella del primo volume, di cui sono innamorato come Luca lo è di Anna. Eccola qua:

Vi aspetto nei commenti per i vostri pareri a caldo!

A gennaio riprenderò Il Paradiso delle Signore per l’ultimo “rush” finale fino a fine mese. Poi, mi aspettano mesi di vuoto: la mia vera vacanza. In quel periodo intendo completare la saga de L’Anello di Saturno e arrivare al Salone del Libro di Torino nella miglior condizione possibile per presentare l’ultimo volume.

Sono tornato a dare al diario una dimensione intima e non didattica. Sono stufo di insegnare: non fa per me. Questo è un luogo di condivisione intima, fotografie in parole di stati d’animo, speranze e paure. Per conoscermi, per conoscerci.

Buon anno, e alla prossima pagina.

L'improvvisazione come esercizio creativo

Cosa differenzia un bravo attore da un grande attore?
È una domanda che mi pongo spesso. La risposta che mi sono dato per tanto tempo è questa:
"Un bravo attore, mentre reciti, dici 'che bravo!' mentre un grande attore, mentre recita, stai in silenzio, perso nel momento creatosi."

Ma ora questa risposta non mi basta. Mi sembra generica, facile.

Recitare è un mestiere che frequento ormai da più di vent'anni... vent'anni tra palco, cinema, serie TV. Sapete come ho cominciato? Con l'improvvisazione.

È stata l'improvvisazione a darmi il gusto della recitazione, del gioco. La Lega Italiana di Improvvisazione Teatrale è dove ho debuttato come giovanissimo attore, mentre frequentavo la Statale di Milano, a studiare informatica (perché volevo fare i videogiochi).

E ora, vuoi per caso, vuoi per destino, mi ritrovo a ragionare sulla qualità primordiale di un grande attore. O grande artista.

Ebbene, penso che sia la capacità di improvvisare all'interno di un dato terreno di gioco. Credo che sia la qualità effimera più fondamentale. Questo non vale solo per un attore, per i performer in generale, ma anche per gli atleti. Il gesto atletico è una fusione di grande tecnica ed estro. Proprio come l'improvvisazione.

Si vedono già in rete video di "attori virtuali" generati con l'intelligenza artificiale. Saranno sempre più credibili, sempre più bravi. Arriveranno anche ad improvvisare, ma mi piace pensare che l'estro dell'uomo, che coglie il momento – badate, non il momento "scenico" ma il momento vero, quello tangibile, che appartiene al mondo del reale – non potrà mai essere del tutto replicato.

Ecco, penso che l'artista che saprà cogliere il momento del reale avrà le porte sempre aperte.

Sta per finire quest’anno, se ne apre un altro, e davanti a noi abbiamo un futuro incerto, pieno di cambiamenti, minacce e paure. Ma ricordiamoci che siamo tutti – e dico tutti – animati da qualcosa di magico: uno spirito che si manifesta in noi e ci permette, quando siamo attraversati da uno stato di grazia, di ascoltare davvero la realtà, di trasmettere emozione, umanità, pathos.

Per improvvisare ci vuole coraggio. Spesso i registi vengono da me dicendomi: "Ottima, rifalla uguale!" e io rispondo: "Non lo so. Ma non credo." All’inizio mi guardano straniti: "Ma che dice Flavio?" e poi mi spiego.

Io non posso "rifarla uguale" perché una scena, un’opera, è il frutto di un afflato iniziale e di mutazioni dell’aria, del pensiero, del momento. Ogni volta è diverso. Ogni volta si rigenera.

In fondo, penso che fosse proprio quello che diceva Paganini con la sua frase spesso associata all'antipatia del personaggio, ma secondo me mal capita:
"Paganini non ripete."

Alla prossima pagina.

L'Arte è l'editing di un'idea

Più volte vi ho parlato della mia tecnica della pizza.

L’ho chiamata così perché mi ricorda appunto la lievitazione della pasta madre. In generale, si può dire che un’opera d’arte è come un piatto: ha una sua ricetta, una certa dose di improvvisazione.

L’opera d’arte è lei stessa una storia.

E questo è valido anche per le storie. Ovviamente, andare a scavare su tutte le luci e ombre del processo creativo è un abisso nel quale non voglio sprofondare oggi.

Quindi, per mantenermi sano, affronterò la mia tecnica: quella cosa tangibile, limitata, che ci dà tante certezze e, a volte, ci impedisce di trovare il nostro cuore. Ma spesso ci aiuta a volare.

Per me, tutto parte da un’intuizione, un’idea, che è fermentata dentro di me. Come lo abbia fatto è un mistero, ma è un misto di fisiologia e intellettualità.

È un processo passivo, in cui la parte attiva è proprio il "come vivere": cosa leggere, cosa mangiare, chi frequentare, a cosa dare attenzione.

Tutte queste cose sono i fertilizzanti del nostro orto e, come ogni cuoco sa, un buon piatto è fatto all’80% di buoni ingredienti.

Dopo che l’idea fermentata si manifesta finalmente dentro di me, davanti a me, allora nasce un senso di responsabilità verso quell’afflato.

Mantenerlo vivo. Farne qualcosa. Usarlo. Creare.

E così me lo tengo stretto, ma lo lascio vagare dentro di me ancora libero. Non lo scrivo, non lo dico nemmeno.

Lo lascio lì. È troppo fragile per affrontare il mondo, meglio tenerlo tra le pieghe del pensiero.

Piano piano, anche a mia insaputa, cresce, diventa qualcosa di tangibile, non ancora definito, ma comincia a essere costellato di parole: parole alte.

Vecchiaia. Vendetta. Amore. Destino.

A quel punto so di avere qualcosa che devo cominciare a crescere e a formare con la mia volontà. La tecnica. L’imposizione della volontà sull’idea.

La tecnica serve a domare il caos.

Superato il Rubicone, i miei studi cominciano a venire ogni giorno a bussare:
"Che cosa vuoi dire?"
"Come lo vuoi dire?"

Ancora non lo so! urlo a me stesso, invano.

Non c’è nulla da fare, l’idea ormai è padrona del suo campo e mi urla una cosa sola:
"Scrivimi! Buttami giù da qualche parte che sennò me ne vado e non mi rivedi mai più!"

E allora ecco che scrivo la prima frase, spesso in una cartella chiamata "Idee di storie".

Dopo aver ceduto al capriccio dell’idea, aspetto. Anche perché, a volte, c’è un’altra idea pronta a bussare alla mia porta nel frattempo.

Poi, però, arriva quel giorno in cui mi capita di ripensare di più a un’idea in particolare.

Proprio quella là.

Come mai mi torna in mente?

Forse perché mi è necessaria. Perché mi parla. Perché è interessante. Sì, è lei.

Ed ecco che comincia una fase più dimensionata, in cui decido che di quel blocco di marmo ne farò un’opera.

Ora non si scherza più.

Bisogna rientrare nei cardini: primo atto, secondo, terzo, quarto, quinto. Evento scatenante. Arco del personaggio. Debolezze, desideri. Chi, dove, come, quando e perché.

Risposte! Che prontamente mutano, perché l’atto creativo non è finito, anzi, si è semplicemente spostato verso altri livelli, più "alti", se vogliamo.

L’importante è mantenere vivo il fuoco che ha animato questo processo: quell’idea iniziale.

Quando ci riesco, l’idea iniziale diventa come una frase scolpita nel marmo.

A volte, quella frase è diversa dall’idea. Non può che essere così.

Un’idea è mutevole, non ha forma. Una frase è fatta di parole. Una frase è una definizione immutabile.

Ma grazie a questa frase immutabile, trovo la forza e la disciplina per andare avanti fino alla fine.

Cercando, con tutte le mie forze, di farla diventare bellezza, motivo di vanto e di sostentamento.

Alla prossima pagina.

Il futuro dell'uomo

Che cos'è un uomo? Cosa ci distingue da tutto il resto? Alcuni diranno "nulla", siamo tutti allo stesso livello: la pianta, la formica, il serpente, la gallina, il cane, l'uomo. Vita.

I neo-evoluzionisti dicono che esista solo una forma di vita, il DNA, e che tutto il resto non sia che iterazioni per migliorare la sopravvivenza. Scafandri diversi che ospitano sempre la stessa vita.

Per chi mi ha letto, conoscete il mio insaziabile desiderio di sognare, di credere nell'ignoto, in tutto ciò che non c'è. Ecco, penso che l'umanità risieda in questo spazio inesistente, in cui l'anima è regina e i sogni brillano.

Sono terrorizzato dalle macchine, dall'intelligenza artificiale. Eppure, la uso quotidianamente, ne vedo il potenziale, soprattutto per quanto riguarda l'organizzazione. Non a caso, i francesi hanno sempre chiamato il computer "ordinateur". L'ordinatore. Ha senso. In fondo, sono circuiti con angoli perfettamente retti, processori con la certezza dell'1 e dello 0, che si muovono senza stanchezza, senza difetto. I trattori dell'umanità. Inarrestabili, sempre migliori. Fa paura, no?

Sì, fa molta paura. In pochi anni, le IA saranno capaci di produrre contenuto illimitato, perfetto, colorato al punto giusto, su misura per ognuno di noi. Cosa significa? Significa che molti prodotti audiovisivi non esisteranno se non per i nostri occhi e solo per loro. Verranno prodotte milioni di serie al mese, e ognuna di esse varrà quanto un seme di riso. La cultura popolare rischia di diventare la cultura singolare. Ognuno sarà felice con la propria produzione, isolato in un bozzolo di illusione, convinto di aver prodotto arte con un semplice pulsante: "Guarda ora", "Produci arte".

L'arte non è solo un fine, ma un mezzo. Il processo artistico è fatica, ricerca, conoscenza. È un processo definito dall'imperfezione, e anche dalla consapevolezza che, a un certo punto, bisogna lasciar andare. L'arte e la creatività insegnano all'uomo che le esercita i suoi limiti, donandogli consapevolezza. La ricerca alimenta la cultura, il punto di vista. La creatività ci migliora.

Ma non è tutto oscuro, anzi.

Questi nuovi strumenti daranno vita a nuove forme di arte, a nuovi modi di percepire il mondo e la realtà. Torniamo al dilemma dello strumento: non è lo strumento a fare l'artista, ma l'artista a usare gli strumenti. E credo che continuerà a essere vero.

In questo, mi sento fortunato a poter usare questi nuovi strumenti, a poter, grazie a loro, imparare, studiare, formulare e ordinare in modi che prima avrebbero richiesto molto più tempo. Grazie all'elettricità, al computer, a internet, posso connettermi a tanti, sviluppare un rapporto dove so che sapete che dietro a queste parole ci sono io.

E penso che questo sia il futuro dell'arte digitale. Essa non morirà, anzi, stiamo per entrare in un momento d'oro. Ma avrà bisogno di questo rapporto che noi abbiamo. Avrà bisogno di un legame, tra l'artista, umano, e lo spettatore, umano anch'esso. E sarà la forza di questo legame a dare agli artisti la possibilità di esprimersi usando tutti i mezzi a disposizione.

Sarà la nostra mutevole imperfezione a salvarci. Noi siamo cambiamento, siamo vita, siamo ignoto.

Alla prossima pagina.

Qualità o quantità?

Cosa vuol dire fare arte? Cosa significa esprimersi? Perché?

Sono così tante le domande che mi pongo, domande esistenziali, certo, ma concrete. Cosa ci faccio qui? A cosa serve davvero fare arte? Forse dovrei occuparmi di cose più utili. Anche se ormai direi che è troppo tardi per laurearmi in medicina.

Ma no.

C'è qualcosa che mi spinge, ancora, a cercare di essere sentito, ascoltato, capito. A tentare con la forza delle parole, di toccare i cuori, le menti e le anime di chi ha la gentilezza di regalarmi il suo tempo.

Sapete cos'è lo Zeitgeist? È lo spirito dei tempi. Ieri leggevo un'intervista a Quentin Tarantino che dice che le serie e i film che escono sulle piattaforme di streaming (Netflix) non appartengono allo Zeitgeist. Sono come gocce nell'oceano della cultura, in quel fiume di parole e dati che ogni giorno sgorgano dai motori dell'umanità, dalle macchine e dai cuori di milioni di altri come me.

Penso che uno dei sommi desideri dell'artista sia proprio quello di appartenere allo Zeitgeist, di attraversare, anche per un solo momento, lo spirito dei tempi.

Il mio sarebbe di forgiarlo, di imprimere un pezzo di me nella coscienza collettiva. È un sogno grande, forse irraggiungibile in una società così veloce, che tanto facilmente sorvola o dimentica ciò che di profondo o sentito può essere scritto, detto, ripreso.

La contemporaneità è fatta di velocità. Di clip di pochi secondi che si rifanno alla cultura popolare, che non hanno autonomia, e per le poche che l'hanno, si tratta di un'autonomia tautologica. Parlano a sé stessi, di sé stessi.

Per chi mi conosce, tutto questo che racconto può essere trovato nelle mie poesie: "Reti sociali", "Sincronia". Le mie poesie sono l'espressione di questo desiderio, che a volte si fa disagio, quel tormento di essere straniero, alieno allo Zeitgeist.

Eppure, voglio farne parte. Da piccolo mi bullizzavano. Davvero. E uno dei ricordi più dolorosi per me è quello di ricordare con terribile precisione il desiderio che aveva quel piccolo Flavio di essere accettato da quelle persone che tanto gli facevano male. Non ho l'Anello di Saturno, non posso tornare indietro e dirgli che andrà tutto bene. Posso però guardarmi allo specchio, da uomo di 45 anni, e chiedermi come fare a crescere ancora.

Vi starete chiedendo perché del titolo. Qualità o quantità, che c'entra con lo spirito dei tempi, con l'arte, con il desiderio di appartenere?

C'entra eccome.

L'artista deve, in ogni secondo della sua creazione, decidere la soglia di compromesso che è disposto a fare per far parte del mondo che lo circonda. Spesso, si isola, e spera segretamente che qualcuno lo scopra e lo porti con il palmo della mano sotto la luce dei riflettori. Altre volte, abbandona la strada per strade meno burrascose, altre volte ancora, trova quell'equilibrio che gli permette di fissare la sua impronta.

Io credo nella teoria dell'evoluzionismo. E credo che valga anche per le opere d'arte. Perché un'opera possa superare il tempo, deve avere più di una qualità: deve rappresentare lo spirito del tempo, certo, per espandere il suo raggio d'azione, per toccare più cuori possibili, ma deve anche avere in suo seno la classicità dei temi e una profondità filosofica che le permetta di rimanere potente anche dopo che i tempi sono cambiati.

"Scrivi per i vivi, pensando che ti leggeranno da morto."

In una società connessa come questa, sembra che l'impronta si possa lasciare solo con la quantità. Moltiplicare i post, moltiplicare i video, moltiplicare! Di più è meglio! Ma non è sempre così, come dico in "Little Bang": è solo dopo lo zero che nasce quel che conta.

Quindi cosa dovrebbe fare un artista? Moltiplicare le sue creazioni a discapito dell'originalità, oppure aspettare e fare in modo che ogni singola creazione possa raggiungere il massimo numero di persone possibili?

Dipende. Dipende da molte cose. Io vedo la scrittura, la poesia, i miei libri, come il cuore pulsante della mia anima. In loro vi è tutto me stesso, il mio pensiero, il mio cuore, anche il mio sudore. Non posso moltiplicare ciò che è prezioso senza svalutarne il valore. Quindi propendo per la seconda opzione: approfondire e fare in modo che ognuna lasci un'impronta nello Zeitgeist. Come faccio? Con il marketing, con l'utilizzo dei social network, anche con questo Diario, che mi permette di avvicinarmi a voi in maniera diversa e chissà, incuriosirvi a leggermi in qualcosa di più profondo che un articolo su un blog.

Questo diario è la testimonianza del mio viaggio, un antro complesso di sistemi e desideri, di recitazione, scrittura, imprenditoria, nel quale, piano piano, cerco di trovare una quadra.

Alla prossima pagina.

Il mio discorso al Senato

Oggi ho deciso di condividere con voi il testo del mio discorso al Senato, con delle piccole note per confessarvi anche quali erano i miei stati d'animo e le mie emozioni in quel momento così importante.

Il premio si soffermava sulle "Soft Skills", cioè quelle competenze che non si acquisiscono con lo studio scolastico, ma che rappresentano l'interdisciplinarità della conoscenza acquisita nella vita. Competenze, nel mio caso, che spaziano da campi come la gestione emotiva, alla creatività fino allo storytelling.

Ve lo lascio in forma scritta. Se mi state ascoltando da Spotify, questa è la buona occasione per fare un salto sul sito flavioparenti.com nella sezione blog, potrete anche vedere il video integrale del discorso.

Alla prossima pagina!

(Avevo il cuore a mille e temevo di non essere all'altezza della situazione. Prima di me, molti medici avevano parlato.)

Buonasera. Io, come molti artisti, soffro della sindrome dell'impostore, quindi mi sento molto emozionato, ma anche fortunato a potervi ascoltare tutti, perché venite da tante sfere diverse e portate conoscenze diverse che io non possiedo. Io sono al 100% soft skills: l’artista, per definizione, non ha molte hard skills. Le mie competenze sono il parlare, per la recitazione, e lo scrivere, per la scrittura, che sono skills che tendenzialmente abbiamo tutti, ma che bisogna trasformare in emozione. Questa è la mia soft skill.

(Per un breve periodo nella mia mente mi era balenata l'idea di improvvisare e non appoggiarmi al discorso che avevo scritto, ma poi ho voluto rimanere fedele alla mia scelta iniziale.)

Ora, mi sono preparato un piccolo discorso, perché comunque siamo in Senato e volevo omaggiare questo momento. Prima di tutto, grazie, grazie mille per questo premio, perché sono davvero stupefatto di essere qui. Ricevere questo premio in seno al Senato per me è un onore immenso, quindi innanzitutto vi voglio ringraziare di cuore. Questo riconoscimento non è soltanto un traguardo (sono giovane), ma è un promemoria del viaggio che io ho intrapreso tanti anni fa. È un viaggio che ho cominciato sul palcoscenico a Genova, che poi ho continuato tra le telecamere di Cinecittà, e che adesso si è evoluto in modo che io non avrei mai potuto immaginare.

Io sono un attore, e quindi vivo le storie sulla mia pelle, nel momento presente, ora, "Hic et Nunc". E ogni scena, ogni battuta per me è un'opportunità di connettermi al momento, che è qualcosa di effimero, eppure è così importante. E lo vivete tutti: lo vivete voi avvocati, lo vivete voi medici. Il momento, essere connesso al momento, questa è l'arte della recitazione. Ma è una soft skill. E forse una delle soft skills più importanti, perché è quella che ti permette di connetterti con l'essere umano che hai davanti.

(Ho riportato il discorso come l'ho detto, ma dovete sapere che vi erano parti improvvisate e parti scritte. Proprio per via di quel pensiero iniziale, ho scelto di lasciarmi alcuni spazi in cui, chissà, avrei potuto rafforzare o dire qualcosa di diverso. Dove ho improvvisato, chiedete? Questo rimarrà un segreto...😂)

Quindi, racconto storie, vivo le storie, ma non mi fermo semplicemente alla recitazione. Io ho avuto la fortuna di fare teatro, di fare film, come abbiamo detto, di fare serie, videogiochi, e ogni volta ho capito quanto sono importanti le storie, perché sono il ponte che ci connette e che ci ricorda che non siamo soli. Una storia ci ricorda che non siamo soli, che qualcun altro sta vivendo le stesse cose che stiamo vivendo adesso. E questa è l'importanza delle storie. Una storia è un racconto che conduce sia colui che la dice che colui che l'ascolta in un'esperienza che lo trasforma.

Ho trovato poi nei romanzi la forma più adatta per me, per dare vita alla mia creatività. La scrittura, nella sua forma più pura, mi permette di esplorare le sfumature della realtà e soprattutto di me stesso, perché fare arte significa anche guardare se stessi, produrre qualcosa che è fuori da sé e poi, come uno specchio, sentirne l'eco e crescere attraverso questa ripetizione. Insomma, ho capito che raccontare le storie per me è il motore della mia anima. È la fiamma che alimenta ogni mia azione, che sia teatrale, cinematografica o letteraria, perché la creatività accende l'anima. E senza creatività la vita è povera, a prescindere dal lavoro che fate.

(Qui cominciavo a sentire la voce tremare. Non volevo andare lungo, non volevo tediarli. E poi non volevo sembrare come se "me la stessi tirando". È difficile quando si prende un premio, non cadere nell'autocelebrazione. E pensate, mi è venuto in aiuto proprio questo diario. Perché scriverlo non solo mi ha permesso di legarmi a voi, ma mi ha anche dato nuovi strumenti, poiché ogni articolo è per me un nuovo mondo, una nuova scoperta che man mano sta forgiando la mia poetica.)

E in questo senso, prendere un premio come questo mi fa riflettere su quanto sia importante coltivare queste soft skills: storytelling, creatività. Cosa sono? A cosa servono? Servono. Servono a collegarci, servono a riconoscere l'altro uomo, si trasformano in empatia, ma non solo, anche in capacità di prevedere ciò che l'altro farà, perché è in ascolto, perché si percepisce l'umanità che si ha davanti.

Quindi, grazie. Grazie a chi ha creduto in me. Colgo l'occasione per ringraziare la mia editrice, Aurora Di Giuseppe, e grazie a voi per avermi riconosciuto questo valore.

(Questo che segue, come è ovvio, è un tema a me molto caro, e mi ha emozionato aver avuto la possibilità di poter, appunto, farlo emergere in un contesto così importante.)

E finisco con qualcosa di estremamente importante, che sarà al centro del dibattito dell'arte dei prossimi vent'anni e che approfitto per mettere sotto la lente adesso. Io questo premio lo dedico a tutti coloro che, in un mondo di intelligenze artificiali che sembrano pronte a sostituirci, continuano a credere nell'anima, nella forza del racconto umano, ispirato e imperfetto. Perché sarà sempre e solo la nostra umanità a restituire significato, connessione e speranza.

Grazie.

La potenza dei rituali

La potenza dei rituali

Nella vita creativa, la disciplina sembra spesso in contraddizione con l’ispirazione, eppure, più cresce la mia esperienza come scrittore, più mi accorgo di quanto sia essenziale costruire delle abitudini precise per alimentare il processo creativo. Oggi voglio parlarvi del valore dei rituali, quei momenti che, ripetuti giorno dopo giorno, diventano una bussola per la mente e il cuore, e mi aiutano a mantenere la rotta verso l'obiettivo.

La routine come alleata della creatività

C’è un’idea romantica della creatività, secondo cui l’ispirazione arriva come un lampo improvviso, dal nulla. E' così, ma l'ispirazione ha bisogno del terreno giusto su cui crescere. La creatività prospera quando viene coltivata quotidianamente, attraverso riti, routine. La disciplina, paradossalmente, libera la mente e crea lo spazio in cui l’ispirazione può fiorire.

Molti scrittori e artisti di successo hanno riconosciuto l’importanza di questo legame. Murakami, per esempio, inizia ogni giornata con un rituale immutabile: si sveglia all’alba, corre, e poi scrive per diverse ore. Stephen King ha una routine altrettanto rigida: scrive ogni giorno alla stessa ora, indipendentemente dall’ispirazione del momento. Questo mi ha fatto riflettere su quanto sia fondamentale costruire una routine che non dipenda dall’umore o dalle circostanze.

Nel mio caso, ho tante routine.

Camminare per risvegliare mente, cuore e anima

Uno dei momenti centrali della mia giornata creativa è la camminata. Cammino molto, come facevano i pensatori greci, convinto che il movimento del corpo risvegli non solo la mente, ma anche il cuore e l’anima. C’è qualcosa di potente nell’atto del camminare: è un modo per allontanarmi fisicamente dalla scrivania, ma soprattutto per liberare la mente dai pensieri che mi opprimono. Le migliori intuizioni spesso arrivano proprio in questi momenti di movimento, quando il respiro si fa regolare e la mente si lascia andare.

Dopo la camminata, il ritmo della giornata varia a seconda della fase di scrittura in cui mi trovo. Se sono in fase produttiva, quando c’è bisogno di macinare parole, il mio momento migliore è la mattina, dalle 9 alle 12. In queste ore, con la mente fresca e il corpo energizzato, mi siedo e lavoro senza interruzioni, lasciando che il flusso creativo prenda il sopravvento.

Quando invece sono nella fase di ricerca di idee, il mio orologio creativo cambia completamente. Le notti diventano il mio rifugio. Dalle 23 alle 2, nel silenzio della casa, mi immergo nel processo di strutturazione, di riflessione, lasciando che le idee emergano da quel terreno fertile che si crea solo quando tutto il resto del mondo dorme. È un momento quasi mistico, in cui la mente si distende e si apre a nuove possibilità.

Questa routine, però, non è nata da un giorno all’altro. Ricordo ancora quando scrissi il mio primo romanzo, "La rovina dell'anima" (mai pubblicato), a Parigi, all'Île Saint-Louis. Ogni mattina, alle 10:00, mi sedevo in un piccolo bar e ordinavo un caffè americano da 8 euro (prezzi folli, lo so!). Il caffè fumante accanto a me diventava parte del mio rituale quotidiano, e lì, seduto per due ore, cercavo di scrivere. Alcuni giorni non riuscivo a mettere giù nemmeno una parola, altri invece le idee fluivano senza sforzo. Ma più eseguivo quella routine, più mi rendevo conto che le parole sgorgavano con maggior facilità. La costanza era la chiave.

Il potere della costanza

Ricordo che durante la scrittura de "La rovina dell'anima", la mia prima opera, la costanza era tutto. Era una scrittura esplorativa, in cui non avevo una chiara direzione, né sapevo dove la storia sarebbe andata a parare. Ogni giorno mi sedevo a quel tavolo nell'Île Saint-Louis con la speranza che le parole venissero a galla. Alcuni giorni ero bloccato, altri sembrava che le idee nascessero da sole, ma quella routine mi spingeva ad andare avanti, nonostante l'incertezza.

Quella esperienza è stata diversa rispetto alla scrittura dei miei volumi più recenti, come "La Divina Avventura" o "L'Anello di Saturno", dove ho iniziato con una struttura ben definita e una visione chiara della direzione narrativa. In quei giorni parigini, la scrittura era più un atto di scoperta: un viaggio nelle profondità della mia mente senza una mappa. Eppure, anche in quell'incertezza, la costanza del rituale ha avuto un ruolo cruciale. La disciplina quotidiana di sedermi a scrivere, indipendentemente dal risultato, mi ha insegnato che il vero progresso creativo non dipende sempre dall'ispirazione momentanea, ma dalla perseveranza.

Questo insegnamento è rimasto con me anche oggi. Sebbene il mio processo creativo sia più strutturato, continuo a credere che la costanza sia la chiave per superare i momenti di blocco o scarsa ispirazione. Siediti, comincia, e le parole alla fine arriveranno.

Il rito della recitazione

Oltre che scrittore, sono prima di tutto un attore, e la recitazione, a suo modo, è un rituale. Quando salgo sul set, mi immergo in un rito preciso, fatto di gesti, parole e movimenti, che si ripetono ad ogni ciak. Ma ho imparato a non essere vittima del rito. La recitazione non è un atto passivo; richiede uno sforzo continuo di libertà creativa. Mi impegno a spezzare e rompere quelle che sono le mie stesse idee, i miei schemi, perché quello che conta, alla fine, è l'osservazione del reale. Non importa quanto rigido sia il rito, se non riesci a vedere, ad ascoltare ciò che ti circonda, allora rischi di perdere l’essenza stessa della tua arte.

La vera sfida è trovare un equilibrio tra rito e azione, tra disciplina e creatività. È in questo bilanciamento che si riesce a fare dell'arte un mestiere produttivo. Non si tratta di scegliere tra rigore e libertà, ma di farli convivere, lasciando che il rituale guidi la mano, mentre la creatività rompe le barriere e apre nuove strade.

Alla prossima pagina

Come nasce l'ispirazione?

Oggi è mancata la mia prima grande Maestra di Recitazione, la direttrice della scuola del Teatro Stabile, Anna Laura Messeri. Una donnina forte, ruvida, diretta, con l'energia vitale di un leone e la sagacia di una volpe. Aveva i capelli corti, l'ho conosciuta a vent'anni e, come tutti i bambini davanti ai nonni, per me Anna Laura è sempre stata una nonna. Non l'ho mai vista invecchiare, perché l'ho sempre vista vecchia. Eppure, il suo cuore era ancora giovane, sempre giovane. Dalla scuola di recitazione traeva vita, dagli alunni linfa per alzarsi un'altra volta, per urlare, di nuovo, che la voce non arrivava, che non si capiva quello che veniva detto.

Una maestra del palco che ora parla tramite le voci delle centinaia di alunni che ha educato, molti dei quali vi sono noti, poiché diventati famosi.

Uno di loro sono io.

Voglio raccontarvi come Anna Laura affrontò il concetto di ispirazione. Voglio iniziare da lì, perché è il primo ricordo che mi è venuto in mente quando mi sono chiesto come cominciare questa pagina. Ed è successo il giorno in cui ci ha lasciati.

Non può essere un caso, caro lettore.

Me ne stavo sul palco dopo aver ricevuto dalla "Mess", come la chiamavamo noi, un foglio: un estratto del Mein Kampf di A. Hitler, che parlava di sport. Di come la gioventù dovesse essere sana, forte. Un estratto che esulava dalla politica folle di Hitler, ma che ne conteneva un altro lato, meno conosciuto.

Lo scopo era affrontare questo lungo testo come un monologo. Incarnarlo con la voce e il corpo. Dargli ragione. Perché sì, quando si recita, una delle meraviglie è poter essere qualcun altro, qualcuno che non conosciamo, di cui non condividiamo le idee, ma che, nel momento in cui lo incarniamo, diventa parte di noi. L'attore è mille uomini, mille volti, mille lati di mille pensieri. Recitare, proprio come leggere, arricchisce.

Recitare è leggere con il corpo.

Toccava a me. Il palco di prova era quello del Teatro della Corte di Genova. Una piazza d'armi da duemila spettatori, un palco nero, enorme, un San Siro dei teatri. Vuoto.

Solo la Mess, seduta, che aspettava di tranciare con un commento sagace il prossimo allievo.

Toccava a me.

Entro sul palco, il foglio umido in mano, su cui era stampato il monologo. Lo avevo imparato a memoria, ma ero ancora incerto, dovevo tenerlo in mano, per accertarmi che, in caso di un vuoto di memoria, avrei potuto contare su di esso.

Arrivo in scena e mi prendo un tempo. Credo sia un primo segno di consapevolezza recitativa. Non si può cominciare qualcosa di interessante senza prepararlo con il silenzio.

E così, aspetto. Mi godo il mio momento. Il palco. "Non è mica male, poi, questo teatro…" penso.

Passa un altro secondo ed ecco che la voce della Mess spunta dagli abissi della platea, rivolgendosi a quel giovane francese in camicia e jeans, pronto a decantare la follia.

«Eeeeeeee… che fai? Aspetti l'ispirazione?!»

L'ispirazione. In effetti, era proprio questo che facevo. Aspettavo l'ispirazione, il coraggio di cominciare. La scelta di abbandonare il crogiolo nel quale mi stavo cullando, come un abusivo immeritevole, del silenzio teatrale.

«Eh sì, Mess, devo partire bene!»

«Non devi partire bene. Devi partire e basta!»

Ecco, in summa, cosa penso sia l'ispirazione. L'ispirazione, nella sua più profonda forma, è la preparazione all'ignoto.

L'opera è ignota. Nessuno può sapere come sarà l'opera d'arte nella sua forma finita, perché il processo della creazione è esso stesso l'arte. È organico, rispecchia l'anima del momento, ma anche il tutto che è l'artista.

L'ispirazione viene da "in-spiratio", inalare. L'ispirazione è il momento in cui ci si solleva da terra, ci si sublima in un vuoto teso a lasciarci in mano all'ignoto. Il momento in cui si fa entrare l'aria per poi eseguire, urlare, piangere, ridere, distruggere e creare.

Quindi, ragionandoci, cara Anna Laura, avevi colto il mio talento, l'ispirazione, e subito mi dicesti come portarlo avanti. Eseguendo. Imparando la tecnica. E facendo quel passo avanti.

E ogni giorno, da quel giorno, un passo avanti è stato fatto. E mille altri ne farò, Mess.

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Libera la creatività

Quando ero piccolo, mia mamma mi faceva giocare a un gioco di associazione libera. Funzionava così: "Pensa a una parola e dilla, la prima che ti viene in mente". L'altro giocatore, dopo aver sentito la parola, doveva dire la prima parola che gli veniva in mente, connessa a quella appena detta. È un gioco di associazione libera, in cui, grazie all'istinto e al vocabolario, si possono allineare concetti che, se troppo ragionati, non finirebbero mai insieme. È un ottimo modo per fluidificare l'immaginazione e sviluppare quello che si chiama "pensiero laterale".

Il pensiero laterale è quella forma di pensiero che permette di utilizzare una conoscenza normalmente associata a un determinato campo del sapere, in un altro campo. Spesso le idee rivoluzionarie sono figlie del pensiero laterale. Persino le invenzioni lo sono. L'osservazione del mondo è il primo spunto di creatività, ed è anche quello più inesauribile.

Ma la fluidità di pensiero non basta per generare qualcosa di davvero nuovo. Serve anche lo studio. Prendiamo l'esempio del gioco che facevo da bambino: quale era, secondo voi, lo strumento utile a migliorare il gioco? Il dizionario. Più i giocatori conoscevano parole difficili, più il gioco si innalzava verso vette interessanti.

In effetti, basta pensare ai due giocatori. Immaginate di avere Platone e Kant che giocano a questo gioco, oppure Baudelaire e Dante, sarebbe interessante.

Dante: "Inferno"
Baudelaire: "Spleen"
Dante: "Maledizione"
Baudelaire: "Fleurs"
Dante: "Amore"
Baudelaire: "Desiderio"
Dante: "Beatrice"
Baudelaire: "Vampira"
Dante: "Lussuria"
Baudelaire: "Decadenza"
Dante: "Purificazione"
Baudelaire: "Abysses"
Dante: "Redenzione"
Baudelaire: "Noia"
Dante: "Eternità"
Baudelaire: "Ombra"
Dante: "Luce"

Insomma, ci sarebbero dialoghi da immaginare! Questo esercizio mi ha aiutato molto a dare flessibilità al mio modo di pensare. Credo che sia anche grazie a questo che sono riuscito ad applicare il pensiero creativo (nello specifico lo storytelling) a molti altri aspetti della mia vita.

Per esempio, quando fondai insieme a cinque amici Untold Games, una società di videogiochi, nel 2014, utilizzai tutte le tecniche attoriali che avevo a disposizione per vendere il gioco nelle fiere di Los Angeles e San Francisco. Non solo: il fatto di provenire da un mondo "classico" come quello del teatro e della letteratura mi dava un vantaggio anche nello storytelling, sia inerente alla storia del nostro primo videogioco, sia nel raccontare la nostra storia come team di sviluppo.

Non esistono conoscenze inutili per la creatività, se manteniamo una prospettiva aperta e fluida, proprio come quelle parole. Le start-up più innovative degli ultimi anni spesso sono collegate a campi come l'agricoltura, che per anni è stato messo da parte, considerato poco "moderno".

Ognuno di noi è un tesoro di conoscenza, un forziere pieno di perle di vita che non aspettano altro che essere infilate in una collana. È il motivo per cui spesso si suggerisce al creativo di "cominciare da ciò che conosce", non tanto per un fatto egotico di raccontare se stessi, ma per partire proprio da quelle caratteristiche che renderanno la sua invenzione unica.

Come diceva Carmelo Bene, e non smetterò mai di citarlo: "Siate voi stessi dei capolavori". Perché alla fine di tutto, il vero valore aggiunto non è l'idea, non è nemmeno la realizzazione, ma è la persona che incarna questi due aspetti.

Un altro modo di stimolare la nostra creatività è fare vuoto e recarci in un luogo a noi sconosciuto. Affidarsi a quello che io chiamo, nella Divina Avventura, "l'istinto della materia". Noi siamo fatti, come tutto, di materia. E questa materia ha una sua intelligenza. Non solo, ognuno di noi ha un'intelligenza unica, cucita addosso, e a volte, vuoi per paura o per destino, seppelliamo l'istinto della nostra materia dietro un costrutto sociale, allontanandoci da quello che è il nostro demone, inteso come animale interiore, compagno protettore (daímōn, dal greco).

Forzandoci a spostarci verso un territorio sconosciuto, stimoliamo una cosa di cui tutti hanno paura: la crisi. La crisi, per il creativo, è benzina. La crisi accende il demone che c'è in noi, e se ci siamo preparati bene (in sostanza, se abbiamo letto il vocabolario a dovere e imparato, quasi a livello muscolare, nuove "parole") allora in quel momento di crisi brilleremo di un'intensità rara, perché, con le spalle al muro, il creativo ben allenato dà il meglio di sé.

  1. Allenare il pensiero laterale
  2. Arricchire la tecnica
  3. Andare a giocare nella vera arena: quella della nostra crisi.

Ecco i tre passi fondamentali per creare insieme alla nostra anima..

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L'arte dei sogni

Mi piace sognare, immaginare, proiettarmi in mondi che non esistono ancora e che, con la volontà e un po' di caparbietà, possono trasformarsi in realtà.

La mia indole—un po' come quella di Luca nell’Anello di Saturno—è sempre stata quella di un’anima che fugge dal reale. A volte per eccessiva sensibilità, a volte per vera e propria misantropia. Che ci posso fare? Amo la solitudine, amo vagare nel vuoto, senza meta, con occhi e orecchie ben aperti, alla scoperta di qualcosa che mi apra nuovi mondi.

I sogni, gli incubi...

Oggi voglio affrontare questa dimensione magica nella quale proiettiamo tutto noi stessi. Che esperti filosofi, psicoterapeuti e scienziati hanno provato a decodificare, ma senza successo. Cosa sono i sogni? A cosa servono? E soprattutto, che impatto possono avere sulla nostra creatività?

Comincio con quello che per me è un dato di fatto. Più cresco, più i miei sogni si fanno ad occhi aperti piuttosto che nel sonno. Da piccolo avevo una relazione complice con i miei sogni; riuscivo, quando qualcosa interrompeva il mio sonno, a riprenderli, proprio come il secondo tempo di un film. Era molto divertente. Succedeva, per esempio, che vivevo una storia nella quale ero protagonista di un evento fantascientifico e, mentre mi avvicinavo alla base dove avrei scoperto un grande mistero, ecco che qualcosa, o qualcuno, all'interno del sogno mi metteva paura. E mi svegliavo. Ma, troppo curioso di scoprire come sarebbe andata a finire, mi rituffavo nel sonno per completarlo.

Un’altra cosa peculiare che mi succedeva era che i miei sogni avevano una "intro". Cominciavano spesso nello stesso modo: un corridoio allagato, io su un tronco che galleggiava verso la fine del corridoio, dove mi aspettava un grande orologio a pendolo. Ci finivo dentro, cadevo nel buio e mi ritrovavo in una gigantesca scacchiera. Da lì, la mia storia cominciava.

Ho sempre sognato storie. Con, come avrebbe detto il caro Aristotele: "un inizio, uno sviluppo e una fine".

Gli incubi, invece, sono sempre sfuggiti al mio controllo. Non sarebbero stati veri e propri incubi se fosse stato il contrario. La paura cos’è se non la consapevolezza di non avere alcun controllo sugli eventi? I nostri incubi sono la proiezione di tutto ciò che ci perseguita.

Se i sogni sono desideri, gli incubi sono paure.

Desideri e paure. I due magneti dei grandi personaggi della letteratura. Credo che una domanda meravigliosa da porci quando affrontiamo la creazione dei personaggi sia chiedersi cosa sognano e quali sono i loro incubi. Questo ci impone una consapevolezza diversa della loro umanità, che poi si rifletterà nel modo in cui reagiranno alle sfide che la storia gli imporrà.

La funzione dei sogni nella creatività è molto simile a quella dell'arte. I sogni ci manifestano qualcosa che abbiamo dentro. Sono una proiezione del nostro mondo interiore in una forma codificata, "comprensibile" a livello conscio. Che è esattamente quello che dovrebbe essere un'opera d'arte. L'artista, nell'atto della creazione, attinge al mondo oscuro, al numeno, e manifesta quella visione attraverso la tecnica, in una forma detta "artistica" (che sia un dipinto, un film, una poesia, un tempio, ecc.).

I sogni sono la prima vera forma d'arte. Un'arte personale, intima, che serve a conoscersi, a scoprirsi, ad ascoltarci. Sono la bussola dell'anima che ci indica, attraverso un processo del tutto personale ma perfettamente calibrato alla nostra essenza, quale sia la strada da percorrere o da evitare.

I sogni siamo noi.

Chissà, forse un giorno potremo, grazie alla tecnologia, invitare qualcuno a sognare insieme a noi, sognare collettivamente. Forse in quel momento, quando i desideri di tutti si fonderanno con le paure degli altri, allora l'umanità troverà un suo equilibrio.

Nel frattempo, tocca a noi artisti creare questi ponti. Generare, attraverso un percorso di scoperta, un sogno, un incubo e fissarlo, proprio come una fotografia olografica, su tela, su carta, sul mondo, in modo tale che qualcuno, chiunque, possa avere l'opportunità, incontrando l’opera, di sognare un frammento di noi.

Si dice che l'arte unisce i popoli e penso che sia proprio questo il motivo. Perché, come su una nave in tempesta, l'artista tesse corde robuste che legano gli uomini tra di loro, permettendo loro di comprendere che quella solitudine che sempre li attanaglia continuamente è un’illusione. Che i loro sogni non sono tanto diversi da quelli degli altri, e lo stesso si può dire delle paure.

Quindi, sognate, sognate ad occhi chiusi e aperti. Sognate per creare ponti che possano irrigare il cuore dei nomadi che attraversano, nel tempo di un lampo di eternità, questa meravigliosa illusione chiamata vita.

Alla prossima pagina.

Buone Vacanze

È venuto il momento anche per me di staccare, di lasciarvi, ma solo per alcune settimane.

Le vacanze sono il momento in cui ci rincontriamo, in cui ritroviamo quella parte di noi che avevamo sepolto sotto gli obiettivi da raggiungere, le bollette o i problemi sul lavoro. Ora arriva un periodo così caldo che l'unica cosa che ci rimane da fare è appoggiare la testa al morbido cuscino e aspettare la frescura del tardo pomeriggio, tra un bagno e una focaccia con pomodoro e mozzarella.

Vi auguro, a tutti, italiani e non, brasiliani, argentini, francesi, cileni, tutti. Vi auguro un bellissimo ritorno alla vostra anima. Abbiatene cura.

Ci si rivede a settembre, come a scuola, un po' abbronzati, un po' cambiati. Con tanta voglia di stupire e quel pizzico di desiderio di tornare a frequentare tutto ciò che conosciamo: amici, sogni e maschere.

Nel frattempo, auguro anche una buona lettura a chi ha cominciato l'Anello di Saturno, a chi lo sta continuando con il volume due, a chi lo scoprirà tra un anno. Concludo con un "grazie" sentito verso tutti voi che mi seguite, che trovate il tempo di ritagliarvi cinque minuti due volte a settimana per far entrare nel vostro cuore le mie parole.

Ne sono onorato.

Ci rivediamo il 3 settembre.

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Come crescere come artista

Mi è stato chiesto, su Spotify, di approfondire la crescita dell'artista.

Prima di tutto dobbiamo capire cosa si intende per crescita. Il mestiere dell'artista è complesso e non è solo limitato alla sua arte, cioè alla sua tecnica, ma include la sua anima, il suo portafoglio, la sua vita sociale, la sua cultura, la sua mente, il suo corpo. Insomma, le caratteristiche che deve sviluppare un bravo artista sono tante e multidisciplinari. Così tanto che dobbiamo arrivare, per forza di cose, a una visione olistica di cosa sia un artista.

L'artista, per me, è colui che porta una nuova sfumatura di realtà a coloro che non hanno il tempo o la voglia di cercarla da soli.

Questo vuol dire che per me l'artista è prima di tutto un esploratore. Ma non esplora lo spazio, almeno, non principalmente. Esplora i suoi sentimenti, la sua anima. Per questo spesso viene confuso come un essere vanesio. È vero, molti che fanno arte lo fanno per vanità, fragilità, desiderio di essere riconosciuti. Ma non parlo di loro; parlo di quelli che hanno dentro una ferita, un desiderio irrefrenabile di comunicare, una curiosità che li porta ogni volta lontano.

L'artista deve esplorare gli altri, lo spazio e il tempo. Proprio perché, per via di questa caratteristica olistica, la sua crescita dipende da tanti fattori. Purtroppo, per ragioni di spazio e di tempo, mi focalizzerò sulla crescita del motore centrale.

Ci possono venire in aiuto alcuni detti sopravvissuti ai millenni di guerre e rivoluzioni:

"Mens sana in corpore sano."

Alimentate cuore e mente con cibo di qualità, che vi elevi, che vi predisponga al miglioramento e all'apertura.

"Più so, più so di non sapere."

Questo principio base, che obbliga coloro che hanno intrapreso un percorso di scoperta, a fare sempre un passo avanti verso l'ignoto, è la base del movimento. È il motore.

"Chi va piano, va sano e va lontano."

Per crescere, serve la resilienza della tartaruga. Non si ha successo la prima volta, nemmeno la centesima. Dicono che i primi cinque anni di qualsiasi disciplina non sono fatti per trovare il successo, ma per diventare bravi. Ci vuole tempo, dedizione e ascolto.

"Non mettere il carro davanti ai buoi."

Questo detto vuol dire molte cose insieme. Nel nostro caso, direi che prima di tutto serve una buona gestione dell'economia. Il mio suggerimento è di non indebitarsi, per evitare di essere costretti, soprattutto all'inizio della carriera, a fare rinunce per via di un debito. Ma vale anche per come ci si presenta. Umiltà, professionalità e ascolto sono competenze ignorate ma fondamentali nel mondo dell'arte.

Ultima cosa... Nel frattempo che fate questa strada, impervia, piena di buche e precipizi ad ambo i lati, spesso solitaria, avulsa dalla quotidianità, speciale poiché straniera, vi suggerisco di ricordare, di tanto in tanto, per la vostra salute mentale, un ultimo detto:

"Chi si accontenta, gode."

Perché a volte il talento non è riuscire a fare quello che amiamo, ma amare quello che facciamo.

Alla prossima pagina.

Razionalità e Creatività

Il segreto, nell'arte come nella vita, è agire.

"Non pensare, fare. Lo dice anche la Nike."

Ultimamente, sul mio feed di Instagram, non faccio altro che vedere motivatori, guru e geni della finanza che ripetono come un mantra che il segreto è nell'azione.

Ma forse è eccessivamente semplicistico pensare che solo chi "si alza" o "chi fa" possieda le chiavi del successo? Io, per esempio, faccio tanto, tantissimo, e vi posso assicurare che almeno l'80% dei miei tentativi si rivela essere un fallimento. Il 20%, invece, no. Ed è per questo che poi mi rialzo dopo la caduta e riprendo di buona lena da dove mi ero interrotto.

Qualcosa, dentro di me, continua a pensare che, forse, quel gran numero di fallimenti potrebbe diventare un gran numero di successi se solo io non facessi tutto così in fretta. Se avessi la pazienza di studiare. Il fare, il correre, l'agire devono essere supportati dal raziocinio, dalla capacità analitica che ci distingue da tutti gli animali: quella di prevedere, di vedere oltre.

In un certo senso, l'intelligenza è proprio questo: simulare nella nostra testa le eventuali possibilità e poi fare la nostra scommessa e "agire".

Ma per quanto possiamo provare a immaginare il futuro, è davvero impossibile. Se pensate che solo in una scacchiera fatta di 64 caselle e 32 pezzi, dopo la decima mossa, le combinazioni di possibili posizioni sono superiori ai numeri di atomi nell'universo (ma non era infinito?), allora mi pare evidente che non possiamo essere neanche capaci di prevedere il meteo del giorno dopo. Difatti, sbagliano spesso.

Ma, a parte gli scherzi, il mondo non è una formula, e il vento cambia quando vuole.

Nell'Anello di Saturno, quel vento si chiama Destino, ed è animato persino di una volontà. Anche lui vive nel dilemma se agire o non agire. Un Destino amletico: "essere o non essere? Fare o non fare? Troppo pensiero mi porta via, caro lettore!"

Tutto questo per dire che la creatività non è nulla senza la razionalità. E nell'arte, questa razionalità ha un nome: si chiama tecnica. Dal greco Tekne, arte. Insomma, l'artista è prima di tutto un tecnico, una persona maestra nel fare un gesto tecnico. Un attore raziocinante.

L'artista diventa protagonista del presente solo permeato di una tecnica forgiata negli anni, divenuta inconscia, che gli permette di partecipare con destrezza al presente e, nel mentre, renderlo eterno.

Ecco cosa vuol dire il detto "impara l'arte e mettila da parte."

Quando scrivete, recitate, ballate, dipingete, quello è il momento in cui dovete spegnere la testa. Lasciate che siano il cuore, l'anima e l'intuizione a governarvi verso l'ignoto, verso lo stupore.

C'è sempre tempo per aggiustare, levigare, incastrare e formalizzare.

Come dice De André: "Dal diamante non nasce niente, dal letame nascono i fior."

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Luci e Ombre

L'atto della creazione è un atto fatto di luce e ombre, di Ying e Yang. La luce, per sua natura, esiste solo se vi è ombra. Il processo che porta l'artista a raffinare la sua espressione fino a renderla immortale, che sia un testo, una statua o un palazzo, è un processo fatto di scelte, sacrifici e anche distruzione.

Dovete sapere che per un'idea buona, cento sono state sacrificate. Un mio maestro di regia mi diceva spesso di non affezionarmi alle mie idee. Gli americani hanno un termine per questo problema nella scrittura: "Kill your darlings", cioè elimina le cose che ti piacciono di più. Il motivo? Perché probabilmente sono quelle che mantieni nell'opera più per egoismo che per una reale necessità. Una sorta di vanità creativa.

Insomma, sono un essere pieno di contrasti. Penso che il segreto sia stupirli con un abbraccio. I nostri demoni, le nostre paure, sono il frutto proibito che va morso per essere finalmente scacciati dal giardino dell'Eden e affrontare il percorso che è la vita. L'arte trae forza dalle ferite della vita; l'ho spesso raccontato nelle pagine di questo diario.

Inoltre, il processo artistico spesso viene svolto in solitudine. Non solo l'artista scava dentro di sé per trovare perle di numeno da raccontare agli altri, ma l'opera stessa che crea diventa uno specchio e poi un oracolo.

Vi spiego cosa intendo: spesso mi capita di ritrovarmi davanti a un testo che ho scritto e leggerlo come fosse di qualcun altro. Se nel frattempo la vita mi ha cambiato, lo guardo con tenerezza, perché non vedo il testo, ma il Flavio che l'ha scritto. Ma quando mi capita di rileggere l'opera che sto realizzando, è molto diverso. Diventa il mio demone. È lei ad alimentare dentro di me paure e desideri. Tutte le luci e le ombre che ho proiettato al suo interno ora sembrano essere animate di vita propria, ed ecco perché l'arte che produco mi cambia.

L'arte è cura dell'anima. L'artista è, attraverso la propria opera, terapeuta di se stesso. E l'opera rimane alla fine del percorso come una manifestazione, un dono ai posteri del cammino ormai tracciato dall'artista . Una sorta di mappa emotiva, esistenziale e divertente da assaporare con calma.

Il concetto di Ying e Yang non è solo presente nell'arte, ma a ben vedere in ogni atomo di realtà. Dove vi è luce, vi è ombra. In noi, negli altri, nelle relazioni con gli altri. Siamo imperfetti, ed è in questa imperfezione che giace la necessità di continuo miglioramento, di continua crescita.

Dove vi è movimento, vi sono scelte. E dove vi sono scelte, vi sono rimpianti e rimorsi. Lo Ying e lo Yang è anche del tempo. Noi andiamo avanti, ma le nostre scelte no, ce le portiamo dietro per sempre. Anche questo, insieme all'amore, è un tema portante della saga dell'Anello: I demoni del passato…

A proposito di saga, le votazioni riguardo al tema della prossima sono concluse. Ha vinto (di poco) la fratellanza e subito dopo, la disillusione. Ora ho l'intenzione di lavorare su alcuni soggetti che integrino entrambe, e poi li condividerò con voi. E di nuovo piccola votazione. A quel punto avremo tracciato una direzione, un suggerimento che svilupperò in gran segreto.

Ma come sempre, sarete i primi a sapere tutto.

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Abbraccia la normalità

Chi ha paura della normalità? Io per molto tempo l'ho avuta. Qualcosa in me continuava (e a volte continua) a pensare che essere normali voglia dire non essere speciali. Ho il terrore di essere banale, in un certo senso. E penso che questo timore sia un motore del mio agire… quel desiderio profondo di dimostrare quanto io sia speciale, di far valere qualità che spesso la società fraintende: come la fragilità, la sensibilità, la sincerità.

Se vi fate un giro per i feed dei vari social network, scoprirete che raramente una persona (soprattutto se uomo) espone questi lati di sé. Vanno per la maggiore i maschi "Alfa", quelli che una nota pubblicità di profumo chiamava "Per l'uomo che non deve chiedere mai". Ovviamente questa frase è sparita dagli annali, perché chiedere non è una questione di educazione o di mascolinità, ma proprio di civismo.

Io sono uomo, e da quando sono piccolo ho dovuto avere a che fare con questa percezione (spesso autoimposta) che gli uomini vogliono dare di loro stessi agli altri: forti, duri, sicuri di sé. Ora si è aggiunto un universo di estetica, chirurgica e non, che fino a poco fa era relegata alle donne. Ma si sa, il mercato, per generare nuovi bisogni, crea nuove paure...

Non è diverso per le donne, anzi, lo so. Il genere femminile è, sin dai tempi dell'invenzione del primo mascara, molto più soggetto alla pressione dell'apparire "speciale" agli occhi della comunità di quanto l'uomo sia mai stato.

Si sa, i tempi cambiano, ma qualcosa, dentro noi esseri umani, rimane costante. È da lì che i classici traggono la loro linfa vitale, da quel motore che alimenta le nostre gesta, proprio come ai tempi degli antichi greci.

Cosa alimenta quindi questa mia paura di normalità? Da una parte, la realtà e i miei sogni che spesso fanno a botte. La realtà è una muraglia indistruttibile, che non guarda in faccia nessuno. E quando mi ci schianto, fa male. Parecchio.

Quindi, da una parte, vi è una fuga dalla realtà per paura di scoprire che in fondo io non sono quello che pensavo, o che speravo, di essere. Ma è insito in me anche il desiderio di appartenere alla comunità, di essere speciale, anche agli occhi degli altri. Di fare qualcosa per la società che mi dia un posto dove stare, un po' di amore. Da lì nasce la mia scelta di recitare, di scrivere, di emozionarvi.

Perché in fondo si torna sempre lì: l'amore. L'amore per se stessi, l'amore per un altro o un'altra, l'amore per il gruppo. Quel senso di appartenenza che tanto mi fa paura ma a cui, sotto sotto, anelo.

Per fare arte, per scrivere, per esprimersi sull'umano, è necessario andare alla radice, essere classici. Perché solo così, attraverso la ricerca delle radici dell'anima, si possono saltare le allucinazioni della contemporaneità e trovare i motivi veri delle azioni che ci muovono.

Abbiamo un continuo e inesauribile desiderio di sentirci amati.

Di questo parlo nell'Anello di Saturno. Ora è ancora presto per percepire la sua interezza, visto è uscito solo il primo volume, ma l'amore è uno dei temi fondanti della storia. L'amore nelle sue mille sfaccettature. I greci avevano varie parole per definirlo, perché ne vedevano le sfumature: Eros, Philia, Storge, Agape e molte altre.

Il mio viaggio è stato attraversare ognuna di quelle parole per comprenderla, nella speranza che chi deciderà di accompagnarmi in questo viaggio si ritrovi, alla fine, ad amare se stesso.

Perché, come dice Dalla in "Disperato erotico stomp": "Ma la cosa eccezionale / dammi retta / è essere normale."

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Anni 90, I valori perduti

Nel primo volume dell'Anello di Saturno esploro anni lontani, ma vicini al mio cuore: gli anni '90. Anni di cartoni animati su Italia Uno, i Cavalieri dello Zodiaco, Ken il Guerriero su La Sette, Mimi Ayuara, Hello Spank e mille altri.

Ma non solo: erano anni in cui non c'era il telefonino, né internet. Per sapere qualcosa, si utilizzava ancora la famosa enciclopedia in 12 volumi, il dizionario, l'atlante geografico. Il sapere era in casa, letteralmente, nei libri che stavano nelle biblioteche. Un sapere poco mobile, certo, ma che obbligava chi lo cercava a fare un passo avanti, a fare quella piccola fatica necessaria per poi apprezzare il risultato.

Mi ricordo ancora quando da piccolo mia madre mi diceva di andare a guardare nell'enciclopedia dopo l'ennesima mia richiesta di "cosa vuol dire questo?" Così ho imparato a cercare per indice alfabetico e, nel frattempo che leggevo la parola misteriosa, ne scoprivo anche altre, vicine. Un giorno, non ricordo esattamente a che età, mi venne voglia di aprire il dizionario a caso e leggerlo fino a incontrare una parola a me sconosciuta. La leggevo e poi lo richiudevo.

Nella parola vi è il pensiero, la possibilità di immaginare. All'inizio - non a caso - era il verbo. La vera conoscenza parte dalla conoscenza delle parole. E questo è qualcosa che Anna, nel libro, ha ben capito. Lei, così curiosa e desiderosa di conoscere il passato, le antiche civiltà, impara le parole, le lingue, che sono la chiave della conoscenza.

Ma gli anni '90 erano anche anni in cui i valori erano diversi. Non voglio assolutamente cadere nella retorica del "ai miei tempi era meglio", perché non è così. Il mondo è meraviglioso, e il suo incedere costante, a prescindere da noi, dagli anni che passano, è la manifestazione della potenza vitale che ci anima tutti.

La società muta, si sviluppa, va avanti. Cambiano le parole, gli usi, le abitudini e anche i valori.

Gli anni '90 erano anni in cui la domenica l'Italia si fermava per ascoltare il calcio alla radio nella speranza di aver fatto 13 al totocalcio. L'aggregazione sociale era molto più forte. Le tavolate e le adunate erano qualcosa di normale. I ragazzini crescevano frequentandosi fuori dal focolaio domestico. Vi era meno timore, da parte dei genitori, a lasciarli bazzicare le piazze fino a tarda sera.

I valori cattolici e cristiani erano molto più radicati. Il matrimonio e la messa erano parte integrante della maggioranza delle famiglie. Penso lo siano ancora, ma mi pare evidente che da quel punto di vista le cose siano cambiate parecchio. La multiculturalità porta con sé trasformazioni che spesso diluiscono le tradizioni.

Amo le tradizioni, penso che rappresentino l'apice della saggezza popolare. Sono riti che hanno superato la barriera del tempo, che sono sopravvissuti fino a noi perché veri, profondi. Ma il mondo va avanti, e certe tradizioni non sono più compatibili con i valori moderni.

Di questo parlo nella Divina Avventura. Il protagonista, Overton, si chiama esattamente come "La Finestra di Overton", un principio socio-economico che definisce questa finestra come il range di cose "accettabili socialmente". Questa finestra si muove nel tempo, proprio come Overton che continua ad evolvere, a prescindere da ciò che lo circonda.

Certe cose invece penso che non siano cambiate: la natura umana, l'amore, la paura, i desideri, quella dicotomia profonda che ci obbliga a cercare la felicità personale all'interno di una società fatta di mille altri come noi, a distinguerci senza però diventare eremiti. La nostra ricerca di un equilibrio.

Non a caso, i classici, siano essi inglesi, russi, francesi, greci, latini, italiani, sono ancora attuali. Chi mi legge conosce la mia posizione riguardo alla contemporaneità e alla classicità. Io sono per i valori antropologici che non decadono. Cerco di trovare, in questa nostra contemporaneità, dei valori universali. Nella Divina Avventura, è la ricerca della perfezione, il desiderio di appartenere a un gruppo, la religione come salvezza dal nulla di cui abbiamo paura.

E nell'Anello di Saturno, è l'amore, il destino, l'onere delle nostre scelte. Per chi ha letto il primo volume, questi temi ancora non sono emersi, sono solo abbozzati, come è giusto che sia. Ma vedrete che man mano che la storia si svilupperà, questi temi diventeranno dominanti e vi porteranno, spero, a farvi domande importanti sui rimorsi e i rimpianti.

Non smetterò di cercare di affrontare i valori e temi che ci spingono ad agire, che hanno spinto molti prima di noi e che spingeranno molti dopo di noi.

Come vi avevo anticipato, per la prossima saga voglio coinvolgervi. Quindi, ancora prima di condividere con voi una storia, voglio capire quali valori potrei affrontare.

Scegliete: vendetta, fratellanza, malattia, sacrificio, disillusione, redenzione o ossessione?

Alla prossima pagina

Come nasce un'idea?

Di sabato cammino. Quando riesco e trovo il tempo, mi faccio delle lunghe camminate per Roma. L'antica Roma, quella cinta dal Tevere, che si espone in tutta la sua bellezza senza però esibirsi. Non ne ha bisogno. Roma è Roma.

Camminando, mi vengono idee. Idee per il diario, idee per nuove storie.

Questa settimana ho finalmente completato la prima stesura del volume cinque dell'Anello di Saturno. Per chi mi segue da tempo, è facile immaginare come questo sia importante. È una saga che ho scritto per molti mesi, a cui mi sono dedicato anima e corpo per un'infinità di ore. Ho rinunciato a molti progetti cinematografici per potermi dedicare a questa storia che, come vedrete a breve con il secondo volume, che esce il primo agosto, cresce sempre di più.

L'Anello di Saturno è scritto in cinque volumi, come fossero cinque stagioni di una serie TV. Ogni volume è poi suddiviso in dieci capitoli, che sarebbero gli episodi. E poi, ogni capitolo è composto da precisi movimenti per renderlo autonomo ma allo stesso tempo portare avanti la trama. Insomma, è un lavorone! Il motivo di tutto questo? Perché sono figlio dei miei tempi, e voglio dare al lettore la possibilità di fermarsi senza interrompere il flusso, proprio come in una serie. In questo modo, non solo la saga è facilmente pensabile in un'ipotetico adattamento cinema/tv, ma possiede anche un proprio ritmo interno che culla chi la legge.

Oggi voglio parlare delle idee. Ne parlo spesso, è un mio tema ricorrente. Per me le idee sono intuizioni che provengono dall'osservazione, dall'ascolto della vita e anche da un'apertura di mente e di anima. Tutto questo è necessario per accedere a quel mondo sommerso, nascosto, che Kant chiama Il Noumeno. Il luogo dei non luoghi. Il luogo oltre il fenomeno, che esiste, ma non c'è dato conoscere.

Le idee sono vita, nascono. Una buona idea non esisteva prima della sua nascita. È proprio questo che la rende così attraente e preziosa. Spesso mi sono sentito dire che "l'idea non vale niente, è l'esecuzione che vale." Questo discorso, ahimé, è la fotografia del tempo in cui viviamo. Un mondo in cui il valore non sta nel mistero della creazione, ma nella sua mercificazione. Questa società ci insegna che vale solo ciò che può essere venduto. Per fortuna in Italia, vuoi per le radici culturali profondamente umanistiche che abbiamo ereditato dai nostri avi, vige ancora il pensiero che vi sono cose che hanno valore a prescindere dal loro prezzo. La vita, la salute, l'amicizia, l'amore. I valori, quelli veri.

Quindi io, che sono un umanista esistenziale, non posso che dare la priorità alle idee. Le idee valgono, tanto. Tantissimo. Perché averne di nuove non è facile. Richiede pazienza, ascolto e osservazione. Qualità che in questo furore sociale nel quale viviamo, tempestati di rumori, guerre, nervosismi e compiti da portare avanti fino alla fine della nostra vita, è difficile avere.

Quindi, per prima cosa, per avere idee bisogna avere tempo! Eccolo, il vero valore della vita. Chiedete anche all'uomo più ricco del mondo se potesse scegliere tra tutta la sua fortuna o cento anni di vita (sana) in più e scoprirete subito quale è il vero valore dell'esistenza: Il tempo. Se immaginiamo una buona idea come la figlia del tempo perduto ad ascoltare il mondo, allora ecco che il suo vero valore emerge.

Ma quale folle sciocco investirebbe la propria vita in una tale impresa?

Presente!

Amo perdermi. Amo la crisi. Amo le idee. Ho scritto tanto, ieri riguardavo un po' tutti i lavori che ho prodotto. Tre testi teatrali, cinque sceneggiature, due videogiochi, due libri non pubblicati, e poi la Divina Avventura, e ora cinque volumi dell'Anello di Saturno. In mezzo a questo, poesie, lettere d'amore e imprese di ogni tipo. Alla fonte delle mie azioni, c'è sempre un'idea. A volte buona, a volte scarsa, e poi, segue la fatica della realizzazione, onere che mi prendo io, poiché sono pessimo nel trovare collaborazioni.

Chissà, forse con l'Anello cambierà, e troverò un produttore interessato a svilupparne la serie. Le vendite stanno andando forte, sono uno scrittore emergente, ma i numeri che sta facendo la saga sono davvero ottimi, quindi, procedo con cautela e quando la saga sarà finita, ed emergerà il valore della mia idea per intero, sono certo che l'Anello di Saturno troverà il suo produttore.

Rileggendo questa pagina, mi rendo conto di essere caduto in un vortice di flusso di pensiero. Penso che sia questa la vera natura del diario: la condivisione dei miei pensieri, a volte intimi, a volte generalizzati, sulla vita, sul mondo, sul mio percorso d'artista.

Ho una domanda: pubblicando due volte a settimana, forse potrei fare un articolo "libero" e uno "a tema". Per quest'ultimo, ci sono degli aspetti che vorreste che io affrontassi? Se me li scrivete nei commenti, prometto di metterli nel diario. E di scriverci sopra. Vorrei che questo giardino, ormai più che fiorito, diventasse una vera fonte di dialogo tra me e voi, ma non solo nei commenti, ma nel cuore del testo che scrivo ogni settimana.

Quindi scrivetemi e ditemi se volete che affronti un tema, e lo farò.

Alla prossima pagina.

La crisi dello streaming

Ultimamente, quando vado su una piattaforma streaming, passo più tempo a decidere cosa guardare che a guardare qualcosa. Capita anche a voi?

Nel 2023, le piattaforme hanno registrato, secondo i dati ufficiali, una perdita complessiva di 5 miliardi di dollari. Questo ha spinto molte aziende a rivedere le loro strategie, portando a fusioni e - come sappiamo - aumenti dei costi degli abbonamenti. Oggi voglio condividere una teoria su uno dei possibili motivi di questa crisi, che coinvolge però i temi a me cari: lo storytelling, e anche dati analitici e intelligenza artificiale.

Ricordate i tempi di "Roma" di Alfonso Cuarón? Era il 2018, non molto tempo fa. Ricordate che meraviglia era aprire Netflix? Io sì. Ero felice di andare sulla piattaforma, perché sapevo che stavano spendendo tutti i loro sforzi valorizzando artisti, con lo scopo di portarli sulla loro piattaforma.

All'inizio di questa rivoluzione, dovete sapere che le piattaforme streaming non erano viste di buon occhio da Hollywood e dal cinema in generale. Spesso succede con le nuove tecnologie. Il mondo del cinema è cambiato radicalmente: abbiamo assistito, in questi ultimi dieci anni, al crollo delle presenze in sala, dovuto perlopiù alla nascita delle piattaforme, al 4K, ai televisori giganti a prezzi bassi, ecc.

Insomma, ci fu un tempo in cui lo scopo di Netflix sembrava essere quello di conquistare gli artisti per ottenere credibilità e nuovi clienti. Offrirono a Cuarón più del necessario per realizzare un film che nessuno voleva fargli fare, e cosa è successo? Il capolavoro. Eh sì, perché se date a un genio la possibilità di esprimersi in piena potenza e libertà, le probabilità che vi dia un capolavoro sono alte.

Ma poi, negli anni, l'offerta delle piattaforme è andata a omogeneizzarsi. Le serie troppo "originali" e poco ortodosse venivano fermate a metà strada (penso a "The OA") per via degli ascolti bassi, e nuove serie, simili alle precedenti di successo, si sono moltiplicate. Per quale motivo?

Netflix, Amazon, ecc., sono società definite "data driven", cioè che seguono i "dati". Il famoso algoritmo. All'inizio, però, di dati non ne avevano, e quindi hanno chiamato i migliori artisti, usando i "dati" del mondo. "Chi sono i migliori registi? I migliori contastorie? Assumiamoli e facciamogli fare qualcosa di creativo. Poi faremo un'analisi di cosa funziona e capiremo."

E così, anno dopo anno, i dati hanno cominciato a popolare i tabulati. Qualcosa funzionava, qualcos'altro no. E sono cominciate a cadere le prime teste: le serie che non sembravano produrre il traino necessario venivano bloccate in corso d'opera.

Quando i dati sono arrivati finalmente in cima alla piramide decisionale, gli uomini d'ufficio, lontani dal campo di battaglia dell'arte, hanno pensato di avere il sacro graal. I dati hanno modellato la nuova generazione di prodotti, con la certezza che così facendo si abbattesse il rischio di un fallimento, di una brutta opera d'arte. Ed ecco che quello che prima era una fucina di caos e di creatività, si è trasformato nell'incasellamento dell'emozione, nel tentativo di controllare l'arte con una formula. Ah, l'eterno dilemma tra forma e sostanza!

Questa teoria non è certo nuova e sono in tanti ad averla affrontata. Il settore è in crisi, e la soluzione sembra essere abbonamenti più alti, meno condivisioni, insomma, più introito. Molti tendono più a conferire l'onere della crisi al contesto industriale, piuttosto che a quello creativo.

Non sono un economista e il mio focus è sullo storytelling. Il mio è un invito a riflettere a tutti coloro che sono coinvolti in questo sistema produttivo complesso e articolato. Da Aristotele in poi, abbiamo sempre provato a meccanizzare la storia. A comprendere cosa rendesse una storia davvero interessante, a livello meccanico. E Questi dati e algoritmi non sono altro che un ennesimo strumento di analisi di ciò che è stato fatto, non di ciò che deve essere ancora scoperto.

Non esiste una formula definitiva di successo per una buona storia, o per un buon film o serie, perché non sono i dati a creare la bellezza, ad emozionare o a far sognare. È l'anima del poeta che affronta con coraggio la possibilità di fallire, e che salpa alla scoperta dell'ignoto, proprio come il protagonista della Divina Avventura.

Con l'avvento dell'intelligenza artificiale e dei modelli LLM, il messaggio della Divina Avventura diventa sempre più importante: noi dobbiamo cercare una sensibilità più vicina al cuore che alla matematica. Imperfetta, quindi umana. E poi, chi sceglie la strada dell'arte, deve lottare per quel desiderio, sperimentare, rischiare, tuffarsi verso l'ignoto. Il timone va dato agli artisti, non alle macchine!

Alla prossima pagina.

La sicurezza in se stessi

Lasciate che vi sveli un piccolo grande segreto sulla recitazione: non conta il modo in cui dite qualcosa, conta la sicurezza con cui emettete il significato.

Oserei dire che questo non vale solo nell'atto recitativo, ma in ogni cosa della vita che riguarda la comunicazione. La sicurezza del gesto è ciò che definisce un grande ballerino o un calciatore; la sicurezza delle idee è il primo segno di visione, che governa la realizzazione. Senza di essa, la deriva è alle porte.

Insomma, la sicurezza in se stessi sembra essere una componente chiave della realizzazione. Oggi voglio affrontarla e comprendere se posso darvi qualcosa, se posso, attraverso la mia conoscenza della recitazione, offrire un punto di vista fresco su una questione antica come la storia dell'uomo.

Prima di tutto, che cosa è davvero la sicurezza in noi stessi? Essere sfrontati? Essere certi di avere ragione? Avere coraggio? Avere la forza di non ascoltare altro che noi stessi? A sentire questo elenco, si potrebbe pensare che l'arroganza sia il tratto distintivo del sicuro.

Nulla di più sbagliato.

Questo elenco è ciò che si osserva quando si vede qualcuno sicuro di sé, ma non sono queste le forze che lo governano.

Una volta lessi una domanda: "Come si fa a riconoscere qualcuno di più bravo di noi?"

Una risposta mi colpì: "Se vedi una persona che ha spesso successo, e a te sembra che sia fortuna, hai trovato qualcuno di più bravo di te." L'ho trovata geniale come risposta, perché in effetti, l'ignoranza rende tutto magico, e ciò che proviene dal metodo e dalla ricerca, sembra, agli occhi di colui che ignora, frutto del caso e della fortuna.

La sicurezza in sé è merce rara, ambita da molti. Penso che in tanti la simulino, partendo da ciò che hanno osservato in coloro che la hanno davvero. E così, ecco nascere, per via dell'insicurezza, l'arroganza, la determinazione cieca, la violenza della volontà.

Un paradosso, non trovate? La ricerca di perfezione, se affrontata esteriormente, porta all'imperfezione. Proprio come Kato nella Divina Avventura, coloro che non mettono in discussione sé e il mondo, si ritrovano, ad un certo punto della vita, ingabbiati dai loro pregiudizi, incapaci di evolversi, come fa invece l'allievo Overton, che pur venendo dagli abissi della terra, dal deserto, dall'istinto della materia, raggiunge vette superiori al maestro. Overton è un ragazzo bestia, che però porta con sé la perla della crisi.

La sicurezza in sé, quella sincera, proviene, credo, dall'accettazione di questa nostra imperfezione, ma non basta. Deve essere corredata da curiosità, conoscenza e ascolto. Ho avuto, nella mia carriera, la fortuna di collaborare con molti artisti considerati geniali. Ognuno di loro aveva una forma di sicurezza evidente, ma era spesso accompagnata da un'anima fragile e piena di demoni latenti. Anche loro, come ognuno di noi, vivevano il conflitto interno.

La sicurezza in sé non è la fine della nostra guerra interiore, ma l'accettazione che il percorso che spetta a tutti noi, quello verso la conoscenza, non avrà mai fine, e che il nostro passaggio in questa realtà è un mistero che mai verrà svelato.

Ecco, penso che accettare questo mistero sia il primo passo per avere, nei confronti di noi stessi e degli altri, quell'amore necessario ad essere sicuri.

Solo lo stolto non cambia mai idea, no?

Alla prossima pagina.

La modernità Liquida

Oggi, in questa pagina, voglio scrivere a Janaina. Mi ha chiesto di parlare della modernità liquida, un tema profondo e interessante, al quale ho dedicato, tempo fa, una poesia che vi allego. Anzi, questa volta, ho anche deciso di leggerla e scriverla sulla pagina.

RETE SOCIALE

Profili liquidi,
Cangianti e statici.
Mentori di sé stessi,
Alunni del proprio eco.
Piroette digitali,
Gli occhi specchiati
Nell'oscurità
Dei loro display.

A volte, attingere a ciò che abbiamo fatto per approfondire, persino riscoprire parti di realtà, è un modo per aggiornare la nostra visione del mondo. Partendo da ciò che abbiamo prodotto, possiamo testare la validità dei nostri argomenti.

Io credo nel contenuto classico. Cosa intendo per classico? Intendo un contenuto che superi la barriera dell'essere "contemporaneo". Un testo classico parla agli uomini e alle donne di ogni epoca, poiché affronta i problemi essenziali della vita, in una forma che non è strettamente legata al momento presente, ma alla nostra natura.

Ogni uomo e ogni donna può rivedere se stesso in Ulisse, nel suo tentativo di tornare a casa. E cosa dire di Edipo, di Elettra, di Achille? E poi ci sono i classici del teatro: Amleto e il suo dilemma, Otello e la sua gelosia. Eterni, per sempre presenti.

Se da una parte vi è il classico, dall'altra parte vi è il contemporaneo, l'attuale, la moda. Quel perenne inseguire il presente per attraversarlo, per sentirsi a nostra volta legati a questo tempo che fugge e passa. I contenuti che parlano del mondo nel momento in cui viene osservato, che fotografano qualcosa che esiste davanti a noi, che affrontano paure e i desideri del momento.

Badate, non penso vi siano contenuti "superiori", se possiamo chiamarli così. È una questione di gusto. A volte ciò che è contemporaneo diventa classico. E spesso ciò che è classico, è anche contemporaneo.

La nostra società, digitale, cangiante appunto, malleabile più del vento, continua a inseguire la chimera del presente. I social network ci chiedono di essere attuali, veloci come non mai. Superficiali, in un certo senso. Anche perché penso che sia davvero difficile scavare nel profondo dell'anima con 180 caratteri.

Da questa velocità di pensiero e produzione scaturisce una fluidità di contenuti e di forme. Si passa dal testo all'immagine, dal suono al video, senza soluzioni di continuità.

E questo non vale solo per la forma, ma anche per il contenuto. Siamo in una società liquida, in cui la famosa finestra di Overton (che definisce ciò che è accettabile) si muove giornalmente, continuamente. In cui la sessualità si è fatta liquida, indistinta. In cui persino i credo e le ideologie non riescono a sopravvivere a questo asfaltamento del bianco e nero. L'Annullamento della dualità.

Eraclito sarebbe confuso, si potrebbe dire. Dov'è finita la sua meravigliosa dicotomia? Il bene e il male? La fame e l'assenza di fame? La sete e l'assenza di sete? Le cose esistono perchè hanno un loro opposto.

Una società così liquida ci mette davanti a un paradosso di importanza generazionale: che cos'è la realtà? È ciò che decidiamo noi, oppure esiste a prescindere dal nostro desiderio, dalla nostra mente?

Come sempre, non ho risposte, ma qualcosa mi suggerisce che questo mondo, questa realtà che ci circonda, sia ben più importante di qualsiasi nostro credo, qualsiasi nostra regola, e anche di qualsiasi desiderio.

Alla prossima pagina.

L'amicizia, valore supremo

L'amicizia, per me, è una forma d'amore nobile, un amore che non necessita di essere alimentato dall'Eros. Ho perso tanti amici e questo vuol dire che ne ho avuti tanti. Ma non sono mai stato uno "da branco", come si dice. Anzi, non mi piacciono proprio le dinamiche che si sviluppano nei branchi. Le trovo odiose, ripugnanti quasi. A me piace l'amicizia forte, il legame di pochi, che non si estende in area, ma si addentra nelle viscere dell'anima altrui.

Forse è per questo che da giovane facevo fatica a diventare amico degli altri, perché in un certo senso ricercavo nell'altro quello stesso desiderio di conoscenza profonda, di ascolto, di isolamento, che richiede quella qualità di legame.

Io sono uno di quelli che alle feste se ne sta accanto al muro, in attesa di quella persona con la quale parlare e, nel frattempo, osserva il mondo oppure si perde nelle proprie idee. Faccio una fatica tremenda a fare amicizia; sicuramente questo è dovuto alla mia riservatezza. Le mie origini celtiche, questo mio essere tutto sommato austero, di certo non aiutano. Rischio di sembrare arrogante. Forse lo sono, chissà. Di certo non amo discutere di cose di poco conto. E questo mi rende probabilmente antipatico ai molti.

Ho imparato però, nel tempo, ad ammorbidirmi, a sorridere e a concedermi un momento di sana leggerezza. Ecco, forse è proprio questo che mi manca: la leggerezza. Non a caso, la amo nella mia compagna e la adoro in mia figlia. Questa leggerezza, questo pensare scivolando, senza pensare, per i minuti della giornata, mi dona una tranquillità che non riesco a darmi.

Ho avuto molti amici, ma li ho persi. Vuoi per le distanze, per le incomprensioni, per il mutamento che la vita impone a tutti noi. Si cresce, si cambia lavoro, idee, desideri e ci si divide.

Spesso, quando poi rivedo amici di tempo fa, ricado in quelle situazioni che chiamo i "ti ricordi?". Non essendo più vivo il filo del presente, l'amicizia si ciba di quei meravigliosi ricordi che hanno alimentato un presente ormai passato. "Ti ricordi quando abbiamo fatto questo e quest'altro?" e giù a ridere di noi stessi, di ciò che eravamo.

Ma anche se è vero che il presente non permette di essere sempre legati, so che questi amici, nel caso ne avessi bisogno, mi aiuterebbero. E so che anche loro sanno che sono sempre qui, chiuso nella mia torre d'avorio, proprio come allora, disponibile a tutto per aiutarli. Proprio come allora.

E voi, come vivete l'amicizia? Quanto conta nella vostra vita? Siete riusciti a coltivare amici mai persi?

Alla prossima pagina.

Come affrontare la solitudine

In una poesia nominata "Piangente", parlo della solitudine. Nell'Anello di Saturno parlo di solitudine. Persino nella Divina Avventura. Nel rispondere a questa richiesta da parte di un ascoltatore, nel cercare di capire come affronto la solitudine, mi sono reso conto che i miei protagonisti sono esseri soli, emarginati, anime vaganti alla periferia del mondo. Ma badate, non sono infelici, solo soli perché privi di un riconoscimento, di un legame con il mondo che li possa far sentire appartenenti a un gruppo.

Io non appartengo, rifuggo dalle classificazioni, dalle bandiere, dal tifo. Penso che nell'eccesso di appartenenza si annidino forze pericolose.

Si dice che quello che lo scrittore scrive, lo scrittore è. Forse è così. Forse sono solo. Fondamentalmente lo siamo tutti in fondo, no? Pavese diceva: "Si nasce e si muore da soli.". Forse si vive da soli, anche, ma cullandoci nell'illusione che i legami che sviluppiamo con gli altri ci tirino davvero fuori dalla solitudine.

Molto tempo fa ho imparato una cosa che mi ha sconvolto la percezione delle cose. Sapete che nulla si tocca? In realtà, ogni particella ha dei campi magnetici che le impediscono di toccare le altre particelle elementari. Se persino gli elementi fondanti del creato sono soli, come possiamo noi non esserlo? Questo mondo nel quale viviamo sembra essere una tempesta di sabbia, i cui granelli non si toccano mai.

Eppure, eppure…

Eppure l'amore. Eppure l'amicizia. Eppure l'odio, l'invidia, la gioia e la paura.

Tutte queste emozioni sono la prova che non siamo soli. Che siamo legati in un certo modo a quello che ci circonda. E anche se gli atomi sono isole fluttuanti perse in un cosmo di nulla, noi, la nostra anima, se vogliamo chiamarla così, percepisce oltre i burroni, oltre le barriere, l'esistenza dell'altro.

Deleuze diceva che siamo deserti che parlano ad altri deserti, io aggiungo che in quel contatto metafisico ci irrighiamo a vicenda. Quei ponti ci collegano con il resto del mondo e ci permettono di sentire che siamo parti di un grande sistema, ben più grande persino della nostra immaginazione.

Il cosmo, la realtà, la vita sono concetti immensi, impossibili da abbracciare. Vanno ascoltati, come si ascolta il vento. Vanno amati come si ama la luce del sole in una mattina di maggio. Vanno accettati, come la morte. Solo così può essere affrontata la solitudine, con la certezza che essa non è altro che un'illusione.

Non siamo mai soli, abbiamo i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri bisogni. E poi, i sensi, i ricordi, le voci degli altri che ancora vivono in noi. Noi siamo il frutto di generazioni precedenti, in noi vivono altre mille antenati, e non solo: tutti siamo rappresentanti della vita, in continuo mutamento, alla ricerca di un legame, forse. Di un senso.

Personalmente, la solitudine è un'amica con la quale passo molto tempo. Mi piace, la amo. Amo quella sensazione di libertà che mi procura. Ma sono anche consapevole che questa valle nella quale mi crogiolo mi ingobbisce, mi ruba al mondo, mi attira nelle viscere della stasi. La solitudine è il momento in cui creo, in cui entro in contatto con me stesso, in cui volo e mi lascio andare all'immaginazione, ai desideri.

Ho paura della solitudine, ma non voglio fuggire da essa: perché la amo troppo.

Alla prossima pagina.

Come amarsi

Quando ho scritto una pagina riguardante l'arte e la bellezza, affermavo che l'importante, per alimentare lo spirito creativo, è circondarsi di cose amorevoli, da amare e che ci amano. Lo ribadisco: penso che sia davvero la prima cosa da fare per una sana igiene dell'anima. È essenziale scacciare via coloro che ci fanno essere la versione peggiore di noi stessi e abbracciare chi ci rende felici, rispettati e amati.

Tuttavia, una domanda mi colse impreparato: «Ma come faccio ad amarmi?». È una domanda potente, tragica, struggente. Colui che si pone questa domanda si trova in un oceano di caos, dal quale è difficile persino scorgere l'orizzonte, tanto alte sono le onde che lo travolgono.

Io sono un ragazzo fortunato, come direbbe Jovanotti, cresciuto tra le braccia amorevoli di due genitori a cui devo tutto. Mi hanno guidato, indicandomi i limiti con la severità che solo l'amore può esprimere: con un sorriso e una carezza, intransigente, ma per il mio bene. Per molti anni sono stati il mio rifugio e lo sono ancora, quando, a volte, affronto delle crisi, sia riguardo a scelte di carriera sia a sconvolgimenti emotivi. In quei momenti, vado da loro. E loro, inevitabilmente, mi ascoltano e mi rispondono.

A tutte le mie domande, da piccolo, mio padre rispondeva assiduamente, mentre mia madre mi spingeva a interrogarmi e a vedere il mondo attraverso le lenti dello scetticismo.

Dunque, alla domanda «come fare ad amarsi», non ho, purtroppo, una risposta. E non me la sento di darne una. Sarebbe banale, priva di vera sostanza. Potrei dire: «Fallo e basta». Perché è così: l'amore è una scelta, un atto di volontà primitivo e originale. Nell'Anello di Saturno, è addirittura l'amore che fa nascere il nostro mondo. In questa cosmogonia, siamo tutti figli dell'amore. E quindi, in un certo senso, siamo noi stessi amore.

Ma a volte succede che persino l'amore non ama sé stesso. Perché ha paura, teme l'ignoto, teme sé stesso, teme il dolore che l'amore può scatenare. Perché amare non è solo piacere e gioia. Amare a volte significa rinunciare, soffrire, lottare, vivere.

Anche a me capita di non amarmi a volte, di odiarmi quasi, quando sbaglio, quando non sono all'altezza, quando esagero, quando non agisco e so che dovrei farlo. Succede. Siamo tutti esseri fallibili. E forse, amarsi è proprio questo: accettare di non essere perfetti.

Alla prossima pagina.

Prosa e Poesia

Spesso mi capita di fermarmi davanti a una frase e di passare decine di minuti a elaborarne la forma più bella. È un vizio della poesia, quello di voler creare un costrutto di parole che sia il minimo comun denominatore tra forma e sostanza. Tuttavia, la prosa del romanzo è un animale diverso. La lettura è musica che accompagna per ore; le mie poesie, invece, sono perle di poche parole, idee, bolle di sapone che viaggiano nell'aria.

Se la Divina Avventura ha un difetto, credo sia proprio quello di aver spinto troppo verso una densità poetica. È una qualità, ne sono consapevole, ma è anche un grande difetto, in quanto è, come mi è stato detto durante una bellissima conferenza a Napoli, un libro che impone la monogamia. Va letto da solo e nel silenzio della propria anima aperta.

Proprio per questo motivo, nello scrivere L'Anello di Saturno, ho scelto di lavorare su questa mia densità poetica, che ho visto riversarsi persino negli eventi che nella Divina Avventura si susseguono senza uno spazio per respirare, come se ogni cosa dovesse essere messa al proprio posto, senza spazi vuoti, ermetico in tutti i sensi.

In L'Anello di Saturno, come avrete potuto percepire dai primi capitoli, è diverso. La narrazione fluisce calma, ci sono bolle d'aria, pensieri introversi, descrizioni. È una passeggiata nel bosco, di pomeriggio, con gli uccellini e i raggi che fendono la canopea.

Sono certo che questo approccio, difficoltoso per me all'inizio, mi abbia aiutato a espandere la mia prosa. Come un buon vino rosso, lasciato a decantare per ossigenarsi. È anche il motivo per cui ho scelto volutamente di sviluppare la storia in cinque volumi. Per obbligarmi, in un certo senso, a questo esercizio che non è di stile, ma di arte, di ricerca. A questo serve distinguere i nostri punti deboli, ad affrontarli e a cercare di farli diventare una qualità, invece che un difetto.

Spero davvero di esserci riuscito. Questo diario è per me un modo per esorcizzare le mie paure, condividendole con voi, certo, ma anche scoprendole. Ho sempre il timore di non essere all'altezza, né agli occhi di coloro che fanno questo lavoro da anni, né a quelli di quel lupo inferocito che ho dentro e che a volte si desta, e che guarda al successo come se fosse l'unica stella polare.

Questo silenzio nella mia prosa è anche una risposta a quel lupo. Come se gli dicessi: "Respira, goditi il mondo, che poi passa."

Non ci riesco spesso, ma a volte sento quasi di farcela. Chissà, magari io e quel lupo, un giorno, ce ne staremo tranquilli su un prato, a giocare al nulla.

Alla prossima pagina.

L'Anello Di Saturno III

Calato il crepuscolo, sotto la prima stella, l’aria si fece più fresca di quanto Jane si aspettasse. «Avrei dovuto portare un maglioncino», disse al figlio, uscendo dal portone annerito dall’ombra del tramonto, ma Luca rimaneva sempre troppo silenzioso per lei.

Il ragazzo teneva gli occhi a terra, voleva evitare di affezionarsi a quel luogo, consapevole che sarebbero di nuovo partiti, prima o poi, come sempre. Non gli importava nulla di quel borgo; Anagni era solo un’altra tappa, un’altra puntina da inchiodare al mappamondo. Non voleva affezionarsi nemmeno ai sampietrini, non desiderava ammirare le stradine medievali né sentirne l’odore. L’aria della sera aveva portato con sé un profumo di soffritto che fuoriusciva dalle finestre delle case, ora illuminate. Ma lui era infastidito da tutto, persino dai colori tenui che sfumavano con il tramonto.

Povero Luca. Non era nemmeno colpa dei genitori. Come biasimarli? Jane e Alberto avevano sempre seguito la loro felicità. Loro erano per Luca l’esempio della fiaccola dell’entusiasmo, del desiderio di ricerca, di divertimento. Erano viaggiatori nell’anima e, nel loro incedere, lo avevano trascinato ovunque.
Da Westminster a Madrid, da Nizza a Parigi, Luca era stato costretto a scoprire scuole e paesi diversi: Africa, Asia, Giordania, dove aveva visto Petra, la città di roccia. Insomma, Jane e Alberto erano così: genitori amorevoli, figli del tempo che corre.

Nel ’65, Jane era scappata di casa, appena maggiorenne. Gli anni di collegio e un padre severo l’avevano portata tra le braccia di Alberto, che invece era cresciuto come un uomo libero. Lui, amante delle donne e viaggiatore in fuga dalle sue origini modeste, si era innamorato delle minigonne francesi e si era trasferito a Parigi. A ventun anni era entrato all’Ecole Normale Supérieure per cominciare gli studi di Fisica, che lo avrebbero portato poi ad emergere come uno dei massimi esperti di fisica teorica della sua generazione.

«Dai, Pulce, vieni. Andiamo a cercare un ristorante», disse Alberto al figlio, rituffatosi tra i pixel che diventavano sempre meno visibili nella notte crescente. L’affetto che lo stringeva a Luca era un legame indistruttibile. Solo una cosa poteva far soffrire Alberto: vedere Luca isolato dietro quella corazza che aveva innalzato tra di loro.

«Dai, andiamo», ripeté.

«Sì, papà.»

«Ecco, vedi...» borbottò Jane infilandosi lo scialle, «quando tuo padre ti chiede qualcosa, ubbidisci subito. Ma quando invece te lo chiedo io, no. Mi piacerebbe capire perché.»

Luca alzò gli occhi dallo schermo, stupefatto dalle parole della madre: «Che ho detto?».

«Prima ti ho chiesto di venire e tu non mi hai nemmeno risposto.»

«Non avevo sentito.»

Jane lo guardò, una lieve fitta di dolore materno accarezzò il suo cuore.

***

Le voci animavano il borgo assopito dalla lunga giornata. Dopo aver cercato invano un ristorante per quasi venti minuti, la famiglia stava per rinunciare alla ricerca quando Alberto notò due anziani seduti su sedie di legno attorno a un tavolo rotondo, immersi in una partita di briscola. Accanto a loro, sulla tovaglia cerata, un bicchiere di rosso allungato con l’acqua.

«Scusate...» disse Alberto con cortesia.

I due anziani, concentrati nel loro gioco, non lo degnarono nemmeno di uno sguardo.

«Sapete indicarmi un ristorante?»

Uno degli anziani si piegò leggermente verso Alberto, senza mai staccare gli occhi dal tavolo, e con una sigaretta stropicciata all’angolo della bocca disse: «Accanto al municipio ci sta un’osteria. Non prendete l’abbacchio, che Marco non è capace».

«Ma che stai a dire», rispose piccato l’anziano di fronte. «Mio figlio è il miglior cuoco di Anagni.» Poi, rivolgendosi ad Alberto: «Non lo state ad ascoltare. Andate più avanti e pigliate ’a salita, in piazza ci sta un ristorante. Proprio davanti alla Santa Maria. Cucina mio figlio, è bravo».

«No, macché bravo. L’abbacchio non lo sa proprio fare. È secco!» disse l’altro, lanciando un tre di bastoni con violenza sul tavolo. «Briscola!» urlò con voce graffiata. L’altro, sbuffando, gettò le carte a casaccio.
In men che non si dica ricominciarono un’altra partita, dimenticando la presenza di Alberto, che raggiunse moglie e figlio.

***

La piazza della cattedrale era avvolta da un fascino antico e misterioso. Il campanile, alto più di trenta metri, dominava la piccola città come un obelisco grigio dal pallore lunare. Si dice, caro lettore, che di notte tutto sia più bello perché le oscenità del mondo vengono celate dal velo dell’oscurità, trasformandosi in ombre che scompaiono nelle tenebre. Ma l’oscurità risveglia anche i mostri nascosti negli angoli della paura, e per questo la notte è così seducente: nessuno resiste al brivido dell’ignoto.
La trattoria era buona e l’abbacchio, sebbene leggermente secco, era ottimo.

«Com’era la cotoletta?» chiese Alberto, osservando il piatto quasi immacolato del figlio. Luca teneva i polsi sotto gli zigomi e i gomiti sul tavolo, fissando inerte la cotoletta mangiata a metà, stesa sopra una triste foglia di lattuga. Non aveva fame, e Alberto sapeva che questo era il primo segno che qualcosa non andava. Luca sembrava la fiammella morente di una candela consumata.

Con un riflesso quasi automatico, il ragazzo afferrò il suo Game Boy. Alberto non ebbe nemmeno il coraggio di strapparglielo via. Come poteva? Sapeva bene che suo figlio stava male a causa delle scelte che aveva fatto lui. Era colpa sua se continuavano a muoversi, spinti dall’ambizione di dirigere un giorno un gruppo di specialisti, di scoprire qualcosa di nuovo, di entrare nei libri di storia. Questo era ciò che Alberto desiderava più di tutto. Guardando il figlio, fu travolto dalla consapevolezza che non gli restava molto tempo prima che Luca diventasse un adulto, prima che la vita se lo prendesse per non restituirglielo più.

Immagino, caro lettore, che tu sia curioso di sapere cosa diventerà Luca da grande. Se ascolterai la mia storia fino alla fine, ti prometto che lo saprai: le vie del tempo e del destino sono, come scoprirai, infinite.

Alberto, per un attimo, si immaginò il figlio alla guida della sua Citroën gialla, pronto a partire senza di lui verso chissà dove. E in quel momento si rese conto che non gli aveva insegnato a frenare. Mentre immaginava la macchina fuggire via per le tortuose strade cittadine, il terrore di sentire uno schianto gli soffocò i polmoni. Si asciugò la fronte con il tovagliolo, cercando di scacciare via i pensieri e le zanzare. «Mangia, Luca, è buona, ti fa bene», disse, accorato.

Luca, senza fare storie, posò il Game Boy sul tavolo e prese forchetta e coltello per ubbidire al padre.
«Quando te lo dico io...» disse Jane, facendo un altro tiro di Camel e incrociando le braccia. Aveva finito un piatto di gamberi alla piastra, che lei stessa aveva definito mediocre, e aspettava – da troppo tempo secondo i suoi standard – il caffè, richiesto almeno cinque minuti prima.

«Stanno finendo anche le ultime batterie», ribatté Luca con una voce così bassa che Jane non capì se fosse un tentativo di informarla o solo di parlare a se stesso.

Con la coda dell’occhio, Alberto notò un gruppo di ragazzi che giocava e correva davanti alla cattedrale. Era lo stesso gruppo che aveva visto nel pomeriggio, fuori dal municipio. Una dozzina di giovani sorridenti e abbronzati scendeva verso piazza Cavour per il dopo cena, insieme al fedele pallone.

«Perché non vai con loro?» chiese Jane.

Luca li guardò, stanco. Vide Ronnie, e l’idea di doverlo affrontare di nuovo lo bloccò.

«Non vuoi farti nuovi amici?» insistette la madre.

«A che serve,» disse Luca, «tanto andremo via tra poco.» Avrebbe voluto scomparire da tutto e da tutti, persino dalle memorie dei suoi genitori che tanto amava, così almeno non avrebbero sofferto per la sua mancanza.

«Dai…» provò a convincerlo Alberto, sfiorando il cappuccio nero del maglione che Luca indossava. «Non hai caldo con questo?»

Il ragazzo rispose con un gesto delle spalle, allontanandosi dal padre, e si alzò senza dire una parola. Infilò il Game Boy nel tascone centrale della felpa e si avviò, come un automa obbediente ai comandi impartiti.

«Torna quando vuoi, ma non troppo tardi!» gli gridò Jane, spegnendo con nervosismo la sigaretta sul posacenere di vetro. Una tazzina di caffè giunse sul tavolo. «Finalmente...» disse con un tono amaro, osservando il figlio allontanarsi, consapevole ‒ come Alberto ‒ delle proprie responsabilità.

L'Anello Di Saturno II

Il caldo era insopportabile. L’afa estiva aveva trasformato i sampietrini in pietre arroventate, dalle quali il vapore non emergeva più, tanto secca era diventata la loro superficie. Persino le nuvole sembravano essersi dileguate, lasciando il cielo alla mercé del sole che cuoceva a fuoco lento l’antico arco di Travertino, la porta Cerere, che segnava l’ingresso nel centro storico di Anagni.

«Hai tu il foglio con le indicazioni?» chiese Jane, alzando la voce per sovrastare il canto delle cicale che dominavano intorno. Vampate di calore secche strappavano il respiro.

Non c’era anima viva. Il centro di Anagni, borgo antico situato in cima alla valle del Sacco, 424 m sopra il livello del mare, era un luogo desolato.

A Luca bastò un passo per sentirsi immerso in una rovina archeologica abbandonata dal tempo e dagli uomini. Vide un campanile solitario emergere da dietro gli edifici bassi e antichi, accatastati e compressi. Era la cattedrale.

Le serrande dei negozi erano tutte abbassate. Non c’era nemmeno l’odore di pane a suggerire l’esistenza di vita, in quella desolazione. Tutti gli anagnini erano fuggiti all’ombra fresca delle foreste o verso i venti del litorale.

Alberto estrasse dalla tasca un foglio inumidito dal sudore e dal viaggio, con sopra le indicazioni, e si incamminò per trovare la loro casa.

«E le valigie?» lo interpellò Jane.

Alberto, rifugiatosi sotto l’ombra della porta Cerere, cercava di capire la direzione da prendere: «Dopo, prima troviamo casa».

Luca alzò lo sguardo, osservando lo stemma della città: un’aquila che afferrava un leone, e delle chiavi con un manto.

Alberto lasciò quindi la macchina in mezzo alla piazza, rasserenato dal fatto che nessun vigile si sarebbe preoccupato di multarlo, e si avviò lungo la strada principale del piccolo borgo: corso Vittorio Emanuele. «Dovrebbe essere in fondo alla via», disse, orientando la mappa nella direzione giusta. E i tre procedettero verso la cattedrale a monte.

La casa ricordava quella dei nonni: una villetta situata in un cunicolo laterale che scendeva dalla strada principale verso la valle. Civico 38. Jane estrasse un mazzo di chiavi dalla sua borsa Givenchy e le passò ad Alberto, che aprì il grande portone di legno verde.

All’interno aleggiava un odore di luogo dimenticato. La freschezza che si sprigionò dall’oscurità fu un sollievo per Luca, che subito cercò un posto dove sedersi. Jane storse il naso: la polvere era così densa da essere visibile in controluce. «Devo trovare una donna delle pulizie», disse, entrando nel salone.
Luca si gettò sul divano, che rilasciò una nuvola di polvere. Quando la luce finalmente invase la stanza, un paesaggio mozzafiato si svelò davanti alla famiglia Colonna. La casa si affacciava sulla vallata ciociara, un luogo di straordinaria bellezza, un mix tra l’eleganza toscana e quel senso di natura selvaggia che ancora caratterizzava il Lazio.

Jane non poté fare a meno di sorridere di fronte ai colori della vallata. Gerani e begonie pendevano dalle finestre, avvolte dalla vigna americana che conferiva alla vista un’atmosfera romantica, persino più magica dell’entroterra della Costa Azzurra, che tanto amava.

«Ci hanno lasciato qualcosa in cucina! Spaghetti!» esclamò Alberto, che aveva già iniziato a esplorare le varie mensole di legno alla ricerca di pasta, olio, aglio e, magari, peperoncino. Trovò una grossa pentola di acciaio bianco, la riempì d’acqua e tentò di accendere i fornelli. Ma nulla, l’accendigas non si avviava.

«Eppure il gas c’è», disse, ascoltando il sibilo silenzioso provenire dai fuochi, che tuttavia rimanevano spenti.

«Hai provato a premere il pulsante dell’accendigas?» chiese Jane, posando la borsa sulla tovaglia cerata.

«Certo che ho provato, ma non funziona, guarda.»

Nel frattempo, Luca, sdraiato sul divano e infastidito dalla luce, si era immerso nuovamente nel suo Game Boy. Jane provò ad accendere la luce della cucina, ma gli interruttori di plastica color crema non sortirono alcun effetto.

«Mi sa che non c’è elettricità», osservò Alberto. «L’interruttore centrale dovrebbe essere all’ingresso, come dai miei.» Così, dietro l’attaccapanni, trovò lo sportello dell’interruttore, che però sembrava acceso.

«Forse c’è qualcosa fuori», suggerì Jane. Una volta usciti, avvolti dal canto delle cicale, notarono un cavo elettrico che pendolava sopra le loro teste. «Non ci hanno allacciato...» mormorò Alberto, asciugandosi la fronte.

Jane, con la sua abituale determinazione, non esitò. «Vai a parlare con qualcuno», disse. Poi rivolgendosi al figlio: «Luca! Stacca gli occhi da quell’aggeggio e aiuta tuo padre!».

Così, i due Colonna si misero in marcia alla ricerca di un elettricista alle 13:45 di Ferragosto.

***

Appena arrivati nella piazzetta centrale, il sudore sulla nuca di Alberto già colava a profusione. Senza ombra dove rifugiarsi, Anagni sembrava l’inferno. Con segnaletica scarsa e pochi turisti, appariva quasi una città fantasma.

«Municipio», lesse Alberto seguendo un cartello di metallo sbiadito dal sole. «Aspettami qui», e si diresse sotto la gigantesca volta che ospitava l’ingresso verso gli uffici, nutrendo la speranza di trovare qualcuno.

Per la prima volta, ma non sarebbe certo stata l’ultima, Luca si trovò solo. Osservò il padre svanire tra i corridoi degli uffici statali. Il suo sguardo si perse verso piazza Cavour, dominata dal monumento ai caduti, arso dalla calura.

Sentì il suono di un pallone che colpiva un muro: la valvola rimbombava contro la plastica, producendo un rumore acuto e artificiale, qualcosa di nuovo per lui. A Parigi, i ragazzi non giocavano a pallone; era troppo pericoloso con tutte quelle macchine.

Il Super Tele blu e nero si fermò ai piedi di Luca, che lo bloccò con la suola delle sue All Star.

«Aò! Che ti sei incantato?!» gridò un ragazzo robusto con un marcato accento ciociaro. Era Ronnie, diciassette anni, ripetente di terza superiore. Luca, accecato dalla luce, non riuscì a vederlo chiaramente.

Osservò il pallone ai suoi piedi, pensando di non averne mai calciato uno in vita sua, a parte una volta a scuola. Non sapeva come restituirlo a Ronnie senza sembrare goffo. Lo prese con le mani e uscì dall’ombra della volta, avvicinandosi al ragazzo, che lo fissò come se fosse un alieno. Ronnie era un capogruppo, alto, robusto, con la pelle olivastra e un ciuffo alla Elvis. Aveva spalle larghe e un viso imberbe. «Da dove vieni?» chiese con tono aggressivo, stagliandosi imponente come un gigante davanti a Luca.

«Mi chiamo Luca, vengo da… da Parigi», balbettò il ragazzo. Al suono di quella città, Ronnie storse il naso, forse per gelosia, forse per frustrazione. Parigi... lui non era mai andato più in là della capitale, e il viaggio più ambizioso che sognava di fare era quello che i suoi genitori continuavano a promettergli: Gardaland.

Gli bastò uno sguardo per capire che Luca, così magrolino e nascosto dietro quegli spessi occhiali neri, non avrebbe rappresentato un pericolo per il suo territorio. Anzi, quella sarebbe stata l’occasione giusta per inaugurare un fresco capro espiatorio con il quale ricordare a tutti chi comandasse ad Anagni.

«Per che squadra tifi?» chiese, strappando via il pallone dalle mani di Luca. Quest’ultimo, ancora poco avvezzo alla cadenza ciociara, non aveva mai sentito questo verbo. Tifare… cosa poteva voler dire? Provò a trovare una radice comune in francese. Spesso riusciva, tramite equivalenza, a dedurre un significato passando dall’italiano al francese. Ma non trovò nessuna omofonia per smarcarsi dal blocco linguistico che aveva di fronte: la parola “tifare” proprio non somigliava a nulla che conoscesse. Aveva però a che fare con una “squadra”. Si trattava di sport. Ma di quale sport parlava Ronnie?

I secondi colavano come il suo sudore, mentre ragionava. Tutto questo giro di pensieri e parole avvenne nell’arco di un millisecondo. Luca era un essere complesso, veloce quanto fragile. «La Francia...» disse, sperando di uscirne vivo. «Tifo la Francia.» Poi osservò Ronnie che annuì con la testa, e fece un sospiro di sollievo.

«No, ma io ti stavo a dire in Italia. Per che squadra tifi in Italia?»

Niente. Luca era tornato al punto di partenza. La situazione gli stava scivolando di mano e non aveva la minima idea di cosa dire.

Il suo tentennamento aprì uno spiraglio nel quale Ronnie entrò a gamba tesa, senza nessuna remora. «Non dirmi che non sai cosa vuol dire tifare!» sbraitò con una grassa risata, includendo il gruppetto di amici che si erano avvicinati. Tutti guardarono Luca con l’aria tra il curioso e il “che cazzo ci fai qui da noi?”

Luca deglutì, ora costretto ad ammettere la terribile verità: «No, non so cosa voglia dire, mi dispiace».
Tutti scoppiarono a ridere. Luca abbassò gli occhi, conoscendo bene il fervore ardente dei coetanei pronti a odiare chi arriva da fuori, tutti desiderosi di discriminare per sentirsi più uniti. Ormai aveva capito che in ogni posto dove andasse, lui era la colla che univa tutti.

Ronnie, finita la risata, gli diede le spalle e raggiunse il gruppo, lasciando Luca solo a cuocere di vergogna sotto il sole. Il Super Tele tornò a battere contro il muro mentre Alberto scendeva le scale del municipio due gradini alla volta, sempre sorridente. «Allora,» disse dopo aver notato l’incontro tra Luca e Ronnie dalla finestra del secondo piano, «sono simpatici?»

Luca fece un timido cenno di sì, evitando del tutto il discorso. Sapeva che non aveva senso rendere partecipe il padre delle tribolazioni che affrontava a ogni nuova tappa. L’unica volta che ci aveva provato, l’intervento di Alberto aveva peggiorato tutto.

Il ragazzo cambiò discorso. «E tu? Hai trovato un elettricista?»

Alberto sorrise: «Temo di no. È tutto chiuso qui. Anagni non è Parigi».

E su questo c’erano pochi dubbi, caro lettore: Anagni non era certo Parigi.

L'Anello Di Saturno I

Ogni storia d’amore è un caos incantevole che si innalza sopra l’ordine predestinato. 

Permettimi, caro lettore, di presentarmi: sono il Destino.

In un’epoca lontana, antecedente l’esistenza di questa realtà, avevo ordinato l’universo in un regno di calma e pace. Dopo molteplici eternità, ero finalmente riuscito a organizzare gli elementi primordiali e a relegare il caos a un lontano ricordo. Tutto, nel mio mondo, era come lo desideravo: chiaro, lineare.

Esausto, ma soddisfatto per aver completato il mio compito, cedetti ‒ solo per un istante ‒ al pensiero del riposo. Fu in quel momento che l’Amore, mia eterna nemesi, fonte di disordine e imprevedibilità, colse l’opportunità per distruggere la mia impresa.

L’Amore sedusse gli elementi primordiali, imbevendoli di un magnetismo travolgente. Il loro contatto generò una scintilla che provocò l’esplosione delle esplosioni. Quello che tu, caro lettore, chiami il “Big Bang”, il ritorno al caos.

Da allora, lavoro incessantemente per restaurare l’ordine, ricucendo con fatica le trame del tempo e dello spazio, annodate e intrecciate a causa dell’Amore.

Tuttavia, devi sapere che poche storie causarono più scompiglio di quella che sto per narrarti: la storia di Luca e Anna.

Luca e Anna... due nomi che potrebbero sembrare comuni in un mondo di miliardi di altri nomi. Ma le loro anime erano imbevute della stessa essenza d’amore che sedusse gli elementi: un amore puro, l’amore dell’inizio dei tempi.

Ancora inconsapevoli, ignari l’uno dell’altra, Luca e Anna erano già inseparabili. Come due magneti carichi di eros, la loro vicenda sembrava già scritta: destinati a scatenare, nel momento in cui si sarebbero amati, un caos devastante nelle mie trame.

***

Il 13 agosto del 1995, nel quattordicesimo arrondissement di Parigi, una Citroën di colore giallo ocra era pronta a partire. Carica fino all’inverosimile, i bagagli di cuoio occupavano persino i posti posteriori. Tra le valigie, un ragazzino magro dalle spalle larghe, con gli occhiali spessi, era immerso nel suo Game Boy.

Luca Colonna, sedici anni, esperto di Tetris e di solitudine, giocava senza lanciare nemmeno uno sguardo alla città che fino a poco prima aveva chiamato “casa”. Le strade di Parigi erano ancora fresche di mattino, e fuori dall’abitacolo regnava un’allegra confusione, in netto contrasto con la sua anima spenta. Non era una vacanza, quella che l’attendeva, bensì un viaggio senza ritorno, l’ennesimo addio a tutto ciò che conosceva, il tredicesimo, per l’esattezza. Luca si sentiva come una pianta sradicata troppe volte, costretta a rifugiarsi nella solitudine per trovare un po’ di pace.

Alberto, il padre, quarantotto anni, era alto e robusto, con un folto baffo e capelli ricci. Quando parlava emanava un entusiasmo contagioso. Depositò l’ultima valigia, contenente il suo telescopio, sul tetto della Citroën e assicurò le robuste cinghie elastiche. «Si parte!» esclamò dando un colpo al camion dei traslochi parcheggiato davanti.

«Luca, hai preso tutto?» chiese Jane, la madre, quarantasette anni portati con eleganza. Capelli corti, sguardo di ghiaccio, era il motore sempre attivo della famiglia. Dopo aver gettato la Camel consumata sul marciapiede, la schiacciò sotto il suo stivale di coccodrillo e attese una risposta. Luca, troppo assorto nel tentativo di incastrare il pezzo a forma di “I” per fare Tetris, non rispose.

Alberto picchiettò con l’indice sul finestrino: «Luca, quando tua mamma ti parla sei pregato di rispondere».

«Sì, mamma, ho preso tutto», rispose il ragazzo senza distogliere lo sguardo dal gioco. Non aveva molto da portare con sé, il povero Luca, così abituato a partire da aver ridotto la sua vita in uno zaino. Non aveva nemmeno salutato Julien, il suo “migliore” amico, incontrato solo sei mesi prima. Luca conosceva gli addii fin troppo bene. Le lacrime ormai gli pesavano ed era stanco di quella tristezza, stanco persino di essere stanco. Lo aveva capito al sesto trasloco: meglio andare via senza dire nulla, si soffre meno.

Alberto avviò il motore mentre Jane, accendendosi un’altra Camel, riempiva l’abitacolo di fumo.

«Mamma, puoi aprire il finestrino per favore? Non mi piace l’odore», chiese Luca.

Jane, con un gesto nervoso, girò la manopola più volte finché l’aria di Parigi non sfiorò i suoi capelli corti. Guardò con lieve tristezza i monumenti scorrere, la sua vita. In quella città aveva vissuto il ’68, le proteste, le occupazioni studentesche, guidata da quel suo insegnante di matematica poi divenuto un noto politico.

Jane era una di quelle donne che indossavano i pantaloni quando tutte le altre preferivano le minigonne e guidava motociclette mentre le sue amiche cercavano un marito. Poi, invece, fu lei la prima a cadere vittima dell’Amore – con Alberto. E ora stava lasciando tutto per lui.

I bagagli sopra la sua testa, pieni di sogni, celavano il futuro di Alberto, talentuoso fisico teorico. Aveva ricevuto un promettente impiego al CNR di Roma, e Jane aveva accettato, non senza remore, di trasferirsi in Italia con l’uomo che aveva conquistato il suo cuore. Parlava un italiano perfetto, caratterizzato da una “erre moscia” e piccoli errori che sperava correggere presto, grazie alla lettura delle opere di Pavese.

Guardò suo figlio: era così solo, così fragile... poi posò la mano sul ginocchio di Alberto, concentrato alla guida.

Alberto le sorrise. Quanto la amava.

Jane estrasse una cassetta bianca dal portaguanti e la inserì nella radio. Pink Floyd. Propose poi di fermarsi al McDonald’s: «Luca, ti va? Ce n’è uno sull’autostrada».

Luca, senza distogliere lo sguardo dal gioco ‒ al livello nove non ce lo si può più permettere ‒ fece un piccolo cenno di assenso con la testa, sufficiente a fargli sbagliare il posizionamento di uno dei blocchi. «Merda...» mormorò sottovoce.

***

«Dormiremo dai nonni», dichiarò Alberto, con le mani stanche sul volante, mentre la Torre di Pisa iniziava a delinearsi all’orizzonte.

Luca, perennemente immerso nel suo mondo di pixel, aveva già esaurito due dei tre pacchetti di batterie che Jane gli aveva comprato. Non desiderava altro che giocare, per dimenticare ricordi troppo dolorosi, zeppi di amici di cui possedeva solo nomi e indirizzi per mandare loro la solita cartolina che sarebbe stata, come sempre, presto scordata.

Man mano che il tempo passava, Luca sperava che, in questo modo, potesse ritrovare quella felicità perduta. A volte si chiedeva se la sua vita fosse reale o solo frutto dell’immaginazione, come le storie nei libri che leggeva.

***

La casa dei nonni era intrisa di tipicità italiana: una villetta bifamiliare sul litorale toscano, che emanava un profumo antico. Il nonno era falegname, ristoratore, inventore e pittore: un uomo dalle mille risorse. La nonna, una donna paziente e gentile, era sarta e confezionava confetti per i matrimoni. Entrambi erano sopravvissuti alla guerra e avevano contribuito a ricostruire il paese con fatica e sudore.

Luca salì le scale di graniglia e, arrivato nel corridoio buio del secondo piano, notò vicino alla cornetta del telefono, sul mobiletto, il disegno che aveva realizzato l’ultima volta che era stato lì in vacanza. Era tra quelle mura che aveva perfezionato il suo italiano, immerso tra pinete e castagnaccio.

Prese la piccola cornice dorata in cui era stato inserito il suo disegno. Si distinguevano chiaramente gli occhi della nonna, di colore diverso: uno verde, l’altro marrone. Sopra, appeso al muro bianco, c’era un quadro che Luca aveva sempre interpretato come un animale fantastico: una strana figura rosa avvolta in un fondo nero.

Ma in quel momento, un evento straordinario accadde: la sua percezione del mondo si ribaltò. Per la prima volta, si rese conto che il quadro non raffigurava un animale magico ma una rosa e i suoi petali. Per anni aveva creduto che il nonno avesse dipinto una creatura fantastica, avvolta nelle tenebre e sorridente come la Gioconda, ma in realtà era solo una rosa, ordinaria e splendida.

Spesso, caro lettore, la forma delle cose inganna gli occhi di chi osserva. Ed è solo quando il caos si fa ordine che finalmente emerge la verità, e si è un passo più vicini alla pace.

«Ho preparato le lasagne, sei contento?» chiese il nonno a Luca, dando un colpetto al divano scamosciato del salone. «Siediti, devo dirti una cosa.»

Luca, ragazzo tanto intelligente quanto educato, ebbe la premura di spegnere il suo Game Boy, non solo per rispetto verso il nonno ma anche perché le batterie stavano esaurendosi e non poteva permettersi di rimanere senza. Così, ascoltò.

Il nonno parlò piano, con calore e accento toscano: «Devi essere buono con la nonna. Ha avuto un’operazione, le hanno tolto il seno. Non è una cosa facile per una donna, sai?». Questo era il nonno, un uomo d’altri tempi, sì, ma sensibile e moderno, sempre attento agli altri.

La mattina seguente, Luca e i suoi genitori ripresero la macchina. Si sarebbero rivisti a Natale, tra regali e presepi, durante una cena luculliana a base di pane sciocco, crostini ai funghi, lasagne, agnello con patate, tiramisù, caffè e ammazzacaffè.

Si sarebbero rivisti, caro lettore, se non fossi stato costretto a far succedere quello che successe.

***

L’autostrada era deserta, in quel giorno di Ferragosto, quando in Italia le strade rimangono spesso vuote.

«Manca poco», commentò Alberto, innestando la quinta. «Siamo quasi arrivati.» E, accendendo la freccia destra, si diresse verso Anagni.

Luca non notò il cartello blu con scritta bianca, era troppo immerso nel suo Game Boy, doveva finire prima che la spia rossa della batteria si spegnesse definitivamente. Sapeva che Tetris aveva una fine e, sebbene non conoscesse nessuno che fosse riuscito a raggiungerla, sperava di essere lui quello fortunato.

La spia del Game Boy si spense e Luca alzò gli occhi. Il sole picchiava sulla terra brulla delle verdi colline ciociare mentre la Citroën giallo ocra entrava nel viale alberato che conduceva ad Anagni.

Erano le 12:23 di giovedì 15 agosto 1995 quando Luca Colonna, finalmente, arrivò nella sua nuova città.

Trova il tuo maestro

Quando facevo l'assistente alla regia, ho avuto la fortuna di assistere, ed è il caso di dirlo, al processo creativo di uomini che avevano dedicato la loro vita allo sviluppo artistico. Ognuno di loro possedeva una propria visione dell'arte, un arsenale di trucchi e segreti, frutto di intuizioni che avevano forgiato il loro percorso artistico. Matthias Langhoff, Maurizio Nichetti, Marco Sciaccaluga: tre registi dai quali ho imparato molto, in diverse dimensioni dell'arte, da come comportarsi (Marco), a come concepire una visione (Matthias), fino a come strutturare la produzione artistica (Maurizio). Ma poi c'è stato anche Massimo Mesciulam, che mi ha trasmesso la sua visione della recitazione e le sue tecniche. Marco, Maurizio, Matthias, Massimo. I miei M. I miei maestri d'arte.

Vi racconterò come ho scelto Matthias. Ero assistente alla regia di Marco e, un giorno, durante l'allestimento di "Madre Courage e i suoi figli", vidi Matthias infuriarsi per quella che considerava una mancanza di rispetto verso il poeta, Bertold Brecht, autore dell'opera.
In un impeto di passione, Matthias salì sul palcoscenico, animato da un dolore autentico, perché sentiva che la messa in scena non rendeva giustizia all'intento originale del poeta. Personalmente, ritengo che ogni regista abbia la libertà di interpretare l'opera, come vuole poiché in quel momento è lui l'artista. Tuttavia, fu la passione e la sensibilità di Matthias a catturarmi come un magnete. Quando scese dal palco, mi avvicinai a lui e gli dissi: "Matthias, voglio essere tuo allievo. Voglio assisterti." E così fu. Matthias mi insegnò moltissimo, perché ero stato io a sceglierlo.

Se ho avuto un talento, è stato quello di riconoscere i maestri. Nel secondo anno della scuola di teatro stabile, ebbi l'opportunità di essere selezionato tra i migliori allievi per uno stage intensivo di quasi un mese con allievi di altre scuole europee e maestri proveniente da tutto il mondo. La prima settimana fu un tour de force di mini-lezioni sulla drammaturgia inglese, commedia dell'arte, danza messicana, butoh giapponese e tecniche di canto e allenamento indiani: insomma un'esperienza straordinaria. Spinto dalla mia inesauribile curiosità, decisi di immergermi nel Butoh, riconoscendo nel maestro Katsura Kan una fonte di sapere e ispirazione.

E così mi immersi in una dimensione completamente diversa dalla mia abituale realtà teatrale. Questa esperienza non solo mi ha aperto la mente, ma anche il corpo!

Individuare i propri maestri è un talento. Quando comprendiamo che esistono uomini e donne nel mondo con un bagaglio di conoscenza e arte vasto come il tempo che hanno vissuto, allora capiamo quante inesauribili fonti di conoscenza, esperienza e formazione siano a nostra disposizione.

Non esistono scuole che possano creare artisti: perché sono gli allievi a scegliere i propri maestri, non il contrario. È il valore dell'individuo artista, che si riflette e plasma l'opera, a renderla magica. Questo avviene spesso quando l'artista, finalmente sicuro di sé e consapevole del territorio in cui si muove, decide, con esperienza ed estro, di andare oltre i confini tracciati dai maestri, alla ricerca di nuovi orizzonti sconosciuti.

Alla prossima pagina.

Come sviluppare la creatività?

Sono un creativo e mi piace immaginare. A volte, mi viene chiesto: «Ma come ti è venuta in mente quest'idea?» e non so rispondere. Non conosco le dinamiche che mi portano all'ideazione. È difficile anche tracciarle, poiché ritengo che l'idea sia semplicemente la manifestazione esteriore di un movimento interiore, che include molti aspetti della persona: la sua formazione, i suoi desideri, la sua indole, ma anche il momento, il meteo, l'ora, lo stato emotivo. In sintesi, la creatività è un fenomeno complesso, che non può essere affrontato come una singola disciplina, ma piuttosto come una dimensione multidisciplinare. Ed è così che voglio affrontarla oggi, cercando di capire i meccanismi che portano all'idea.

Prima di tutto, vi è la persona: l'io, la mente. Questo insieme magmatico di paure, desideri, formazione. Le voci esteriori, come quelle dei nostri genitori, dei nostri amici, della società. Questa persona non è solo mente, ma anche emozione: il battito cardiaco, la respirazione, la voce. Sensazioni di abbandono, di felicità. Tutto lo spettro delle nostre emozioni veicola, all'io, una prospettiva unica sul proprio bagaglio interiore.

Poi, oltre l'io e le emozioni, c'è il corpo: la fisiologia. Stiamo correndo, camminando, digerendo; abbiamo nicotina, caffeina, sonno, appena svegliati. La nostra biologia, i nostri muscoli, quanto sono allenati, la nostra schiena, quanto è diritta. Ma anche se vediamo bene. Io, per esempio, sono miope, e questo mi limita tantissimo nella percezione del mondo. Senza occhiali, vivo in una bolla sfuocata. (Per chi volesse saperlo, mi mancano 5.25 e 5.75, che, diciamolo, mi mette di fatto tra le talpe del mondo.)

Ma questa mente, piena di emozioni in un corpo vivo, vive nel mondo. E qui entrano le dinamiche esterne. C'è la luce del sole, il pallore della luna. La musica di Chopin o il traffico cittadino. Fa freddo, fa caldo.

Ora vi svelo un segreto: le idee, secondo me, stanno nel numeno. E se tutte queste variabili, che ho elencato, sono tarate al punto giusto, in equilibrio tra loro, allora, a volte, entriamo in contatto con il regno delle idee, il numeno. Per chi non sapesse cos'è il numeno: Il numen, nella sua origine romana, rappresentava una forza divina o presenza spirituale che permeava il mondo naturale, guidando e influenzando la vita quotidiana attraverso entità o aspetti sacri della realtà. Questo concetto, trasposto nella filosofia moderna, trova un parallelo nella nozione kantiana di "noumenon" o "cosa in sé", che si riferisce alla realtà ultima che sta al di là della percezione umana e delle esperienze sensoriali. Cioè qualcosa che non possiamo conoscere.

Come fare, quindi, a ottenere questo allineamento? Metodo e disciplina. Cibarsi con cibi sani, sia per l'anima che per il corpo, che del mondo e circondandoci di bellezza, bellezza architettonica, bellezza artistica, musicale. Cercare arricchimento classico e curiosità. Approfondire le sfumature della realtà, infilarsi nelle pieghe del creato alla ricerca di ciò che non conosciamo. Camminare ad occhi aperti, grati dell'esperienza che ci è stata data di vivere questa Divina Avventura che è la vita.

Alla prossima pagina.

L'intelligenza creativa

Si può essere razionali e creativi al contempo?

Pochi giorni fa, proprio su queste pagine del diario, ho avuto uno scambio molto interessante su due termini vicini ma così distanti: artista e artigiano. Spesso il primo viene identificato con il genio e la sregolatezza, il secondo con il metodo e la maestria del gesto.

Dicotomie perenni anche nella mia mente. Sono un artista o un artigiano? Sono un creativo o un razionalista? Penso entrambi e ritengo, soprattutto, che entrambe le strade siano necessarie per la crescita di una consapevolezza artistica che vada oltre la semplice emozione o il semplice pensiero.

La scrittura è un pensiero emozionante. Una forma sublime di crasi tra la logica e il cuore. Nell'atto di scrivere mi succede di passare ore su una virgola, su una parola. E poi, un demone mi attraversa e comincio a scrivere per ore, senza rileggermi, defluendo qualcosa che aspettava di emergere. Mi piace pensare che sia la mia anima che nuota nel numeno e che mi spedisce forme e concetti inespressi, affinché la mia mente razionale possa in seguito dare loro una forma intellegibile, semplice, fluida.

È un'illusione della mente? Esiste davvero qualcos'altro, più grande di noi, che ci attraversa? Non ci sono risposte, ma solo domande. E io, come immagino si evinca da queste pagine, ne sono avido.

Da millenni, grazie alla tecnologia, l'uomo razionalizza tutto. La scienza, con il suo incessante sviluppo, continua a incasellare la realtà, a definirla in maniera ripetibile, inequivocabile, alla ricerca di quella formula che tutto include. Le macchine, ultimamente – parlo degli algoritmi di LLM – sono capaci di razionalizzare ogni campo dello scibile umano, di comprimerlo e riproporlo in infinite varianti. Ma si tratta sempre di ciò che già conosciamo. La scienza è l'analisi di un percorso già fatto. Il percorso verso l'ignoto, però, spetta a noi uomini, non alle macchine. Queste ci aiutano a camminare più velocemente, a viaggiare tra le stelle. Ma il percorso di scoperta, che mai finirà, è nostro e solo nostro. E l'artista, in questo, è uno di coloro che porta la fiaccola, che esplora non il macrocosmo, ma il microcosmo dell'anima interiore, dell'umanità che in noi ci accende.

In sintesi, quello che sto dicendo è che la vera intelligenza non sta nella capacità di rispondere alle domande, ma piuttosto nel saperne fare di nuove. Il percorso verso una nuova risposta, che la scienza non conosce, ci porterà a una possibile soluzione ed è vitale, potente, necessario. Ed è questo percorso che ci identifica come quella meravigliosa specie di Homo Sapiens che vive in un granello blu in mezzo a un oceano infinito di stelle.

Scienza e arte, matematica e filosofia, fisica e umanesimo: due facce della stessa anima. La nostra.

Alla prossima pagina.

Arte Immortale

Anelo a sopravvivere la morte. Chi non lo ha mai sognato? Io penso che ogni artista, che inevitabilmente affronta la caducità della propria vita e la potenza del tempo che passa, sia stato attraversato da questo desiderio. Anzi, è probabile che ognuno di noi, in un modo o nell'altro, si sia chiesto come immortalare la propria presenza in questa realtà, di cui sappiamo troppo poco.

Voi lo avete mai sognato? Molti film hanno esplorato il concetto di immortalità, dal Sacro Graal a Highlander, passando per le leggende dei vampiri. Il tema è molto caro all'uomo, e non a caso. La morte, come le tasse, è l'unica cosa certa.

Ma è davvero così? Possiamo davvero ascendere all'immortalità? Certamente non con l'arte, ma nemmeno con la scienza. Se pensate che tra quattro miliardi di anni il Sole ingloberà l'intero sistema solare, e l'umanità sarà andata oltre ogni possibile immaginazione, sempre che ci sia ancora, penso che non rimarrà qualcosa nemmeno di Cristoforo Colombo o di Tutankhamon. Figuriamoci di Dante o Shakespeare.

"Siamo viole dal profumo inebriante che appassiranno alla fine dei loro giorni", come scrivo nell'incipit della Divina Avventura. Il libro è un vero percorso verso la consapevolezza della morte, del mistero. E l'ultimo pensiero di Kato, il narratore, prima di morire, è molto semplice: vivere. Portarsi dietro la vita. In questo sento che la vita è come un movimento tragico di un'opera sinfonica che finisce (o inizia?) con la morte.

La vita è morte. Come diceva Shakespeare in "Misura per misura": "Se la morte è una liberazione da tutto, come può essere considerata una perdita? La vita in sé stessa è una malattia; e la morte ne è la cura; e così la mortalità, come una ferita, si rimargina con la stessa lancia che l'ha inferta."

Non sono certo il primo a pormi queste domande. Forse è l'età; sono in quello che si può definire "il mezzo del cammin della mia vita" e quindi inevitabilmente mi pongo delle domande: "Che cosa farà Elettra, mia figlia, quando non sarò più qui?" "Cosa voglio lasciare a lei?" "Che impronta voglio lasciare in coloro che verranno dopo di me?"

Scrivendo queste pagine, capisco che sono ancora incentrato sul futuro. Uno strano futuro in cui non ci sono più, ma pur sempre un futuro. Questo vuol dire che sono ancora vivo dentro.

Ma tornando al presente, il sogno dell'artista di superare il tempo è quindi illusorio. Certo, ma si sa, l'artista vive di illusioni. Il fuoco del desiderio è ciò che lo anima, e mai e poi mai dovrebbe rinunciarvici. L'artista vuole comunicare, dire, esprimere per emozionare. E più persone riesce a colpire, più si sente utile, giusto, in un certo senso. E quindi, se i vivi non lo capiscono (come spesso succede), il sogno che gli uomini del futuro possano intercettare il suo pensiero, la sua arte, gli permette di rimanere vivo, di non sprofondare negli abissi del pensare che la sua arte è inutile.

È successo a molti, pittori, scrittori, filosofi, persino scienziati. Spesso i geni superano la consapevolezza del presente, e nella loro espressione, che sia intellettuale, estetica o emotiva, vi possono essere elementi irriconoscibili a chi non ha gli occhi per vedere. Succede. Ci sono modi per far sì che queste barriere vengano superate, metodi per farsi conoscere, per far conoscere la propria arte, per farsi capire, per crearsi un pubblico; un giorno ne parlerò.

Ma per ora, vi basti pensare che il tempo è certo tiranno, ma è il miglior amico di sogni e illusioni. Quindi, per un attimo, lasciate che mi culli in un tempo in cui la mia presenza è lieve, ma la mia opera respira nelle anime dei vivi.

Alla prossima pagina.

Il cantastorie digitale

And the winner is...

La Sigaretta e l'amore

Devo essere sincero, è anche il mio preferito, perché incarna molti aspetti del libro, pur non svelando molto. Ci sono loro due, l'amore nella sua complessità, la loro complicità nascente, ma anche un accenno all'Anello di Saturno. Insomma, grazie a tutti e a tutte per aver votato! Se la giocavano questo e "La strada in tempesta".

Terzo un po' più lontano, "il primo incontro".

Quindi, la sigaretta e l'amore, sarà il brano che utilizzerò per presentare l'audiolibro del primo volume dell'Anello di Saturno negli store. Speriamo bene....

E ora... Diario D'artista.

Faccio troppo. È un mio tratto distintivo: mi entusiasmo facilmente e mi faccio trascinare dalle idee, dai sogni.

A volte, mi dico che esagero. Che voglio fare troppo. Non solo me lo dico, ma è proprio così. Voglio fare tutto, controllare tutto, essere regista, scrittore, attore, imprenditore, poeta, e chi più ne ha più ne metta.

So che questo mio essere complesso mi è di ostacolo, poiché mi obbliga, in un certo senso, a fuggire da me stesso, a non dare un'immagine costante di me. È come se ogni giorno, al lavoro, vi ritrovaste davanti il vostro collega con una capigliatura diversa, un vestito completamente diverso, un atteggiamento diverso. "Poco affidabile", direbbe qualcuno, di primo acchito. È comprensibile. L'essere umano, sin da bambino, vuole la routine, cerca ciò che conosce, che gli dà stabilità e tranquillità.

Temo che, almeno per ora, io non rientri in questa casistica. Badate, provo a contenere quello che faccio, a tentare di comunicare per "compartimenti stagni".

Per esempio, non molti di voi sanno che prima di aver fondato Untold Games, la società di videogiochi, mi sono occupato, per molti anni, di produzione cinematografica. Ho realizzato, come produttore e regista, due film e una serie interattiva. E prima ancora, facevo il regista a teatro, mentre bazzicavo i casting romani con il sogno di fare l'attore.

Insomma, sono poliedrico, ma non è una qualità. Non in una società in cui il "brand", cioè la riconoscibilità, paga. Molti miei colleghi attori hanno giustamente scelto di fare questo e solo questo, di indirizzare tutta la loro forza in questo aspetto della creatività. Io invece ho preferito continuare la mia ricerca creativa, produttiva, ma non come businessman, bensì come artista, tentando di trovare forme espressive che più mi si confacevano, che più mi rendevano felice. E questo spesso a discapito della mia riconoscibilità come attore.

Quante volte mi sono sentito dire: "Ma fai anche questo? Ma no, occupati di recitazione, che sei bravo".

Insomma, si dice che la semplicità paghi, che solo il vero artista sia davvero semplice.

Belle parole, ma, da artista, non posso non chiedermi che tipo di terreno vi debba essere perché questa semplicità davvero "paghi" e non sia invece una mera scusa per evitare la profondità della complessità umana.

Personalmente, penso che perché un artista possa arrivare a una vera semplicità, fatta di tratti semplici, unici, necessari, debba prima passare per il fuoco del caos, per la caverna dell'io dove scoprire le mille sfaccettature che compongono la sua anima. Solo così, quando poi i puntini si uniranno, riuscirà, asciugando ciò che di inutile ha attorno, a trovare la propria unica strada.

Io sento che, piano piano, come un fiume che defluisce nel mare, sto trovando una strada. Non so se il racconto sia davvero l'ultima tappa dove mi fermerò. Se la figura di Omero possa essere quella che più sento mia. Un cantastorie 2.0, che dietro al falò digitale, scrive e racconta le sue storie ad una platea di molti... Conoscendomi, è improbabile, ma sento che dentro di me le acque si stanno calmando, e che forse, dopo essere uscito dalla sorgente, aver attraversato montagne, colline, valli e pianure, ho trovato una calma che rasenta, se posso sognare, il mare.

Alla prossima pagina.

Il terapeuta dell'anima

Cosa significa essere indipendenti? Io penso che l'artista, per sua natura, sia animato da quel desiderio di essere autonomo, di vivere della propria passione e arte, senza dover rendere conto a nessuno se non al proprio pubblico.

Ho una visione romantica di questo mestiere e credo che sia l'unica che possa davvero sopravvivere all'onda di trasformazione che questa società ci sta imponendo. Siamo circondati dalle macchine, dagli algoritmi, da regole invisibili che dettano gran parte della nostra vita.

Ma persino i creatori digitali, che rappresentano l'apoteosi dell'indipendenza creativa, poiché spesso sono freelance o lavorano da soli, devono comunque postare all'ora giusta, usare gli hashtag giusti e le parole chiave opportune, per esistere, per essere visti. Siamo dipendenti dall'algoritmo.

Quindi, in un certo senso, l'artista non può essere davvero indipendente. Dovrà sempre avere a che fare con gli strumenti della comunicazione per far sapere che esiste: in questo mare digitale, nessun uomo è un'isola.

Per questo motivo credo che l'aspetto più importante e necessario in un artista sarà sempre di più la sua umanità, il suo essere manifestazione della propria visione del mondo, imperfetta, fallibile, ma autentica.

La sfera digitale è nel bel mezzo di una delle più grandi rivoluzioni industriali di tutti i tempi, l'avvento degli LLM, gli algoritmi di intelligenza artificiale capaci di produrre ciò che, fino a pochi anni fa, era esclusiva dell'intelletto umano.

Cosa ci distingue, quindi, da queste macchine? Quale aspetto di noi, come esseri umani, come artisti, è unico? Questa è una domanda che mi pongo ogni giorno, che mi assilla e alla quale penso di aver trovato una risposta adatta alle mie necessità di coltivare un senso, di rimanere "alto" nella mia esposizione: l'autenticità. Solo così, mantenendo teso il filo della nostra anima con il mondo esterno, potremo sperare di raggiungere abbastanza persone, di creare collegamenti forti abbastanza da superare i maremoti digitali. Chi segue l'artista deve sapere che le sue parole, seppur fatte di pixel, sono umane.

Come avrete intuito, è quello che cerco di fare con questo Diario. Creare un collegamento più profondo di un post sui social, questo luogo è il mio ponte, il mio giardino di autenticità. Ci provo, non sempre ci riesco; a volte sono stanco, oppure ho dei pensieri, e le mie pagine ne risentono. A volte mi perdo in meandri tecnici, filosofici, ma quelli sono parte di me, di come vedo il mondo, l'arte.

Cerco indipendenza da quando sono piccolo. Sono nato bastian contrario, come mia madre. Ho una naturale avversione nei confronti del potere e non amo che mi si dica cosa devo fare. Faccio quello che voglio, al meglio che posso. Questo comportamento, è facile immaginarlo, mi ha restituito pochi amici, ma buoni. Poi la vita ci separa, e ci si ritrova per una telefonata leggera, in cui si parla degli anni vissuti insieme. Ho 44 anni e sono ancora alla ricerca di questa indipendenza, che sembra spostarsi ogni volta che credo di afferrarla.

L'indipendenza è un desiderio di libertà, insito nell'uomo, ma siamo anche animali sociali e dobbiamo trovare un posto utile in questa società. Quindi, qual è il ruolo dell'artista in questa società? In cosa è utile un artista?

A sognare? A pensare? A ricordare agli altri quello che conta? Ad evidenziare i difetti dell'uomo, le sue qualità? A esorcizzare le paure?

Io penso che sia un po' tutto questo messo insieme: l'artista è il terapeuta dell'anima.

Alla prossima pagina.

Il coraggio della rinuncia

Viviamo spesso in quello che viene anche chiamato "il dilemma di Icaro".

Icaro, figlio di Dedalo, lo visse nel momento in cui decise, andando contro il suggerimento del padre, di avvicinarsi troppo al sole. Come spesso succede, i miti greci ci aiutano a definire i nostri problemi e, a volte, a trovare proprio attraverso queste storie soluzioni per la nostra quotidianità. È questa la vera forza del mito, poiché non esemplifica un esempio preciso, bensì rappresenta piuttosto una metafora ad ampio raggio, che echeggia dentro di noi in maniera libera.

Icaro, figlio dell'architetto che costruì il labirinto in cui Minosse volle nascondere il minotauro, fu incarcerato insieme al padre all'interno del labirinto. Non avevano scampo: sarebbero presto stati uccisi e mangiati dal mostro, e nemmeno Dedalo era capace, tanto era complicato il labirinto da lui costruito, di trovare la via d'uscita. Così, insieme al figlio, decise di recuperare cera e piume d'uccello, con le quali fare ali per librarsi sopra le grandi mura e volare via dalla minaccia.

Il padre, premuroso e ferito nell'anima da un evento accadutogli in gioventù, quando il nipote, Taio, per eccesso di zelo festeggiò convinto di aver inventato lui la sega (che invece fu creata da Dedalo) e così facendo precipitò da un terrazzo e Taio morì tragicamente. Così Dedalo si preoccupava molto di dire al figlio di non avvicinarsi al sole, poiché la cera si sarebbe sciolta.

Sole… metafora del desiderio.

Sappiamo bene come andò. Il giovane, ebbro di libertà e di volo, desiderò salire verso il sole, toccarlo con mano e, chissà, magari incontrare il Dio che lo trascinava nel suo carro. Ahimè, proprio come aveva previsto Dedalo, le ali del figlio si sciolsero e Icaro precipitò rovinosamente nel mare, sparendo per sempre.

Tutti noi viviamo questo dilemma tra la razionalità e il desiderio. L'artista, per esempio, deve decidere quando fermarsi. Quando eccede nel darsi troppo, nel fare della sua fragilità un punto di contatto con chi lo segue, esponendo ferite ancora fresche che avrebbero bisogno di solitudine per rimarginarsi. Oppure quel momento in cui bisogna scegliere tra i soldi o la visione. Insomma, i dilemmi sono molteplici e, come ho detto all'inizio, si presentano a ogni uomo e donna di questo mondo, non solo agli artisti.

Quante volte vi siete trovati a dover fare una scelta, una decisione? Decidere: tagliare la testa alla vittima. La scelta, qualunque essa sia, è quindi una rinuncia. Ed è proprio in quella rinuncia che forgiamo il nostro carattere e definiamo, come le ali della farfalla, il nostro lontano futuro.

Ricordo bene quando decisi, molti anni fa, di rinunciare alla mia posizione vantaggiosa dentro al teatro stabile di Genova (ero un giovane regista pieno di promesse) per inseguire sogni di gloria nel cinema e nella televisione a Roma. Fu una scelta drastica, che cambiò per sempre la mia vita.

Quest'anno, per me, sarà all'insegna della scelta e del coraggio della rinuncia. La saga dell'Anello di Saturno affronta questo dilemma nel suo senso più profondo, ma anche il videogioco che abbiamo creato con Untold Games gira attorno al concetto di scelte e ripercussioni. Piccole scelte, "atomizzate", ma che se messe una dopo l'altra, generano storie completamente diverse. E dovrò occuparmi a pieno dei semi da me seminati, e questo significa che ho dovuto rinunciare ad opportunità attoriali.

Vi lascio il link al trailer del videogioco, semmai foste curiosi di scoprire questo altro "lato" di me: City 20 - Official Announcement Trailer

E voi? Qual è la scelta che avete fatto che più di tutte vi ha definito come persone?

Vi aspetto nei commenti.

Alla prossima pagina

Il potere della memoria

La memoria... questa magica e inafferrabile realtà che vive dentro di noi, è stata fonte di ispirazione per centinaia, migliaia di autori. Proust, con la sua Madeleine, ne fece il tassello fondamentale dell'anima. Noi siamo la nostra memoria. E senza memoria, cosa saremmo?

Personalmente, ho sempre vissuto con un occhio verso il domani, piuttosto che al passato. Ho un approccio piuttosto diffidente nei confronti della mia memoria, forse perché non mi fido del tutto di essa. Ho spesso la sensazione che sia fallace. Per esempio, sono pessimo con i nomi. Non mi ricordo i nomi di nessuno, e questo mi porta a diventare molto chiuso, poiché, in un certo senso, il dubbio di non sapere con esattezza il nome della persona con la quale sto parlando mi mette in una situazione in cui preferisco non interagire. Ed ecco fatto l'introverso. Scrivendo, mi rendo conto che forse la mia introversione è proprio una questione di memoria. Forse, se mi ricordassi meglio i nomi, non sarei così timido.

Nei miei scritti, sia nelle poesie che nella prosa da romanzo, mi ritrovo spesso ad avere a che fare con il ricordo. Un ricordo che muta a seconda di chi lo ricorda. Mi viene in mente il film "Rashomon" di Akira Kurosawa, che affronta, appunto, la stessa scena ricordata da tre persone diverse. Ogni racconto differisce significativamente dagli altri, presentando versioni contrastanti degli stessi eventi, che gettano luce sulle complesse nature umane dei personaggi e sulla difficoltà di stabilire una "verità" oggettiva.

Il ricordo ha questo potere: riscrive la realtà vissuta, collocandola là dove ci viene meglio ricordarla. Il ricordo che abbiamo nella mente non è una fotografia esatta del momento vissuto, quanto piuttosto una fotografia di come stavamo noi in quel momento, della nostra - limitata - prospettiva. È una fotografia che più viene richiamata alla memoria, più muta, proprio per via della sua caratteristica fuggente e mutevole, quasi liquida. E così, quello che era una semplice giornata in spiaggia con gli amici prende nel tempo connotazioni favolesche, magiche, dalle atmosfere romantiche. Baci rubati.

Insomma, la memoria è una parte fondamentale di quello che ci rende umani. La società stessa non potrebbe esistere senza memoria. La cultura, l'arte, le scienze sono tasselli che vengono man mano registrati nella memoria collettiva e che creano, negli anni, strutture conoscitive gigantesche, che ci permettono di immaginare il nostro futuro, di diventare demiurgi della materia, di controllare la nostra vita. La memoria è conoscenza, esperienza, strumento di sopravvivenza.

Non posso esimermi dal pensare, però, che la memoria stia diventando, nel nostro mondo iper-digitalizzato, qualcosa di statico, di immobile. Le informazioni che registriamo sono così tante che non vi sembra più esserci spazio per l'attribuzione, per l'errore, per il margine di magia. I ragazzi nati ora avranno tutta la loro vita registrata, bit per bit, su internet. Foto, frasi, video, pensieri. Tutto sarà lì, a disposizione del prossimo. E così, il margine di mistero si fa sempre più sottile, sempre più inesistente, e questo mi dispiace, perché la magia del mito, sta proprio in quello spazio di ignoto.

Per questo scrivo i miei libri: per lasciare un segno marginale, indefinito, un luogo di mistero che dia al lettore la possibilità di rileggermi e di scoprire, in questo marasma di parole, qualcosa di sé stesso.

Alla prossima pagina

Come credere in noi stessi

La vita dell'artista è costellata da dubbi. Dubbi sulle proprie capacità, dubbi sulle scelte da fare.

Non esiste artista che non abbia dubitato, per l'intero arco della sua carriera, della propria arte, e, di conseguenza, di sé stesso. Pochi giorni fa, proprio tra i commenti a queste pagine del "Diario D'artista", mi fu fatta la domanda: "ma come si fa a credere in noi stessi se nessuno crede in noi?"

Una domanda difficile, alla quale non so se sono capace di rispondere. Voglio evitare le solite frasi fatte. "Credi in te stesso" "Sei tu il centro del tuo mondo" etc…

Comincerò col dire che il superamento dell'insicurezza non è semplicemente un atto di volontà personale, ma un processo complesso che coinvolge molteplici aspetti della nostra vita.

Se dovessi risalire alla prima fonte del problema e immaginare una soluzione che produca, sul lungo termine, effetti positivi, direi che forse trovare persone che credono in noi sia la prima cosa da fare. Una mia cara amica, divenuta negli anni un'ottima psicologa, un giorno mi disse che esistono due tipi di persone: quelle che tirano fuori il meglio di noi, e quelle che tirano fuori il peggio. Ecco, circondarsi delle prime e allontanare le seconde è sicuramente un'igiene costruttiva.

Un'altra via è quella della formazione e dell'incontro con maestri. I maestri si scelgono, quindi dipendono da noi, dal nostro desiderio. Attraverso i maestri acquisiamo non solo una profonda consapevolezza della tecnica artistica, dell'arte in generale, ma anche parte della loro corazza. Una difesa temporanea, forse, ma utile per tutti coloro che hanno la pelle sottile e l'anima fragile. La scuola d'arte può dare, all'artista in nascere, certezze illusorie che saranno utili a sconfiggere i primi demoni, quelli superficiali.

E poi c'è la vita, quella quotidiana, semplice, ma fondamentale. Nelle cose più semplici spesso risiede il segreto di un'anima forte. La nutrizione, l'amore per il proprio corpo, per la propria salute, sono elementi che aiutano a svegliarsi con un occhio positivo verso noi stessi. Senza esagerare, ovviamente, ma camminare, fare sport, mangiare bene e farsi piacere con moderazione sono tutti elementi che, se messi uno accanto all'altro, giovano non poco all'autostima.

E infine, proprio come dice il saggio "Mens sana in corpore sano", vi è la mente. Dobbiamo allenarla, stimolarla, nutrirla. Leggere i classici, guardare film che hanno superato l'esame del tempo, evitare il cibo (mentale) spazzatura, evitare di sprecare il nostro tempo in quei contenuti che non hanno un secondo grado di lettura, figuriamoci un terzo o quarto. Siamo nell'era in cui il volume e la quantità la fanno da padroni sulla qualità.

Quindi l 'artista deve quindi essere consapevole di cosa immette nel proprio immaginario, perchè solo una mente ben nutrita può produrre frutti succulenti.

Alla prossima pagina.

La fragilità dell'artista


A volte mi sento fatto di cristallo. Mi basta un niente per perdere fiducia in me e in tutto quello che faccio. Una folata di vento negativa, un momento in cui mi volto e non vedo nessuno, ed ecco che subito mi proietto in un universo di vuoto e fallimenti.

Immagino che succeda a tutti, che sia normale percepire quel vuoto esistenziale. Forse è dovuto a come uno ha dormito. Oppure al meteo. Ma quando succede, l'unico colpevole sono io. Ho la cattiva abitudine di sentirmi responsabile di tutto ciò che mi succede. Anche adesso che ho concluso il quarto volume della saga, in cui ho continuamente affrontato il contrasto tra destino e volontà, non riesco a non pensare che la situazione nella quale sono sia dovuta, perlopiù, alle mie scelte, ai miei desideri.

C'è da dire che mi manca da scrivere l'ultimo volume della saga. Forse il più importante. Quello in cui vi è la risoluzione, la conclusione, il mio punto di vista. E lo temo. Temo di dover fare una scelta tra questi due poli opposti della natura della vita. La volontà contro le intemperie del destino. Flavio, o tutto il resto?

Oggi che scrivo queste parole, mi sento fragile. È uno di questi giorni. Per fortuna ho accumulato, negli anni, un po' di esperienza, sufficiente a non farmi sprofondare. È come se avessi acquisito un piccolo agente nel mio cuore che quando percepisce che il limite sta arrivando, ferma tutto e dice: "Vai a dormire, vedrai che domani andrà meglio." e ormai ho imparato ad ascoltarlo.

Il timore è che al mio risveglio, quella sensazione sia ancora lì. E allora scrivo. Recito. Faccio, creo, sogno. Fuggo. Realizzo, nella speranza di dimostrare, prima di tutto a me stesso, che quello che faccio ha un senso.

La mia carriera si è mossa, fin dall'inizio, su vari distinti binari. Quello recitativo, performativo, che mi ha dato molte soddisfazioni, e quello artistico, registico, narrativo. Dentro di me brucia il sogno di lasciare il segno, di incidere, come una ferita, la mia anima nel tempo. Ma è difficile. Trovare l'equilibrio giusto tra forma, contenuto, tecnica e cuore, volontà e successo, è difficile. La volontà nasce da me, ma il successo dipende dal mondo. Un po' come il destino.

E così, in questa affannata ricerca di equilibrio, a volte, guardandomi allo specchio, mi chiedo se io non sia come Don Chisciotte, eternamente votato a combattere contro giganti che in realtà, non sono altro che mulini a vento.

Alla prossima pagina.

Il talento della volontà

A volte mi chiedo se ho talento.

Anzi, più che "a volte", è proprio una domanda ricorrente e costante nel mio percorso d'artista.

Non sto condividendo questo pensiero per avere conferme, tutt'altro, semplicemente per rassicurare chiunque si trovi in una situazione artistica che il dubbio è un elemento fondamentale e integrante del processo creativo.

L'arte ha un problema di fondo, irrisolvibile - per fortuna oserei dire, poiché la rende ancora una disciplina misteriosa - L'arte è soggettiva. Chiunque può dire che un libro è bello, o brutto. Non importa quanto importante sia l'autore. Si può dire che un dipinto è piacevole o blando. Non ci sono regole scritte che lo impediscono. Anzi, appena qualcuno prova a creare un manifesto, a definire ciò che funziona, ecco che arriva un cigno nero che riesce, con una semplicità disarmante, a trasformare tutto.

Mi ricordo la bellissima scena dell'Amadeus di Milos Forman in cui Salieri, (interpretato da un magnifico Murray Abrahams che conobbi sul set di Peter Greenaway), incontra per la prima volta Mozart che gli fa sentire una rivisitazione di un suo brano. L'operato di Mozart è perfetto, magico, allegro. Il primo terribile incontro con la genialità che porterà Salieri alla follia.

Quindi si, spesso mi dico che forse non ho il talento necessario per essere all'altezza delle mie ambizioni. Ma per fortuna, c'è un altro aspetto del mio carattere che in questi momenti di difficoltà interviene in mio aiuto.

Sono caparbio. Ho una volontà di ferro. E se mi metto in testa una cosa, c'è il rischio che non stacco più fino a che non sono riuscito ad ottenerla. Un tratto tipico degli ossessivi, ma che, lo ammetto, mi è stato molto utile in tutti questi anni.

"Ciò che il talento non può, la volontà sopperisce."

Molte cose non vengono dette dell'arte. Ma una in particolare non viene quasi mai espressa: nell'arte il talento non è che la punta dell'iceberg. Una minuscola parte dell'artista. Importante, certo, ma instabile, mutevole come la dinamite. Per lasciare che il talento danzi come una fiamma al vento, servono basi solide, robuste. Serve tecnica, disciplina, organizzazione. E per eccellere in tutte queste cose, serve la volontà. Il famoso desiderio di cui tanto parlo nella Divina Avventura.

La forza di volontà - ed è anche uno dei temi principiali della saga dell'Anello di Saturno - piega anche il destino. Nella mitologia giapponese, spesso l'eroe è dipinto come un uomo volto all'abnegazione, al sacrificio. Ha una volontà tale che si rialza dopo ogni caduta. Perde, ma non importa. Poiché ogni sconfitta è in realtà un insegnamento.

Il percorso dell'artista è costellato di cadute. Molte più delle vittorie. Ma man mano che si procede verso la maturità, la proporzione cambia, perché l'esperienza, frutto del desiderio di farcela, porta l'artista a capire di più su sé stesso, e sulla sua arte.

Quindi, piuttosto che chiederci come si sviluppa il talento, dovremmo chiederci come si sviluppa la volontà? Quale è il segreto per desiderare? La mia ricetta la conoscete: esplorare, scoprire, capire e trovare ciò che ci piace. E poi farlo, farlo e rifarlo fino a che, dopo 10.000 ore, dopo 1 milione di parole, l'arte diventa la naturale continuazione della nostra anima.

Ho 44 anni, e ancora sono alla ricerca della mia dimensione artistica. Chissà se un giorno la troverò. Forse l'ho già trovata e non l'ho ancora capito. Un'unica cosa è certa: come una trottola impazzita, continuerò a girare fino a che avrò energia.

E voi in cosa credete? Nel talento o nella volontà? Oppure in un misto dei due?

Piccola nota a margine, forse alcuni di voi lo hanno già notato, ma ho creato una nuova sezione del sito, che si chiama"Eventi" che in sostanze è il calendario degli eventi e dei firmacopie che farò in giro per l'italia. Come vedrete, è previsto che venga a Latina, a Frascati, nel pieno centro di Rome e Udite udite, Napoli! Per i dettagli, è sufficente guardare la pagina. Non vedo l'ora di vedervi!

Alla prossima pagina.

Una sorpresa per te

Ho scelto, come narratore della saga dell'Anello di Saturno, il Destino: un personaggio interessante e, a quanto ne so, davvero poco usato in narrativa.

Ho cominciato a scoprirlo man mano che la saga si dipanava davanti ai miei occhi. Un essere superiore, che trama l'universo e sa cosa succederà, ma anche cosa sarebbe successo se… Ama l'ordine, le direzioni chiare, i piani ben congegnati.

E ha un solo nemico: Amore.

Amore, un essere caotico, potente, selvaggio, indipendente. Vettore di confusione, di attrazioni, di pensieri che non pensano, e di cuori che non smettono di pulsare. Amore che, con un bacio, riesce a sfilare anche la più intricata trama del destino.

Quindi, visto che la saga è, in buona sostanza, una magica storia d'amore, chi, se non colui che odia l'amore, sarebbe stato il mio perfetto narratore? Il Destino.

Ovviamente, questa dimensione di colui che racconta la storia non è altro che la confezione della storia, la sua pelle più superficiale, ma non certo la sua anima o il suo cuore. Attraverso questa saga, ho cercato di maturare la mia scrittura. Consapevole di peccare di eccessiva densità, dovuta soprattutto al mio amore per la poesia sintetica ed essenziale (le mie poesie, le potete leggere qui sul mio sito, sono molto brevi ed intense, amo quel tipo di impatto). Insomma, ho compreso, con la Divina Avventura, che la densità può rivelarsi un'arma a doppio taglio. Permette di essere molto profondi in poco spazio, di toccare vette di forma e contenuto, ma il costo è la concentrazione richiesta al lettore per apprezzare a fondo il lavoro di incastro che l'autore ha fatto.

Quindi, In questa saga, senza abbandonare la mia natura, che ovviamente ha fatto di tutto per tornare, ho lottato contro il desiderio di essere conciso e ho cercato di dare aria alla mia prosa. Ecco un brano della saga dell'Anello di Saturno.

Luca scendeva i grandi scalini dietro piazza Cavour, numerosi ma bassi e agevoli. Con lo sguardo incollato allo schermo del Game Boy, illuminato dalla luce gialla dei lampioni, giocava a Tetris con grazia e calma. La batteria del gioco era ormai quasi esaurita, segnalata dalla spia rossa più debole del solito. Quando la spia lo abbandonò, tutto si spense improvvisamente. Luca si arrestò, e alzò lo sguardo per la prima volta.
Si trovava in fondo alla scalinata, di fronte agli alberi del parco, lontano dalla piazza. Alzando gli occhi verso la piazza, intravedeva ancora la punta del monumento ai caduti, ma i rumori del borgo erano scomparsi. L'odore della natura riempì le sue narici e notò il silenzio dei grilli, un'insolita quiete piacevole e cullante.
Il cielo era tempestato di stelle, più brillanti di quanto le avesse mai viste. «Sono così tante…», pensò, ammirando la Via Lattea visibile a occhio nudo e individuando pianeti come Marte, Venere e Saturno in un colpo solo.
Poi si accorse di non essere solo. A una decina di metri da lui, alla sua sinistra, sedeva una ragazza sotto la luce gialla dell'unico lampione acceso. Era ferma, con le ginocchia piegate, un libro in mano e una sigaretta spenta tra le labbra.

Ecco. Ora, senza neanche saperlo, siete diventati lettori della saga! Spero che questo piccolo anticipo vi abbia fatto piacere. Ho scelto un brano che anticipa e racconta, ma che non svela nulla, se non la sensazione di quel mondo in cui spero vi tufferete insieme a me: il mondo di Luca e Anna.

Ovviamente, attendo i vostri commenti qui sotto sul sito 🧡

Alla prossima pagina.

L'abito fa il monaco

Diventiamo la maschera che portiamo.

C'è un detto, "L'abito non fa il monaco." Oggi vorrei sfatare questo mito e spiegare come, secondo me, l'abito faccia il monaco eccome.

Lo so per esperienza, di abiti io me ne intendo. Ogni volta che indosso un personaggio, qualcosa di esso rimane in me. Un ricordo, un pensiero, qualcosa che piano piano cresce, come un nuovo albero, introducendo nel vecchio Flavio nuovi concetti, nuovi sentimenti, nuove visioni del mondo.

È uno dei più grandi lussi della recitazione: quello di vivere la vita altrui. Non solo perché è molto divertente, e lo si fa in una situazione controllata, in cui parole, azioni e reazioni sono già state scelte, ma soprattutto perché l'attore ne rimane arricchito. E non parlo del portafoglio, ma del bagaglio umano che abbiamo in noi.

Spesso si parla di "entrare nella parte", cioè riuscire a comprendere appieno il personaggio, i suoi desideri, le sue movenze, i suoi pensieri. Non ho mai avuto problemi a farlo, perché in sostanza, non l'ho mai fatto. Non credo nella recitazione che prova a dipingere un altro da me. Credo in qualcosa di più semplice: esporre la mia anima, e metterla nelle condizioni di essere sincera, umana, emozionante.

Questo significa che non sono io, con le mie scelte attoriali, a dipingere il personaggio. Non sono altro che un tramite che, con l'aiuto di costumi, trucco e parrucco, dà vita ad un altro Flavio, che vive in un'epoca diversa, che dice parole diverse (scritte da qualcuno che, quello sì, ha avuto il compito di immaginarsi un essere umano diverso).

Quindi quando intendo "l'abito fa il monaco" intendo dire che il mio modo di arrivare al "personaggio" se così possiamo chiamarlo, non è di fare una ricerca interiore, di inventarmi il suo passato familiare, storie di cui non si parla nemmeno in sceneggiatura. No, il mio compito è dirla bene, essere sincero e comprensibile. Il resto lo fa "la magia del cinema" (e cioè il montaggio, la regia, i reparti, etc...)

Per me, l'attore diventa monaco indossando gli abiti del monaco. Ma è la sua capacità a toccare le corde dell'anima che giustifica il suo cachet.

Ma c'è di più. Sapevate che a forza di portare una maschera, ne diventiamo noi stessi lo specchio? A forza di essere burberi, per esempio, diventiamo burberi dentro. A forza di sorridere, la nostra anima sorride. A volte sforzarci di essere quello che non siamo in quel momento, è il primo passo per diventare quello che desideriamo.

Grotowski, grande teorico della biomeccanica e del teatro fatto di carne, ossa, sudore, uomini, spesso esponeva un aneddoto. L'aneddoto del grizzly: "Poniamo che siete in una foresta e davanti a voi appare un enorme grizzly, terribile, spaventoso che vi punta. La prima cosa che fate è fuggire. Ma la mia domanda è. Avete paura e quindi fuggite, oppure fuggite di riflesso e la paura vi viene mentre state correndo via dal pericolo?"

Ecco qua, queste sono le due scuole di pensiero della recitazione. La prima è detta Stanislavskiana o Strasberghiana (Actor's studio), parla della nascita dell'azione (cioè della fuga dal grizzly) partendo dall'interiorità (cioè dalla paura che nasce dentro). La seconda, la scuola Grotoswkiana, ipotizza che invece la "maschera" generi lo stato d'animo interiore. Cioè che sia la fuga a generare la paura e non il contrario.

In poche parole, se volete indurre in voi la felicità, ci sono più strade: potete pensare a qualcosa che vi rende felice, e fare la scuola Strasberghiana, oppure potete sorridere e basta, e i pensieri felici verranno da soli.

E voi, quale delle due preferite?

Alla prossima pagina.

Magia del Natale

Natale.

Cosa rappresenta il Natale? In un certo senso, ritengo che questa festività, come ogni bene di valore che possediamo, sia carica di una storia da raccontare. Immaginiamolo come il protagonista di un racconto.

La storia di come nacque il Natale.

C'era una volta, molto tempo fa, un popolo di uomini primitivi, intelligenti, con grande potenziale davanti a sé, ma ancora troppa poca conoscenza. Persone piene di miti, di leggende. Vivevano in un mondo magico, dove ogni cosa era intrisa di mistero. Senza atomi, senza sole, senza neve. Ogni evento era un atto misterioso.

In questo mondo, c'erano la luce e la notte, il sole e la luna. E quanto era spaventosa la notte! Con tutti quegli animali pronti a mangiarli, i suoni della foresta. Un luogo in cui bisognava rifugiarsi in fondo alle caverne per avere la certezza di non essere aggrediti di notte, nel caso in cui il fuoco si spegnesse.

E che sollievo, quando nella notte del 21 dicembre, la notte iniziava ad essere più corta del giorno precedente. Un momento di sospensione, di introspezione, in cui finalmente si prospettavano le giornate felici della primavera.

Quella data, (che ancora "data" non era, poiché il tempo ancora non aveva nome), era un punto di svolta nella natura, un momento climatico cruciale. Un momento in cui tutto diventava più bello. E così, si scambiavano regali, augurandosi, con quel dono, una promessa di fertilità, di opulenza.

Fu così che per centinaia, forse migliaia di anni, gli uomini celebrarono la rinascita della vita, del sole, della luce. Man mano che la realtà si delineava davanti ai loro occhi, che nascevano i primi pensieri, la filosofia, le religioni, la scienza, il mondo acquistava un senso, la nostra capacità di prevedere il futuro si rafforzava. E dopo la nascita della parola, la scoperta delle stelle e del sole, quel giorno magico fu battezzato "il solstizio d'inverno".

"Solstizio", dal latino "solstitium", composto da "sol (sole)" e "stitium (stasi, fermo)". Il momento in cui il sole si ferma.

"Inverno", dal latino "Hibernus", la stagione fredda.

Il momento in cui il sole si ferma, durante la stagione fredda.

Dopo avergli dato un nome, gli attribuimmo anche un significato più elevato, filosofico, umanistico. Il momento della nascita della vita. Nacquero storie e racconti sulla magia di quel momento, che trovò, in ogni luogo e ogni epoca, un'identità diversa, ma che veicolava lo stesso messaggio.

E fu così che il Natale arrivò fino a noi. Tralascerò il modo in cui il costume di San Nicola, dal verde, divenne il rosso e bianco di Babbo Natale, influenzato, diciamolo, dalla pubblicità della Coca-Cola.

Ma a noi che importa? Ciò che conta è che da ora in poi, ci sarà sempre più luce e sempre meno buio.

Buon Natale a tutti voi.

PS: queste vacanze il diario d'artista uscirà solo una volta alla settimana, e poi si riparte!

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Ultimo aggiornamento: 06 gennaio 2024

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