La scrittura erotica

Nella prossima saga, affronterò molti lati oscuri della nostra realtà.
Come mi piace pensare, se L’Anello di Saturno è il sole, Il Labirinto della Speranza sarà la luna.
Esoterismo, thriller psicologico, manipolazione, sette e anche erotismo.
Una faccenda a dir poco delicata!

Non ho paura di affrontare questo lato della scrittura e della narrazione, anzi.
Mi piace, mi diverte e, soprattutto, mi libera.

Voglio che questa prossima saga sia un’effige della libertà di espressione al servizio della storia.
Ieri guardavo una bella intervista a Tarantino, in cui spiegava che il problema delle storie moderne del cinema di Hollywood è che sono prevedibili.

In realtà, gli devo proprio dare ragione: una buona storia si svela man mano che vai avanti, imprevedibile, come un labirinto.

Questa saga, nella quale ormai sono dentro con piedi e gambe, è prima di tutto un grande viaggio, proprio come L’Anello di Saturno.

Un viaggio dentro la psiche di Erik, il protagonista, ma anche nella mia.

Mi rendo conto che la scrittura, al servizio della storia, a volte rispecchia stati d’animo che sto vivendo inconsciamente: il desiderio di controllo, di decidere la cadenza dell’esistenza.

Problemi che, guarda caso, affronta anche Erik.
Insomma, questa avventura si sta rivelando molto più profonda del previsto.

E pian piano, scendendo nei meandri del mio inconscio, affronto i luoghi tetri, oscuri e affascinanti che circondano la notte.

L’erotismo, appunto, è uno di essi.

Non voglio censurarmi, né essere volgare. Chi mi conosce lo sa: non scrivo a caso e di certo non sono volgare. Anzi, trovo che l’erotismo sia l’apice dell’eleganza.

È un contraltare alla pornografia, in cui tutto viene esposto.

L’erotismo, al contrario, è un’allusione, un lago di ambiguità nel quale far sognare il lettore.

Un’altra cosa molto importante: non deve essere gratuito. L’erotismo gratuito è volgare, povero. L’erotismo usato come una lama sottile, che delinea i confini dei rapporti tra i sessi, delle manipolazioni e dei non detti, è colmo di fascino e psicologia.

L’ambiguità. Torna sempre questa parola, e tornerà ancora per molto, in questo mio viaggio.

Un giorno mi hanno chiesto cosa mi sono portato dietro da Tancredi. Credo che l’ambiguità narrativa sia una di queste. Ho sempre lottato per darle un lato umano forte, un’empatia che la rendesse diversa dal solito cattivo. Un uomo con delle ferite, un cuore, ma capace di cose terribili. Questo lo ha reso ambiguo.

Sono rimasto affascinato dal contrasto che porta con sé. Così tanto da aver deciso di scrivere una storia che, come vorrebbe Tarantino, si svelerà nella sua ambiguità, tra corpi, seduzioni, illusioni e paure profonde.

A voi fa paura l’erotismo?

E l’esoterismo?

Spero di non “shockare” troppo coloro che mi leggeranno. Anzi, no. Spero proprio di farlo.

La gabbia del genere

Il genere, questo mostro a sette teste.

Ogni autore deve affrontarlo. Bisogna nascere già categorizzati. Bisogna produrre con in mente un genere.

Roba tosta.

Soprattutto per chi ama viaggiare con la fantasia, per chi ama l’ignoto. Per chi non sa, all’inizio del cammino, come sarà il luogo di destinazione.

Si dice che il genere riguardi gli editori, il marketing.

Eppure, come sapete, io porto due cappelli: quello dello scrittore e quello di chi promuove l’opera. Ho quindi l’assurdo ruolo di far combaciare due elementi che dovrebbero essere scissi: la creazione e la vendita.

Così capita, a volte, di chiedermi:

"Ma questa mia creazione, che genere è?”

E capita di chiedermelo durante il processo creativo, come se, man mano che scrivo, cercassi una forma commerciale. Un intreccio di creatività e strategia. Un po’ quello che sono io.

Il Labirinto della Speranza: il dilemma del genere

Ho concluso la prima stesura del primo volume de Il Labirinto della Speranza. La seconda avverrà solo alla fine della saga, quando avrò completato tutti i volumi.

Ho ricevuto i primi commenti dei Beta Reader.

Uno su tutti mi ha messo in difficoltà: il genere.

Come sapete, io scrivo saghe evolutive, che mutano da volume a volume, non solo nella storia, ma addirittura nei generi.

Ne L’Anello di Saturno, si passa da un amore giovane a un amore drammatico, poi al thriller, fino al fantasy.

Anche Il Labirinto della Speranza segue questo principio. Dentro ci sono tanti generi:

• thriller psicologico,

• noir,

• dark romance,

• mystery.

Tutti i “lati oscuri” dell’animo umano.

Se L’Anello di Saturno era il sole, Il Labirinto sarà la luna.

Una delle critiche ricevute riguarda il primo volume: non è abbastanza “thriller”.

Gli amanti del thriller cercano pericolo, azione, urgenza.

Io, invece, in questo primo volume, gioco con un’angoscia sottile, con ferite profonde, ambiguità morali, risvolti psicologici e drammatici.

Dovrei quindi definirlo Dark Romance invece che Thriller Psicologico?

Oppure un Dramma Mystery?

Ma poi c’è anche l’ambiguità del paranormale… quindi?

“Un thriller psicologico mystery/noir drammatico, con uno slow burn dark romance.”

Si fa prima a leggere il libro che il genere

Come avrete capito, incasellare un’opera in un singolo genere non mi piace.

Esiste un solo genere autentico: Narrativa Contemporanea.

Il resto sono etichette per algoritmi e editori, strumenti per facilitare la ricerca del prossimo titolo, basati sull’assunto:

“Visto che ti piace il thriller, ecco altri 1000 thriller per te.”

Ma se fosse l’autore a piacerti?

Se vedessimo lo scrittore non come un mero esecutore di genere, ma come un esploratore dell’umanità?

Le storie contengono romanticismo, pericolo, poesia, crudezza.

Tutti noi abbiamo vissuto i generi, nella vita.

Dipende dal momento.

Il genere non è altro che il sapore di un momento.

È la fotografia della biodiversità delle energie che ci circondano.

Il mio compito? Esplorare l’anima, incarnarla e restituirvela, in una storia coinvolgente, entusiasmante, incalzante.

Il genere, lo lascio a voi.

La regia e la Scrittura

Chi ha letto i miei romanzi sa che dentro vi è la mia recitazione, il mio desiderio. Chi ha ascoltato gli audiolibri ancora di più, poiché do voce al mio scrivere. Dicitore e scrittore, una cosa rara tra gli autori.

Ma chi mi conosce da veramente tanto tempo sa bene che la mia passione, forse seconda solo alla scrittura, è sempre stata la regia. Ho prodotto e messo online ben tre prodotti audiovisivi. Il primo era un film di “animazione” denominato Sogno Farfalle Quantiche, in cui raccontavo con estrema creatività visiva la turbolenta estate di Matteo e Flavio. Un filmino dell’estate con funghetti allucinogeni.

Poi ci fu #bymyside, una specie di "Aspettando Godot" urbano, sempre con gli stessi attori e compagni di vita, che mi seguirono anche in quella che fu poi la mia ultima impresa audio-visiva: Days, un film interattivo in cui, come in Rashomon, era possibile per lo spettatore, scegliere “chi” seguire dei personaggi. Un’interazione in cui ciò che cambia non è la storia, bensì il punto di vista. Andò bene, ma non abbastanza.

Del perché forse ne parlerò più avanti. Ora voglio concentrarmi su ciò che queste esperienze mi hanno portato nella scrittura. 

Prima di fare questi film, dovete sapere che avevo fatto 4 anni di regia al Teatro Stabile di Genova, e altrettanti a fare da assistente alla regia di Sciaccaluga, Langhoff, Nichetti.

Insomma, ho la regia nel sangue. Ho visto tutto Kubrick più di una volta, amo l’estetica essenziale, la forma pulita.

Quando leggerete le pagine dei miei libri, ci farete caso. La regia è presente, e ha un sapore fortemente cinematografico, ne sono consapevole.

Ora sto scrivendo Il Labirinto della Speranza, e ciò che faccio, nella prosa, non è scrivere, ma descrivere. Cerco di raccontare, attraverso la parola, l’oggettività dell’azione. Per lasciare poi che il processo creativo avvenga nella mente di chi mi legge. Scrivere e leggere sono legate da un rapporto armonico. Io non sono che la scintilla che accende l’anima, il resto, il lavoro di immaginazione, lo fa il lettore. Per questo ogni lettura è diversa. Perché ogni lettore ha una sua tonalità di rosso mattone, ogni lettore vede la montagna innevata che taglia le nuvole in modo diverso.

L’uomo non è un animale pensante, ma sognante.

Il sogno emerge dalla lettura che gli dà spago.

Sempre più mi piace perdermi nella prosa, per poi, in editing, tagliarne una buona fetta per mantenere il giusto equilibrio, quello fondamentale, quello del desiderio di continuare a leggere.

Ah, giusto, la regia nella scrittura!

Ora, sopresa, come piccola anticipazione di cosa vi aspetta, vi lascio un estratto del Labirinto della Speranza, ditemi voi dove vedete la regia. Se la vedete. Poi vi rispondo nei commenti.

Piccola premessa, questa è una prima stesura, che ho cercato di formalizzare come fosse finale, in questo modo, vi darà una previsione anche di sensazione. Il contenuto potrebbe variare alla pubblicazione. Zero spoiler.


Erik arriva davanti alla porta del suo appartamento.

Gira le chiavi nella serratura.

Apre. 

L’odore di muffa lo travolge. Pesante. Umido. Vivo.

Si ferma sulla soglia.

Un respiro. Un altro. L’aria entra a fatica nei polmoni. Troppo densa di passato.

Entra e chiude la porta alle sue spalle. 

Un clic soffocato.

La polvere aleggia tra i raggi di luna che filtrano dai vetri opachi. Gli spifferi sembrano parlare, sussurrando ricordi sepolti. In quel silenzio, cantano gli echi di una vita. La risata di Alice in cucina. Il suono di un cucchiaino di plastica che batte frenetico sul tavolo. Il profumo del caffè.

Erik volge lo sguardo al corridoio.

Si avvicina.

Si ferma davanti a una porta. Ha un adesivo scolorito al suo centro. Un cuore rosso, fissato con puntine colorate. 

Una scritta.


 (Non è quello che c’è scritto)

La mia voce narrante

Il narratore, "la voce", come dicono. Colui che racconta la storia.

Si dice che una storia non sia soltanto la storia dei protagonisti, ma anche la relazione tra colui che narra e colui che legge.

Da qualche giorno mi sto impegnando a definire meglio il tipo di narratore che voglio avere nella prossima saga. Chi ha letto La Divina Avventura e L’Anello di Saturno già conosce il mio amore per le prospettive originali.

Nella Divina Avventura, la storia viene narrata in una prospettiva di narratore limitato in terza persona al passato remoto, da Kato, l'antagonista.

Nell’Anello di Saturno, ancora in corso, ho invece optato per un narratore onnisciente in terza persona al passato remoto, nemmeno tanto limitato a Luca, visto che di tanto in tanto il Destino bazzica anche nelle anime di AnnaRonnieGeppoFloyd e il resto della combriccola.

Penso che ogni storia debba avere il narratore giusto. Un po’ come le lenti in fotografia. Se si fa un primo piano, bisogna usare un teleobiettivo, in modo che la prospettiva della figura non sia troppo distorta; se invece si inquadrano luoghi architettonici, meglio usare lenti larghe, addirittura grandangolari. Poi si possono anche fare esperimenti (come inquadrare un volto con un grandangolare, creando una specie di mostro), ma per una saga in cinque volumi, la scelta deve essere ponderata ed equilibrata.

Questa volta non voglio usare un personaggio per narrare la storia; voglio fondermi del tutto con il racconto, senza creare un filtro esterno. Questo mi toglierà la possibilità di filosofeggiare, ma creerà sicuramente più immediatezza. E considerando che sarà un thriller psicologico paranormale, voglio stare il più vicino possibile ai miei personaggi.

L’opzione classica sarebbe usare un narratore onnisciente in terza persona con il passato remoto:

Erik si fermò davanti alla porta. Il silenzio lo avvolse, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo. La porta portava ancora i segni di una vita che non c’era più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo. Tentò di respirare, ma l’aria gli sembrò improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna gettava riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”. Erik serrò i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fece un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posò sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormorò, mentre il respiro gli si spezzava in gola.

Questa opzione è un evergreen, che però ha il “difetto”, se vogliamo, di perdere di immediatezza, poiché la storia è “già avvenuta”.

L’altra opzione, molto in voga in questo periodo, è il narratore limitato in prima persona al presente:

Mi fermo davanti alla porta. Il silenzio mi avvolge, denso, opprimente, come una coperta troppo pesante. La porta ha ancora quel segno, quel ricordo di un tempo che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Provo a respirare, ma l’aria sembra non arrivarmi ai polmoni.
Dalla finestra, la luce fioca della luna riflette bagliori argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Stringo i pugni. Le unghie mi scavano nei palmi, ma non mollo la presa.
Faccio un passo avanti. Solo uno, e già sento il sangue gelarmi quando la mia mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», sussurro, con il respiro spezzato e la gola che brucia.

Interessante, ma ha un problema piuttosto enorme. Sono limitato ogni volta dal narratore. Non posso raccontare quello che passa nella testa di terzi se non cambiando del tutto prospettiva. Diventa molto, troppo limitante per i miei gusti.

Così, sono andato a cercare tra i miei romanzi in libreria se avessi qualcosa di ibrido. Niente… Mi metto quindi alla ricerca di una forma alternativa che mi possa dare la sensazione di immediatezza del presente, con la flessibilità della terza persona.

Ecco a voi il narratore limitato in terza persona al presente:

Erik si ferma davanti alla porta.
Il silenzio lo avvolge, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo.
La porta porta ancora i segni di una vita che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Tenta di respirare, ma l’aria gli sembra improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna getta riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Erik serra i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fa un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormora, mentre il respiro gli si spezza in gola.

Scrivete nei commenti quale stile vi piace di più.

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Flavio

Come sviluppare la creatività?

Sono un creativo e mi piace immaginare. A volte, mi viene chiesto: «Ma come ti è venuta in mente quest'idea?» e non so rispondere. Non conosco le dinamiche che mi portano all'ideazione. È difficile anche tracciarle, poiché ritengo che l'idea sia semplicemente la manifestazione esteriore di un movimento interiore, che include molti aspetti della persona: la sua formazione, i suoi desideri, la sua indole, ma anche il momento, il meteo, l'ora, lo stato emotivo. In sintesi, la creatività è un fenomeno complesso, che non può essere affrontato come una singola disciplina, ma piuttosto come una dimensione multidisciplinare. Ed è così che voglio affrontarla oggi, cercando di capire i meccanismi che portano all'idea.

Prima di tutto, vi è la persona: l'io, la mente. Questo insieme magmatico di paure, desideri, formazione. Le voci esteriori, come quelle dei nostri genitori, dei nostri amici, della società. Questa persona non è solo mente, ma anche emozione: il battito cardiaco, la respirazione, la voce. Sensazioni di abbandono, di felicità. Tutto lo spettro delle nostre emozioni veicola, all'io, una prospettiva unica sul proprio bagaglio interiore.

Poi, oltre l'io e le emozioni, c'è il corpo: la fisiologia. Stiamo correndo, camminando, digerendo; abbiamo nicotina, caffeina, sonno, appena svegliati. La nostra biologia, i nostri muscoli, quanto sono allenati, la nostra schiena, quanto è diritta. Ma anche se vediamo bene. Io, per esempio, sono miope, e questo mi limita tantissimo nella percezione del mondo. Senza occhiali, vivo in una bolla sfuocata. (Per chi volesse saperlo, mi mancano 5.25 e 5.75, che, diciamolo, mi mette di fatto tra le talpe del mondo.)

Ma questa mente, piena di emozioni in un corpo vivo, vive nel mondo. E qui entrano le dinamiche esterne. C'è la luce del sole, il pallore della luna. La musica di Chopin o il traffico cittadino. Fa freddo, fa caldo.

Ora vi svelo un segreto: le idee, secondo me, stanno nel numeno. E se tutte queste variabili, che ho elencato, sono tarate al punto giusto, in equilibrio tra loro, allora, a volte, entriamo in contatto con il regno delle idee, il numeno. Per chi non sapesse cos'è il numeno: Il numen, nella sua origine romana, rappresentava una forza divina o presenza spirituale che permeava il mondo naturale, guidando e influenzando la vita quotidiana attraverso entità o aspetti sacri della realtà. Questo concetto, trasposto nella filosofia moderna, trova un parallelo nella nozione kantiana di "noumenon" o "cosa in sé", che si riferisce alla realtà ultima che sta al di là della percezione umana e delle esperienze sensoriali. Cioè qualcosa che non possiamo conoscere.

Come fare, quindi, a ottenere questo allineamento? Metodo e disciplina. Cibarsi con cibi sani, sia per l'anima che per il corpo, che del mondo e circondandoci di bellezza, bellezza architettonica, bellezza artistica, musicale. Cercare arricchimento classico e curiosità. Approfondire le sfumature della realtà, infilarsi nelle pieghe del creato alla ricerca di ciò che non conosciamo. Camminare ad occhi aperti, grati dell'esperienza che ci è stata data di vivere questa Divina Avventura che è la vita.

Magia del Natale

Cosa rappresenta il Natale? In un certo senso, ritengo che questa festività, come ogni bene di valore che possediamo, sia carica di una storia da raccontare. Immaginiamolo come il protagonista di un racconto.

La storia di come nacque il Natale.

C'era una volta, molto tempo fa, un popolo di uomini primitivi, intelligenti, con grande potenziale davanti a sé, ma ancora troppa poca conoscenza. Persone piene di miti, di leggende. Vivevano in un mondo magico, dove ogni cosa era intrisa di mistero. Senza atomi, senza sole, senza neve. Ogni evento era un atto misterioso.

In questo mondo, c'erano la luce e la notte, il sole e la luna. E quanto era spaventosa la notte! Con tutti quegli animali pronti a mangiarli, i suoni della foresta. Un luogo in cui bisognava rifugiarsi in fondo alle caverne per avere la certezza di non essere aggrediti di notte, nel caso in cui il fuoco si spegnesse.

E che sollievo, quando nella notte del 21 dicembre, la notte iniziava ad essere più corta del giorno precedente. Un momento di sospensione, di introspezione, in cui finalmente si prospettavano le giornate felici della primavera.

Quella data, (che ancora "data" non era, poiché il tempo ancora non aveva nome), era un punto di svolta nella natura, un momento climatico cruciale. Un momento in cui tutto diventava più bello. E così, si scambiavano regali, augurandosi, con quel dono, una promessa di fertilità, di opulenza.

Fu così che per centinaia, forse migliaia di anni, gli uomini celebrarono la rinascita della vita, del sole, della luce. Man mano che la realtà si delineava davanti ai loro occhi, che nascevano i primi pensieri, la filosofia, le religioni, la scienza, il mondo acquistava un senso, la nostra capacità di prevedere il futuro si rafforzava. E dopo la nascita della parola, la scoperta delle stelle e del sole, quel giorno magico fu battezzato "il solstizio d'inverno".

"Solstizio", dal latino "solstitium", composto da "sol (sole)" e "stitium (stasi, fermo)". Il momento in cui il sole si ferma.

"Inverno", dal latino "Hibernus", la stagione fredda.

Il momento in cui il sole si ferma, durante la stagione fredda.

Dopo avergli dato un nome, gli attribuimmo anche un significato più elevato, filosofico, umanistico. Il momento della nascita della vita. Nacquero storie e racconti sulla magia di quel momento, che trovò, in ogni luogo e ogni epoca, un'identità diversa, ma che veicolava lo stesso messaggio.

E fu così che il Natale arrivò fino a noi. Tralascerò il modo in cui il costume di San Nicola, dal verde, divenne il rosso e bianco di Babbo Natale, influenzato, diciamolo, dalla pubblicità della Coca-Cola.

Ma a noi che importa? Ciò che conta è che da ora in poi, ci sarà sempre più luce e sempre meno buio.

Buon Natale a tutti voi.

PS: queste vacanze il diario d'artista uscirà solo una volta alla settimana, e poi si riparte!

L'inverno e le stagioni dell'anima

Siamo animali stagionali. Fino a pochi anni fa, cinquemila, circa, noi uomini sapiens, eravamo schiavi della migrazione, ci spostavamo, da landa a landa, navigavamo la terra con la forza dei nostri piedi, in piccole tribù nomadi, alla ricerca dell'eterna primavera.

Le stagioni sono dentro di noi, sono parte di noi, della vita. É come se la stagionalità fosse una manifestazione del decorso naturale di un'opera d'arte.

Pensateci. Tutto nasce con la primavera, lo sbocciare dei fiori, il nascere dei profumi, la nascita di un amore, di un incontro, della magia.

In estate poi, tutto si scalda, l'amore diventa eros, il conflitto battaglia, la potenza del sole accende la vita, ma la brucia, l'intensità della luce che non solo fa esplodere la natura, ma la punisce.

E poi, dopo che l'intensità del sentire si spegne, le lente vibrazioni dell'autunno emergono dentro di noi. I pensieri sull'estate vissuta, la percezione di qualcosa dentro di noi, l'autunno della vita, l'esistenzialismo, l'umanesimo.

Infine, ed è proprio il caso di dirlo, arriva l'inverno. Quello che a breve incontreremo anche noi. Un momento dove il freddo ferma la natura, i pensieri. Un momento in cui tutto rallenta, in cui la dolce neve degli anni, che cade sui capelli d'argento, ovatta il rumore del mondo, e ci culla, verso l'eterno dormire.

Ma ecco che, sotto la coltre di freddo, di bruma e di neve, un bocciolo è ancora vivo. Non solo, è proprio grazie a questo freddo che è riuscito ad accumulare le energie per sbucare fuori, per tornare a vivere! La primavera è tornata! E tornerà sempre. Noi siamo la vita, e la nostra anima, persino il nostro ciclo artistico, trova in questi quattro movimenti un ordine, un senso.

Ognuno di noi è un vettore autonomo, che si muove, certo, tra le stagioni del mondo, ma che ha, dentro di sé, quelle che chiamo le stagioni dell'anima. E a volte, anzi, il più delle volte, queste stagioni discostano da quelle della natura.

In questi cinquemila anni ci siamo evoluti, abbiamo cominciato a coltivare, siamo diventati sedentari, abbiamo costruito strumenti per creare società sempre più stanziali e forti, e il nostro orizzonte degli eventi (cioè la nostra capacità di vedere il futuro) si è espansa oltre la velocità della luce. Sappiamo addirittura quando andare via dal sistema solare prima che il sole ci inghiotta tutti diventando una gigante rossa (per vostra informazione, sono circa cinque miliardi di anni nel futuro, quindi c'è tempo).

Insomma, siamo diventati autonomi dalla natura, ma ci portiamo ancora dentro questi movimenti atavici, questo sentire il ciclo della vita. Soprattutto chi vive in città (io per primo) non si rende davvero conto di quanto la natura cambi con le stagioni. Abbiamo il condizionatore, i termosifoni, la televisione, internet, la realtà virtuale. Tutte cose che ci permettono di fuggire dal presente, dal momento, dalla finestra sul mondo, quella vera, quella che avete accanto, quella fatta di vetro.

Ogni volta che vado dai miei genitori, in campagna, mi rendo conto di quanto sia importante il contatto con la natura, non tanto per una questione etico-filosofica, morale o politica, no. Per una questione umanista, animista, oserei dire.

Stare a contatto con le stagioni, sentirsi abbracciati da esse ci permette di riallineare il nostro mondo interiore con i cicli naturali del caldo, del freddo, del sole e della luna, dell'inverno, dell'estate. Ci fa tornare alla nostra natura, a quell'equilibrio che in fondo giace in tutti noi, ma che tendiamo a dimenticare, così presi da noi stessi e dal nostro mondo interiore.

Mi piace pensare che l'equilibrio, se mai esistesse, non venga raggiunto attraverso un percorso personale di isolamento, ma attraverso la connessione con ciò che ci circonda. Con le Idee, gli uomini e le donne. La vita, la natura. Esularci da essa, pensare che davvero noi siamo come i chip dei nostri smartphone, è limitare la nostra essenza, la nostra natura. Noi siamo vita, e abbiamo bisogno di vita per sentirci bene. Il vento freddo sulle guance, il suono del mare, la neve tra i palmi delle mani, i piedi immersi nel bagnasciuga di giugno, il calore di un falò, il profumo del carbone sul quale il cibo cuoce.

Insomma, spegniamo il telefono e godiamoci questa fantastica parentesi che ci è stata donata, provando ad allinearci con la natura. Sta arrivando l'inverno? E che inverno sia anche per la nostra anima, così da prepararci alla rinascita che, sicuramente, arriverà!

Può l'Arte Resistere al Tempo?

Da giovane, collezionavo DVD. Avevo l'antologia dei miei due registi preferiti. Hitchcock e Kubrick. Possedevo tutti i loro film, che ho guardato e riguardato non so quante volte. I miei preferiti? Forse 2001 per Kubrick, anche se adoro il lento scorrere di Barry Lindon, e per Hitchcock, direi "Vertigo". Ma ognuno dei loro film è un capolavoro senza tempo.

Se dovessi scegliere tra Kubrick e Hitchcock, forse sceglierei Kubrick. Ammiro molto la sua capacità camaleontica di aver cambiato genere ad ogni film che ha affrontato. Sembrava deciso a vagare tra le trame dei generi e fare, di ogni sua opera, un mondo unico, che si aggiungesse al ventaglio incredibile di emozioni che aveva affrontato nei precedenti.

Solo Kubrick è stato capace di passare dall'incredibile comicità di Sellers in "Dr Stranamore" alla folle violenza di "Arancia Meccanica". Ogni suo film è un capolavoro che va preso quasi come una stella a sé stante, un universo a parte. Io ambisco a questo.

La domanda originale è però di tutt'altro sapore, quanto dura l'arte? Ha una data di scadenza? A volte mi fa paura il pensiero. Per esempio, guardo un capolavoro come 2001 che tratta di concetti alti, di antropologia, di filosofia, è lisergico, visionario, ma la parte nella base lunare, per quanto anch'essa visionaria, è figlia dei suoi tempi, della moda, della contemporaneità che si fa subito vecchia, antica.

Eppure, il film sopravvive al tempo, anzi, piano piano il suo valore, come i materiali nobili, aumenta. HAL, il computer intelligente che decide di uccidere gli uomini è più attuale di tanti cineasti moderni che vogliono parlare dei problemi dei nostri tempi. Certo, questo è dovuto allo scrittore del libro di Arthur C. Clarke, ma Kubrick ha saputo dipingerlo nel migliore dei modi e il film è il frutto di una collaborazione tra i due.

Kubrick ha dipinto HAL 2000 in maniera elegante, precisa, impietosa. Un occhio rosso che è diventato, nel corso del tempo, l'icona del grande fratello, di colui che tutto sa e tutto spia. Una presenza quasi divina, anzi - demoniaca.

Alcune case editrici dicono che un libro, passato i primi 6 mesi della sua uscita, è "vecchio". Davvero un libro ha una data di scadenza così terribilmente breve? Io voglio pensare che le parole scritte possano sopravvivere persino a colui che le ha immaginate, che possano solcare il tempo, surfare l'onda dell'evoluzione e parlare ai posteri, persino meglio che ai contemporanei.

Io sono certo che sia così, perchè quando rileggo i grandi filosofi greci, io vedo me stesso. Eppure loro non avevano il telefonino, l'intelligenza artificiale, l'elettricità. Eppure i pensieri sopravvivono. Per quale motivo? Penso che sia perchè i problemi fondamentali che affrontiamo, la morte, il divino, l'amore, il destino. Sono tutti temi che sono validi ora e lo saranno tra mille anni. Lo saranno fino a che rimarremo umani, finché saremo vivi.

Durante questo cammino verso il mio futuro da scrittore, ho incontrato molte persone, anch'esse appassionate dall'arte di narrare delle storie. Alla domanda "perchè lo fai?" quasi tutti mi hanno dato una risposta simile: "Voglio lasciare un segno, lasciare qualcosa."

In fondo, ciò che spinge l'artista a "fare" è questo: la speranza che quel suo gesto rimanga nel tempo. Che non abbia data di scadenza. Secondo voi l'artista è un illuso? Tutto prima o poi scompare oppure davvero coloro che sono toccati dalla grazia del mistero riescono a diventare immortali?

Vi aspetto nei commenti,

Hu-ga e il Paradiso Nascosto

Molto tempo fa, in una terra non troppo lontana da noi, viveva Hu-ga, un ragazzo del Paleolitico superiore. Aveva la mascella larga, gli occhi neri e una folta chioma. Non era alto, ma si muoveva bene ed era curioso. Se ne stava nel suo villaggio stanziale insieme alla sua tribù. Oggi era il giorno di caccia, ma lui non era stato invitato. Huga non era un abile cacciatore o pescatore come i suoi atletici coetanei, era troppo distratto, aveva sempre lo sguardo rivolto verso il cielo. Così, il capo villaggio aveva deciso di lasciarlo con le femmine, ad occuparsi dei figli.

Quella notte, dopo che tutti i neonati erano finalmente calmi tra le braccia delle madri addormentate, Huga si allontanò, osservando la luna piena. Così luminosa da sembrare un sole. Si guardò indietro, il falò del villaggio era lontano, ma la luna non sembrava avvicinarsi. Questa cosa lo incuriosì a tal punto che decise di continuare la sua camminata. Una lucciola gli fece strada, poi altre mille, e Huga si inoltrò nella foresta, circondato dalle piccole luci fosforescenti degli spiriti del bosco.

Armato solo di un bastone rudimentale, Huga cammina tutta la notte, superando ostacoli, affrontando il buio. Non vede cosa lo circonda, ma nota occhi luminosi, sente ruggiti lontani, bestie gigantesche, corni, mostri. Mentre procede cercando di fare silenzio, le sue fantasie prendono vita. Immagina serpenti a sei teste, cavalli alati con corna d'oro. Ma alla fine della notte, proprio quando l'alba tinge di rosso il manto erboso, emerge dalla foresta scoprendo un meraviglioso lago. Cristallino, placido e colmo di pesci da vederli ad occhi nudi. Il suo stupore è immenso: mai, nella sua vita, aveva visto qualcosa di simile.

Huga passa la giornata a godersi il lago, nuotando, ridendo e bevendo a bocca spalancata l'acqua dolce in abbondanza. Dagli alberi, frutta matura, intonsa, sembra aspettare di essere mangiata. Ma, sdraiato all'ombra di un albero, Huga si rende conto che tutta questa gioia non ha senso se non viene condivisa. Così, decide di tornare al villaggio per condividere la sua scoperta. Il viaggio di ritorno è pieno di pericoli, ma Huga ora conosce la strada, conosce le rocce dietro le quali nascondersi, gli alberi sui quali salire per evitare i mostri. La notte è sua. La luna è un'amica che lo aiuta a superare le paure.

Tornato al villaggio, Huga narra le sue avventure davanti a un fuoco acceso. Tutti lo ascoltano con meraviglia. Persino il capo, così severo e duro, cede alle incredibili storie che Huga racconta, usando gesti, disegnando sulla sabbia quello che aveva visto, prendendo gli spettatori per le spalle, raccontando con entusiasmo e forza la sua impresa, la sua avventura. Le sue storie sono piene di emozione e di stupore, Huga descrive creature incredibili, e soprattutto, un paradiso nascosto. Un luogo incantato, dove acqua, cibo e pace aspettano chi lo seguirà. Tutti sono a bocca aperta davanti a questo racconto. E il ragazzo che una volta era considerato un sognatore distratto, diventa un portatore di speranza. Stimato e rispettato.

Alla fine della sua storia, Huga invita i suoi simili a seguirlo, a scoprire il paradiso che ha trovato. Il capo teme per l'incolumità della sua tribù: "In quella foresta ci sono i mostri. Moriranno." Ma Huga spiega come fare, bisogna camminare silenziosi nella notte. Come ha fatto lui. Il capo guarda il suo villaggio, le scorte sono finite, l'inverno è alle porte, forse quel paradiso potrebbe dare alcuni anni in più alla sua breve vita. E così, tutti partono per un esodo notturno che li porta, proprio come successe a Huga, verso il paradiso.

Fu così che Huga, pioniere di nuove scoperte e immaginazione, diede nuova vita al suo villaggio, ai suoi simili e in fondo, a tutti noi. In un certo senso, Huga è stato il primo artista dell'umanità, che usò le sue parole per dipingere immagini vive nella mente di coloro che lo ascoltavano. Il precursore di molti dopo di lui, che insieme, fecero crescere il ruolo dell'arte come mezzo per condividere esperienze, stimolare l'immaginazione e unire le persone. 

La Nascita dell'Arte

Cos'è un artista, davvero?

In una serata indimenticabile, durante il matrimonio di un vecchio compagno di collegio, a cui ero stato invitato come testimone, ho trovato un risvolto amaro alla risposta di questa domanda. Fu un invito che accettai con gioia e senza esitazione. Il matrimonio si svolgeva in una splendida città del Nord Europa, e mi offrì l'opportunità di trascorrere una giornata rilassante con un vecchio amico che non vedevo da tempo. Era come fare un salto indietro nel tempo, rievocando tanti "ti ricordi" e piani per il futuro.

In seguito, quella stessa sera, avevamo prenotato un tavolo in un ristorante indiano. Durante la cena, si verificò un incidente che, a posteriori, avrei identificato come il preludio della fine della nostra amicizia. Mentre attendevamo papadam e samousa, discutevamo dei nostri rispettivi progetti futuri. Il mio amico aveva sempre aspirato a essere un artista, con interessi che spaziavano dalla regia alla scrittura, e possedeva un talento indiscutibile. Tuttavia, le circostanze della vita lo avevano portato su un percorso diverso. Io, al contrario, avevo scelto di diventare un narratore fin dai vent'anni, percorrendo un sentiero che non ho mai abbandonato, nonostante i molti sacrifici necessari per raggiungere i miei obiettivi. 

Mentre discutevamo di arte, la neosposa del mio amico mi chiese, con un tono che oscillava tra il polemico e il sardonico: "Ah, quindi tu ti ritieni un artista?" Ricordo di essere rimasto molto ferito da quella domanda e soprattutto dal fatto che il mio amico non disse nulla per difendermi. Non risposi, ritenendo che non valesse la pena di farlo. Tuttavia, era evidente che quella domanda aveva creato una crepa irrimediabile tra noi. Nei mesi successivi, ci siamo scritti sempre meno, finché, dopo un altro scontro causato da un commento che ho percepito come eccessivamente critico e cattivo su un mio primo romanzo (mai pubblicato), decisi che era arrivato il momento di tagliare i ponti con questo amico di lunga data.

Vi racconto questo episodio perché, anni dopo, mi pongo ancora la fatidica domanda: cosa significa essere un artista? Vuol dire essere una persona che vive del proprio mestiere artistico? O è qualcuno che crea arte indipendentemente dal guadagno? O forse qualcuno che ha la "sensibilità" di osservare il mondo attraverso lenti uniche? La discussione è aperta e non esistono risposte definitive. L'arte assume tante forme quanto le opinioni e le idee che la circondano. E le modalità per esprimerla - emotive, intellettuali, fisiche - non pongono limiti alla sua definizione.

Per questo, oggi, ho deciso di tentare un esperimento inusuale. Questa pagina di "Diario d'artista" sarà in due episodi. Ho l'intenzione di inventare e raccontare una favola a questo proposito: "Cos'è un artista?"

Permettetemi di presentarvi Hu-ga. Potreste trovare il suo nome insolito. Ma, al tempo di Huga, le parole come le conosciamo non esistevano ancora. I fulmini erano considerati manifestazioni divine, il fuoco era una magia che cadeva dal cielo, e il sole non era nemmeno trascinato dal carro di Helios, perché la ruota, ai tempi di Huga, non era stata ancora inventata. Huga apparteneva a un folto gruppo di uomini e donne: una tribù. Vestivano pelli, erano forti e robusti, e i più abili tra loro brandivano bastoni con una roccia affilata all'estremità. Huga era speciale. Possedeva un dono, anche se ancora non ne era consapevole. Era giovane, ma secondo gli "standard dell'epoca", era un uomo nel pieno della sua vita. Dovete sapere che durante il Paleolitico superiore, l'aspettativa di vita era notevolmente più bassa rispetto a oggi. Un uomo poteva considerarsi fortunato se raggiungeva i 30 anni. Huga, con i suoi 16 anni, era quello che oggi chiameremmo un "uomo nel fiore degli anni". In questo breve racconto, intendo narrare la sua storia. La storia del primo artista della specie umana.

IL PRIMO ARTISTA

Molto tempo fa, in una terra non troppo lontana da noi, viveva Huga, un ragazzo del Paleolitico superiore. Aveva la mascella larga, gli occhi neri e una folta chioma. Non era alto, ma si muoveva bene ed era curioso. Se ne stava nel suo villaggio stanziale insieme alla sua tribù. Oggi era il giorno di caccia, ma lui non era stato invitato. Huga non era un abile cacciatore o pescatore come i suoi atletici coetanei, era troppo distratto, aveva sempre lo sguardo rivolto verso il cielo. Così, il capo villaggio aveva deciso di lasciarlo con le femmine, ad occuparsi dei figli. Quella notte, dopo che tutti i neonati erano finalmente calmi tra le braccia delle madri addormentate, Huga si allontanò, osservando la luna piena. Così luminosa da sembrare un sole. Si guardò indietro, il falò del villaggio era lontano, ma la luna non sembrava avvicinarsi. Questa cosa lo incuriosì a tal punto che decise di continuare la sua camminata. Una lucciola gli fece strada, poi altre mille, e Huga si inoltrò nella foresta, circondato dalle piccole luci fosforescenti degli spiriti del bosco [...]

, per la continuazione e conclusione della favola.

L'importanza della scelta dei nomi dei personaggi: significati e simbolismi

Nel post di oggi, mi soffermo sulla scelta dei nomi dei miei personaggi. Un argomento che può sembrare superficiale ma che riveste una certa importanza. Come affermava Shakespeare, "Che cosa c'è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo."

Oppure, un altro testo fondamentale sostiene che "In principio era il verbo".

La parola, dunque, ha un potere antico e profondo: quello di dare vita e di manifestare qualcosa di vero agli occhi altrui. I nomi sono un tentativo di oggettivizzare la realtà e quindi sono lo strumento di comunicazione per eccellenza. Pertanto, ho dedicato particolare attenzione ai significati dei nomi dei miei personaggi, pur cercando di non attribuire un senso a tutto, poiché la vita, l'arte e la bellezza non hanno un senso preciso, ma semplicemente esistono.

In sintesi, da un lato la nomenclatura è la ragion d'essere della realtà, dall'altro è un tentativo superficiale di spiegare tutto. Fatemi sapere cos'è per voi la nomenclatura. Conta? E' importante? Oppure è solo un addobbo?

Iniziamo con Kato, un nome giapponese. Scritto come 加藤, il primo carattere, "加" (ka), significa "aumentare", mentre il secondo, "藤" (to), si riferisce al glicine. Il nome può dunque essere inteso come "glicine che cresce". In alternativa, 加東 ha lo stesso primo carattere e il secondo, "東" (to), che significa "est"; quindi, il nome potrebbe significare "aumentare verso est". Kato è quindi un albero in crescita, che si dirige verso est, alla ricerca della fonte di tutto, della luce e della verità.

Passiamo a Overton, che fa riferimento alla "finestra di Overton", un concetto usato in sociologia che descrive il range di idee o temi ritenuti accettabili nella società. Quando si sposta la finestra di Overton, ciò che era accettabile diventa inaccettabile e viceversa. Overton quindi è colui che continua a modificare la propria visione del mondo, seguendo o spostando la propria finestra di percezione.

Poi ci sono Maya e Govin, due nomi di origine indiana. Maya si riferisce al "Velo di Maya", un concetto che nella filosofia induista indica l'illusione del mondo materiale, che nasconde la vera natura spirituale della realtà. Govin, invece, è un diminutivo di Govinda, un nome sanscrito che significa "colui che porta le mucche al pascolo" e che è associato a Krishna nella mitologia induista.

A volte, un nome si impone e il personaggio si sviluppa attorno ad esso, rendendo difficile per l'autore abbandonarlo. Tuttavia, ci sono momenti in cui è necessario cambiare nomi: ad esempio, Luna, l'amore di Kato, inizialmente si chiamava "Xena", ma il nome richiamava troppo "la principessa guerriera". Allo stesso modo, Rex, l'abile marinaio che "aiuterà" Overton nella sua avventura, ora si chiama "Argo", un nome che suona meno come quello di un famoso cane poliziotto e fa riferimento a una delle più belle storie della mitologia greca, "Giasone e gli Argonauti", che salpano su una nave chiamata Argo alla ricerca del Vello d'oro.

I nomi nel romanzo, dunque, hanno una storia e chiunque voglia approfondire ognuno di essi troverà una motivazione, sia essa emotiva, concettuale, razionale o estetica.

Per concludere, vorrei ribadire che, a mio avviso, la nomenclatura è più un lavoro di studio che di pura espressione artistica. Ho sempre avuto l'impressione che "trovare i nomi giusti" sia un tentativo, vano, di fissare la realtà e dare un senso a questa vita che, come cantava il poeta Vasco Rossi, "un senso non ce l'ha".

A presto per un altro articolo!

Amore, appartenenza e divinità

Ciao a tutti,

Oggi voglio condividere con voi alcuni dei temi principali del mio libro, "Divina Avventura", che riflettono le questioni che mi hanno sempre affascinato nella mia vita. E penso altri miliardi di esseri umani come me. Questi temi includono il senso di appartenenza, la ricerca della perfezione di cui ho già parlato in un precedente articolo, l'amore e il divino.

"La Divina Avventura" ruota molto attorno al tema del divino, esplorando le complesse relazioni dei personaggi con l'aldilà. Perché chi di noi non si è mai chiesto se un nonno, uno zio, un avo non ci sia ascoltando proprio in questo momento? E non sia lì a guardarci, con un sorriso benevolo, davanti alla nostra "beata ignoranza"?

Nel mondo di Baltica, però, gli uomini possono entrare in contatto con il Divino e accedere all'aldilà anche da vivi, in un luogo chiamato "Eden". Tuttavia, l'Eden nasconde molte sorprese inaspettate. E questo mistero è uno dei pilastri centrali del romanzo.

Tornando a me, io ho ricevuto una formazione "Agnostico Razionalista" che ha influenzato profondamente il mio approccio alla spiritualità. Pur non avendo la certezza razionale dell'esistenza o della non esistenza del divino, riconosco che la spiritualità ha un ruolo importante nella mia vita. Come diceva Woody Allen, "Non ho sposato la prima ragazza di cui mi sono innamorato, perché c'era un tremendo conflitto religioso. Lei era atea e io agnostico". A parte gli scherzi, è un tema che mi sta molto a cuore, e penso che più si cresca più il divino diventi un luogo dell'anima dal quale non possiamo fuggire.

Man mano che la storia di Kato e Overton procede, la realtà dei protagonisti si sgretola, e la crisi spirituale e divina diventa centrale nel conflitto. Il tema del divino si espande, esplorando i limiti della nostra conoscenza e delle nostre aspettative sull'aldilà. Trascendendo nell'unica forma che forse, dico forse, può sfiorare l'assoluto ignoto. La poesia. (Si tratta di una punta brevissima, ma intensa nel romanzo).

L'amore è un altro tema cruciale nel libro, manifestandosi in diverse forme. Esploriamo l'amore tra discepolo e maestro (Kato e Overton), l'amore tra amici (Kato e Argo, Overton e Govin), l'amore tra amanti, corrisposti e non (Kato e Luna, Overton e Maya) e l'amore per sé stessi e i propri desideri, che nasce dalla fonte inesauribile della nostra anima.

Tuttavia, vorrei sottolineare che, nonostante i temi spirituali e metafisici, la narrazione è ricca di azione e avventura. Perché per me, la lettura deve essere prima di tutto un viaggio emozionante per la fantasia.

E infine, c'è il senso di appartenenza, che tanto mi è mancato, essendo io cresciuto straniero in due mondi. Ma a prescindere dalla nazionalità, sono sempre stato un solitario e forse, in fondo, essere straniero non mi dispiace poi così tanto...

Ecco qua. Oggi è stato un po' più denso del solito. Ma il bello è la diversità, no?

Spero che "La Divina Avventura" vi permetterà di scoprire insieme a me questi temi affascinanti, e vi trasporterà nelle emozioni e nelle sorprese che ho vissuto e che vi attendono in questo mondo fantastico.

Alla prossima,

Flavio

La vita è un palcoscenico

"Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena."

Come Shakespeare ha saggiamente osservato, la vita è un palcoscenico e noi tutti siamo gli attori. Ognuno di noi ha i suoi personaggi interiori, piccoli o grandi, ognuno con i propri conflitti, obiettivi e amori. Anche se può sembrare che siamo solo una comparsa nella vita degli altri, in realtà, possiamo essere l'antagonista, l'amante o qualsiasi altro personaggio che si possa immaginare.

Ricordo i miei anni al collegio e in particolare le persone con cui ho condiviso quel periodo della mia vita, come Francois. Con lui condividevo la passione per la musica e passavamo ore a scrivere gli spartiti di "Friday night live in San Francisco" ad orecchio. Se volete ascoltarlo è un capolavoro:


Grazie a Francois, ho fatto la mia prima esibizione sul palcoscenico. Studiavo la chitarra con lui e mi ha convinto a esibirmi al festival di fine anno del nostro collegio. Ho deciso di cantare "Tears in Heaven" di Eric Clapton. Questo titolo, per intenderci:

Allora, quando sono entrato in scena, il microfono è caduto e sono stato deriso da tutti i miei amici in platea. Nonostante la situazione imbarazzante, ho deciso di continuare a cantare, spingendo la canzone con tutta la mia forza, anche se poi mi sono messo a piangere quando è finita, dallo stress.

Quella notte è stato il mio battesimo sul palcoscenico, non dei migliori diciamo.

Nella scrittura affronto i personaggi allo stesso modo. Og nuno di loro è protagonista della propria storia, ma anche utile alla storia degli altri, come Kato e Overton, i protagonisti del mio libro. Ci sono anche altri personaggi come Luna, Argo, Maya e Govin, che costellano la trama e le cui relazioni sono complesse e si sviluppano nel corso della storia. Kato è il personaggio principale che cerca di trovare Overton e portarlo a Baltica, Luna è la donna che Kato ama e per la quale vuole diventare perfetto, Argo è un discepolo fallito ma anche un vecchio amico di Kato, mentre Maya e Govin diventeranno amici di Overton a Baltica. Insieme, i tre affronteranno un'avventura a dir poco indimenticabile.

Come vedete le relazioni tra i personaggi del mio libro sono complesse e influenzano la trama in molti modi. Le loro azioni e scelte hanno un impatto sulla vita degli altri e il loro sviluppo personale è strettamente legato alle relazioni che costruiscono.

Come nella vita reale, ogni personaggio è un protagonista della propria storia, ma anche parte della storia degli altri. Le relazioni che si sviluppano tra i personaggi influenzano il loro percorso e determinano il loro destino. Ogni personaggio ha i propri obiettivi, i propri desideri e le proprie motivazioni, che possono essere in conflitto con quelli degli altri. Questo crea una tensione nella trama e rende la storia più interessante.

In conclusione, la vita è un palcoscenico e noi siamo tutti gli attori.

Rimani

Figlia fragile
In volo
Alla mercé
Dei ricordi.
Scivoli tra i monti
E, lieve, ti posi
Su un mare d'argento.
Sei bella come la luna.
Ti guardo e mi perdo.
Mi lancio e ti rubo.
Per una notte di sensi,
Un abbraccio d'oblio.

Assenza

Mi tuffo nei ricordi,
Tra bolle d'altri me.
Sfioro esplosioni,
Rubo boccate d'aria,
Mentre aspetto che la luna
In superficie,
Sole diventi.