La paura di non essere speciale

Lo ammetto.

Mi rendo conto che soffro terribilmente di una paura che finalmente credo di avere il coraggio di guardare in faccia.

La paura di essere normale.

Dawkins parla, nei suoi interessantissimi testi che stanno alla base del neo-evoluzionismo, della particolare abilità di tutto ciò che è vivo di avere un differenziale di temperatura con l’ambiente circostante.

Noi, per esempio, abbiamo una temperatura spesso più alta del nostro ambiente. Per questo mangiamo, consumiamo energia. Stessa cosa con il sudore, ci raffreddiamo.

Insomma, siamo macchine che si differenziano. E lo stesso vale per quasi tutti gli elementi della vita.

Sapete che, se mostro un foglio bianco a un essere umano, gli occhi viaggeranno caoticamente da lato a lato senza fermarsi, ma se invece metto un punto nero al centro, lo sguardo si soffermerà proprio su di esso.

Sapete perché?

Perché siamo nati per notare la differenza. Siamo cacciatori. Nella foresta, vediamo ciò che si muove. Percepiamo le differenze. Questo processo non solo è salvifico, ma è proprio al principio della nostra evoluzione.

Ecco, io sento di avere una spinta atavica a essere una differenza. A essere eccezionale nel senso stretto del termine.

Un’eccezione.

Ma cosa rende eccezionale qualcuno?

Un uomo, una donna, un artista?

La marcata differenza con il suo ambiente.

Sono quindi mosso da una propulsione siderale nel desiderare fare le cose diversamente. E ovviamente, la maggior parte delle volte, questo risulta solo in una terribile perdita di tempo.

“Ci sarà un motivo se una cosa si fa così da 100 anni, no?” 

Sì, è così. Ma non riesco a farne a meno. E ora ho capito perché. Perché ho il terrore che, facendo le cose normalmente, risulterei – ai miei occhi – banale.

Farei parte dei punti bianchi del foglio.

Sarei la temperatura ambiente.

Indistinto. Felice, sì, accerchiato dal tepore del mondo. Ma non più eccezionale.

Oltre a scelte sbagliate e grandi perdite di tempo, un altro lato negativo è che si finisce per essere soli.

Perchè come può l'eccezione diventare regola?

"Perchè fare tutta questa fatica? Perché andare a sbattere lì dove mille prima di me hanno già sbattuto e trovato una soluzione funzionante?"

Perché?

Forse perché sono, come dicono a Romade coccio. Io le cose le comprendo solo quando le faccio. E c’è qualcosa nell’idea di essere un artigiano che si occupa di tutto il processo artistico che mi affascina.

Sto scrivendo questa nuova saga, e mi chiedo quale strada dovrei intraprendere.

La classica strada della casa editrice oppure quella dell’artista indipendente, solitario?

Voi mi conoscete. Io bramo l’indipendenza, l’impresa. E Non sono un animale sociale.

Vorrei andare da solo.

Ma un mio amico ieri mi ha fatto notare che “se nessuno mangia dalla tua torta, nessuno ti aiuterà.”

Quanto ha ragione.

Insomma, come avrete capito, a questo giro vige in me la confusione, la paura, l’arroganza e il timore della banalità.

Ma Piano piano cresco, imparo, miglioro.

C’è una frase di Carmelo Bene che echeggia in me e lo farà fino al mio ultimo battito.

“Non dovete fare dei capolavori. Dovete essere dei capolavori.”

E l’essere, come insegna la migliore narrativa, è nel fare, nell’agire.

Alla prossima pagina.

La mia nuova saga

Sto completando la primissima stesura del primo volume della saga "Il Labirinto Della Speranza".

Parliamo di un testo non coeso, pieno di errori e strafalcioni. Ma è giusto che sia così. Prima si rigurgita un prodotto informe che poi, con arte, sapienza e pazienza, verrà cucito di bellezza e diamanti.

Sono al piano terra del mio palazzo.

Le fondamenta le ho elaborate per sei mesi: ho scritto, riscritto e riscritto mille volte la “storia”, quello che poi sapevo di dover affrontare nella scrittura della pagina.

Ogni saga, ogni libro, è prima di tutto una storia.

Una storia “grande” che può essere raccontata fuori dalle pagine del libro.

La mappa, se vogliamo. Le pagine sono il territorio nel quale lo scrittore scopre e disegna i dettagli di un mondo immaginato.

Ora sono in questa fase.

Ed è una fase incredibile, emozionante e difficile.

Incredibile, perché aperta allo stupore. Apro una porta ma non so cosa c’è dietro.

E sono io a dovermelo immaginare. È un confronto diretto con l’ignoto, una sorta di rincorsa verso qualcosa che non esiste ma che, nel momento in cui lo rincorriamo, si scrive, si crea.

Emozionante, perché mi ritrovo a rivivere pezzi della mia vita, traslati nelle vesti del protagonista, o dell’amico, o di un personaggio secondario.

Mi specchio, piango, rido, vivo la scrittura come fosse un pezzo di vita surreale, immaginato ma tangibile.

Difficile, perché la coesistenza di creatività e struttura dà adito a un dilemma che sa quasi di follia.

Vi spiego.

Ho una storia, che ha un inizio, un centro e una fine, come direbbe il buon vecchio Aristotele.

E fin qui, tutto bene. Facile. Sono in controllo. Certo, magari cambio una cosa piuttosto che un’altra, rimodello, invento.

Le idee a questo “livello” costano poco: sono cinque parole in più o in meno.

“Prende l’aereo e scappa” oppure “La bacia, rimane e si sposano”. Poche parole, un’infinita differenza.

Ma poi, arriva il momento in cui la storia è pronta ad essere distrutta dai personaggi.

Ah, i personaggi.

All’inizio sono qualcosa di ideale, che esiste appunto in quelle poche parole che definiscono la storia.

Per me, i personaggi sono definiti dalle azioni che prendono nella mia storia.

Ma poi, quando li scrivo, ecco che succede una specie di guerra tra il mio volere (la storia) e il loro volere!

Come anguille sgusciano, fuggono dalle mie redini, almeno ci provano.

E io, per non rompere il mio legame con loro, li assecondo.

Ma a volte tirano forte, fortissimo, verso un luogo in cui non possono andare!

E lì inizia un processo difficile, di compromesso tra il loro volere e il mio.

Ecco, sono lì, nella scrittura.

La saga prende forma.

Sarà molto diversa da L’Anello di Saturno.

Più oscura, più occulta, più veloce. Un labirinto nel quale spero di farvi entrare, divertire e, chissà, uscire diversi.

Alla prossima pagina.

Il valore della vita

Ieri, come ogni sera, vagavo per la rete alla ricerca di informazioni su quello che sta succedendo.

Sono un amante della tecnologia e della modernità. La temo, e quindi la frequento: per non perderla di vista, per immaginare il mio futuro.

Cosa mi succederà?

Chi mi legge conosce il mio interesse e timore per l’intelligenza artificiale. Siamo agli albori di qualcosa che sta già rivoluzionando i processi, sia industriali che creativi.

I grandi modelli di linguaggio, macchine pensanti e presto capaci anche di agire (Agentic AI, per chi fosse interessato), stanno prendendo possesso di ogni dimensione umana.

Siamo cresciuti con l’idea che “il lavoro nobilita” e che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, ma se ciò che so fare può essere sostituito da una macchina, il mio futuro dov’è?

La macchina può scrivere, può persino recitare.

Può prendere il mio volto e metterlo su qualsiasi attore di qualsiasi film. Potrà, a breve, generare film con me, o voi, dentro. E sarà credibile.

La macchina lavora con i dati, tantissimi, e genera quello che si potrebbe definire, platonicamente, un ideale.

Se chiedete alla macchina di generare un albero, proporrà un’immagine che è la sintesi di tutte le immagini di alberi prodotte nel corso della nostra storia: fotografie, disegni, immagini di sintesi.

Se le chiederete di scrivere un libro, una serie o un film d’avventura, produrrà un prodotto perfetto, misurato al punto giusto, calibrato secondo gli archetipi che hanno colmato la nostra storia culturale.

Produrrà l’ideale.

Come posso lottare contro l’ideale? Io che sono fallibile, caduco, soggetto al tempo e alla morte?

Io che non so tutto, che non ho accesso a ogni pezzo di conoscenza umana. Io, ignorante, stupido e mortale.

Con la mia ignoranza, la mia stupidità e la mia mortalità.

Perché esse sono ciò che fanno di me un essere vivente, in continua trasformazione. Come voi.

I miei limiti, la fame di conoscenza, la consapevolezza della fine.

Sono queste imperfezioni, difetti, tratti—chiamateli come volete—a rendere la vita un percorso in divenire. Una Divina Avventura.

Perché chi “ignora”, rischia. Chi è “stupido”, sbaglia. Chi è “mortale”, corre.

Rischiare. Sbagliare. Correre.

I motori della vita.

E anche della mia arte, che spero sia la testimonianza autentica di questi miei “limiti”, dei miei sogni, della mia ambizione di comunicare e di emozionarvi.

Se c’è una cosa che la macchina non potrà mai essere, è essere umana.

Quindi abbracciamo questa nostra umanità, infiliamoci tra le pieghe della razionalità e sdraiamoci a sognare quello che non può esistere.

Ma che sicuramente esiste.

Alla prossima pagina.

Il seno della donna

Qualcuno mi ha chiesto come mai Anna copre il suo seno nella copertina del volume 4. Ne approfitto per fare un pensiero.

Il seno della donna e non dell’uomo… Infatti, c’è una disuguaglianza, ma è sensata? Perché esiste?

O piuttosto, a monte di una visione maschilista del mondo, ci sono ragioni logiche per cui il seno della donna è, se vogliamo, tabù? (Soprattutto nella società americana che, comunque, comanda le linee guida.)

Nella maggior parte delle società occidentali, il seno femminile è stato associato alla sessualità, mentre in molte altre culture è visto principalmente come simbolo di maternità e nutrimento. Questa sessualizzazione ha portato a considerare il seno femminile un aspetto privato o proibito, da nascondere in pubblico.

Le tradizioni religiose di molte culture hanno contribuito a normare il corpo femminile in modo più restrittivo rispetto a quello maschile. Ad esempio, in alcune interpretazioni di religioni abramitiche (cristianesimo, ebraismo, islam), il corpo femminile è stato percepito come un potenziale “strumento di tentazione”, e quindi soggetto a maggiore controllo.

La nostra società ha vissuto e sta vivendo una grande rivoluzione sessuale. L’Occidente, per quanto possa sembrare retrogrado a certi, è comunque il luogo dell’avanguardia su questo aspetto. Questo è un tema caldo, politico. E io non bazzico tali lande. A me piace la fantasia, la bellezza, le storie.

Poi, come Giuliana mi ha scritto, sono un artista-manager: ho due cappelli, quello del poeta e quello del commerciante. Quindi questa domanda, prima di tutto, va risposta con la concretezza inopinabile dei fatti.

La saga è una saga per ragazzi, 14+.

E mi direte: “Eh, vabbè, con tutto quello che vedono in TV o sul web”.

Sì, rispondo io. Ma non potrebbero. Lo fanno, ma non potrebbero. Ed è responsabilità mia, come genitore, tenere sotto controllo, dialogare e comprendere mia figlia, per evitare questo tipo di comportamento. Quindi, “tutto quello che vedono in TV e sul web” non è un argomento.

Per essere ancora più fattuale e mettere non solo il cappello del manager, ma proprio tutta la giacca e cravatta: Amazon è una società americana, e negli Stati Uniti il capezzolo femminile è tabù. Posizionarlo sulla copertina del libro avrebbe portato con sé il rischio di dover rifare la copertina, perdere il lancio e ritardare le vendite. Nulla di drammatico, per carità, ma sarebbe stato un peccato.

Quindi, davanti alla scelta se essere elegante e non esibire il seno direttamente sulla copertina, e farlo manifestando una libertà creativa che non era necessaria per me, ho preferito la prima.

Un giorno, forse persino per la prossima saga, potrei trovarmi di nuovo davanti al dilemma, e questa volta scegliere di mostrarlo. Perché quello che conta non è il gesto politico in se, ma quanto quella scelta sia in sintonia con la storia, con i lettori che desidero toccare.

Non sono le idee a comandarmi, a decidere per me. Sono io, con le mie idee, certo, ma non solo. Voglio raccontare storie, voglio farlo nel modo più ricco, fantasioso e semplice possibile. Il mio scopo è raggiungere il cuore dei più, perché nei testi che scrivo ci metto anche un messaggio. Un messaggio profondo, quella che chiamo “l’idea guida”, che porta con sé temi universali, umani. Temi che colpiscono la gente, perché cambiano una prospettiva e poi anni dopo, si ripercuotono nella politica, fatta da uomini, per gli uomini.

Un messaggio che viene svelato solo alla fine delle mie storie.

Alla prossima pagina.

La buona scrittura

Si dice di Shakespeare che, anche se recitato male, sia interessante.

Sto ripensando a questo proprio ora: a come la potenza di una storia, una vera storia, trascenda da come viene eseguita.

Una buona storia funziona anche se girata male, letta sul treno con le pagine ingiallite o guardata su un piccolo televisore catodico.

Una buona storia funziona perché è lo scheletro dell’intrattenimento.

Non vi può essere sospensione della credulità senza una buona storia, credibile, forte, colma di trasformazione ed emozione.

Per questo spendo così tanto tempo a strutturare le mie storie.

Le definisco e costruisco una griglia, come il ferro armato per il cemento.

La storia, intesa come una struttura di avvenimenti che definisce personaggi, emozioni e significati, è l’anima di un libro, un film, un videogioco.

Ho in mente questa mia teoria della pizza. L'evoluzione da pasta a pizza, poi a prodotto farcito e cotto, come potrebbe essere vista un’opera d’arte: prima pensata, poi prodotta, farcita dal marketing e consegnata al consumatore.

E mi dico che mi sono fregato da solo.

La mia teoria della pizza, in realtà, è la teoria della pasta madre, che altro non è che una reazione chimica tra acqua, farina e sale.

Che altro non è che la vita.

Il ruolo dell’artista è mettere vita nelle sue opere.

Dare letteralmente vita: ecco la responsabilità che mi prefiggo.

Ho avuto un primo desiderio sei mesi fa: scrivere la storia di un uomo che trovava il potere di entrare nella mente della gente.

Uno psicanalista che riusciva a curare entrando fisicamente nella mente di chi voleva aiutare.

Un primo tema della paternità era presente, ma era solo l’inizio della ricerca.

L’inizio è un po’ come andare a scoprire “quello che si vuole scoprire”.

La ricerca della ricerca, in un certo senso.

In questi mesi ho lavorato sulla storia: un agglomerato di frasi, magari trenta.

Queste trenta frasi sono il frutto di strutturazione, modellazione e trasformazione, ma a livello alto.

“No, non in Francia, in Italia.”

Oppure: “No, non un fratello, ma un amico.”

Tutto muta come in una tempesta.

Ma lentamente un pezzo casca sulla carta. Poi un altro.

Ed emerge qualcosa di sfuocato, ma reale.

Si lascia riposare, così da guardarla un paio di mesi dopo con l’occhio di chi può dire:

“Ma tu davvero vuoi investire tutto questo tempo in questa roba?”

Oppure, più ottimista:

“Hm… sì, mi piace.”

E così, tra cinquanta idee cancellate e un paio sopravvissute, si passa alla seconda stesura “dell’idea”.

Poi, stesura dopo stesura, nell’ultimo mese ho concluso la prima “definizione a larghe trame della mia nuova saga in cinque volumi”.

E da un mesetto ho cominciato a scrivere le prime pagine.

Vomito generico, sfuocato anch’esso, ma piano piano comincio a vedere i personaggi, a conoscerli, a scoprirli.

Devo ammettere: poche cose nella vita mi danno tanta soddisfazione.

Alla prossima pagina.

Il pudore di esistere

Mi chiedo cosa mi spinga a considerare continuamente ciò che faccio inferiore a ciò che vale.

Mi spiego. Non faccio assolutamente fatica ad attribuire a qualcuno il successo che ha. Anzi, riesco a trovare argomenti che magari quella persona non aveva neanche immaginato. Riesco ad essere convincente, molto. Riesco a vendere ghiaccio agli esquimesi, quando si tratta di dimostrare una tesi.

Ma solo quando non si tratta di me.

Quando ho a che fare con il mio specchio, quando mi devo chiedere, per esempio, come mai quasi il 60% delle mie vendite viene da quello che si chiama “traffico organico”, cioè persone che hanno incontrato il libro dopo aver incontrato me, ma anche persone che non sanno nulla di me, o altri che hanno sentito parlare del libro (il famoso passaparola), ecco che il mio castello di certezze crolla.

No, non può essere perché il libro piace.

“È perché non sono abbastanza bravo a pubblicizzarlo con i canali a pagamento! Oppure è perché c’è qualcosa che non ho capito, qualcosa di sepolto e nascosto che sicuramente spiega queste vendite.”

Non può essere che qualcosa che faccio venda perché piace.

Ecco, di fondo è proprio questo che penso. E per quanto io provi ad estirpare da me stesso questa idea, a lottare contro il demonio della sindrome dell’impostore, ecco che di nuovo mi ritrovo a vedermi sotto quelle vesti.

Pensate che per anni (a volte mi capita ancora ora) una parte di me diceva che avevo fatto carriera come attore solo perché ero caruccio. Mai e poi mai possa anche balenarmi lontanamente nel cervello l’idea che io, forse, sappia recitare! Ora questa sindrome, almeno nel reparto “recitazione”, si è sedata. Ma ora ho capito perché! Perché si è accesa quella dello scrittore.

“Lascia stare, ma chi ti credi di essere? Kerouac?”

“È solo una perdita di tempo, non ci riuscirai mai.”

Lo dico a me stesso perché davvero, non ne posso più di questo mio atteggiamento.

Come posso riuscire a scacciare via questo pensiero? Come posso fare ad amarmi un po’ di più? A guardarmi nell’anima con una tenerezza sufficiente a quietare quest’agitazione che mi prende?

Sapete come faccio? Mi annullo. Fuggo da me stesso. Ecco perché recito, dirigo, scrivo, gioco a scacchi. Per dimenticarmi di me.

E il naufragar m’è dolce, in questo mar.

C’è chi pensa che mollare tutto sia la soluzione. Che forse bisogna rilassarsi un attimo, dimenticare non se stessi, ma il mondo. Ma come si fa? La mia è fame di vita, di riconoscimento, desiderio di esistere, di urlare la mia presenza, fino a che le lacrime si ghiaccino, fino a che il mio eco tocchi i confini dell’universo. Io voglio essere. Altro che non essere, caro Amleto. Essere, essere, essere!

L’erba del vicino è sempre la più verde… questo vale per il vicino, ma anche per il mondo là fuori dai nostri cuori. Ci sembra più verde e sapete perché? Perché lo vediamo con gli occhi dell’entusiasmo di chi non sa, di chi sogna solo le cose belle, e dimentica il sudore, la fatica e il lavoro che richiede ogni impresa. Persino la più poetica.

Quindi, olio di gomito, perseveranza ed entusiasmo!

Alla prossima pagina.

Chi siamo, artisti?

Oggi mi domando chi io sia. Per quale motivo sposto mari e monti per scrivere storie, al punto da rischiare tutto per farlo. Cosa mi spinge a consumare tempo e risorse in questa impresa? Diventare uno scrittore, riuscire a far adattare le mie storie sullo schermo: tutto questo è per vanità? Oppure è un atto di generosità, un desiderio di condividere? O forse puro egoismo, quello di voler viaggiare nell’immaginazione alla ricerca di quelle famose perle, pensando che questo tragitto valga il tempo e il denaro altrui.

È un lavoro difficile, quello del contastorie. Come tutti i lavori belli, ti illude che basti il processo creativo a dare vita alla storia. Ovviamente, non è così. Scrivere storie somiglia un po’ a suonare la chitarra: sembra facile, e tutti sono capaci di strimpellarla. Ma diventare un virtuoso della storia, della trama, è un’arte difficile da inquadrare.

A volte mi chiedo se io lo sia davvero o se semplicemente stia facendo di tutto per convincere gli altri (e me stesso) di esserlo. Fatico a trovare un motivo, una ragione per tutto questo. Penso e spero di non essere l’unico a vivere questo dilemma. Anzi, credo che questa paura si estenda ben al di là dei confini dei contastorie.

Questo “mal comune mezzo gaudio” lenisce solo in parte quella sensazione di fragilità che permea il mio fare. Spesso mi dico che “devo andare avanti e non pensare”, e a volte funziona. A volte mi ritrovo in un luogo buio solo perché ho scelto di chiudere gli occhi. E, in questi casi, la mia forza di volontà ha la meglio.

La forza di volontà… Ora che ho scritto più di una storia, mi sembra di vederla come un filo rosso della mia poetica. Ho un rispetto incredibile per essa, e penso che ciò derivi dal mio assoluto desiderio di indipendenza. Questo è il tema dell’Anello di Saturno: quanto siamo noi a scegliere il nostro destino e quanto, invece, sono le forze fuori dal nostro controllo?

L’artista è colui che fa della propria ricerca interiore bellezza. Scavare tra i demoni per forgiare diamanti. Per farlo, c’è chi canta, chi suona, chi scrive o costruisce. Tutti legati da questo impellente desiderio di ricerca interiore ed esplorazione del mondo attorno. Oggi ho fatto ricerche sulla Val di Non, che sarà il luogo in cui la mia prossima saga si svolgerà. Prima di andarci fisicamente, spinto da quel desiderio di scoperta che mi porta a testare e tentare cose nuove, ho fatto un giro con le mappe di Apple. Mi sono messo lì, sono entrato in quello che si chiama “streetview” e mi sono fatto “un giro virtuale” dei vari paesi che la popolano. Ho cercato di percepire le distanze, i paesaggi.

E mi dico che è davvero un periodo incredibile per coloro che vogliono raccontare storie. Vi è una conoscenza a disposizione che era impensabile anche solo dieci anni fa. Abbiamo mappe su mappe.

E mentre lo facevo, qualcosa in me mi ricordava che “la mappa non è il territorio” e che, per quanto ci si sforzi di conoscere qualcosa attraverso l’analisi e lo studio, è nel processo vivo e reale che avviene il mutamento, la sensazione, l’odore. È quando tutti i sensi vengono calibrati sull’esperienza che l’autore può davvero esprimere qualcosa di umano, colmo di un calore personale e unico, e non lo specchio di tutto ciò che altri hanno vissuto prima di lui.

La conoscenza indica la via, ma è l’esperienza a portarci a destinazione.

Alla prossima pagina.

Il nuovo anno non esiste

Quali saranno le mie risoluzioni per il nuovo anno?

Perché per il “nuovo anno”? Perché non decidere per “ora”? Perché non attivare sul momento qualcosa che penso possa migliorare la qualità della mia vita?

Gli anni stanno al tempo come le frontiere stanno allo spazio: linee immaginarie che servono a darci un riferimento, a imporci scadenze. Ma io, essere umano, anima in questa realtà, esisto al di là di queste imposizioni così sommarie. Non sono numeri, non sono quantificabile in minuti o chilometri percorsi. Sono più della somma delle mie parti.

Io sono io, ed è con me stesso che devo sviluppare una relazione costruttiva. Non con le imposizioni che mi vengono imposte o che, peggio, mi impongo per rientrare nella normalità.

Alla domanda: “Quali sono le mie risoluzioni per il nuovo anno?”, rispondo con un sagace: nessuna. Le risoluzioni voglio pensarle e applicarle subito, non aspettare il “momento giusto” per decidere di agire.

Nella vita ho sempre fretta. Sono fatto così, come il coniglio bianco che si porta dietro il ticchettio della vita, che mi urla di correre, di andare veloce, di non fermarmi mai.

Persino durante queste vacanze, mentre mi occupo della mia famiglia, dentro di me non c’è altro che la fame del successo. Il desiderio impellente di fare meglio, di riuscire in una nuova impresa, senza curarmi del tempo o dello spazio.

Sono successe tante cose quest’anno. Ho cominciato una saga in cinque volumi che sta avendo molto successo: ho superato ampiamente le 5.000 copie e ora punto alle 10.000, il traguardo iniziale che mi ero dato. Per alcuni sono numeri da fantascienza, ma per me non bastano. Mi conosco: non mi basta mai nulla.

C’è una poesia che ho scritto, Caos, che parla proprio di questo: un desiderio insaziabile, divoratore di mondi e interiora.

Ho finito di registrare l’audiolibro del quarto volume. Ogni audiolibro richiede moltissime ore di lavoro: una decina per la registrazione e 5-6 per l’editing. Faccio tutto io. Potrei delegare, ma non voglio. Voglio delegare solo quando sarò certo che la persona ingaggiata sarà pagata con i proventi dei libri, non di tasca mia.

Fare di propria mano mi permette di capire davvero il processo, di trovare soluzioni per migliorarlo, aumentarlo, automatizzarlo.

Il terzo volume aveva avuto un problema tecnico e non era disponibile su Audible. Ora, finalmente, dopo quasi due mesi dall’uscita, l’audiolibro è disponibile.

Con Antonello abbiamo lavorato alla copertina del prossimo volume, il quarto e penultimo della saga. Penso sia la più bella finora, subito dopo quella del primo volume, di cui sono innamorato come Luca lo è di Anna. Eccola qua:

Vi aspetto nei commenti per i vostri pareri a caldo!

A gennaio riprenderò Il Paradiso delle Signore per l’ultimo “rush” finale fino a fine mese. Poi, mi aspettano mesi di vuoto: la mia vera vacanza. In quel periodo intendo completare la saga de L’Anello di Saturno e arrivare al Salone del Libro di Torino nella miglior condizione possibile per presentare l’ultimo volume.

Sono tornato a dare al diario una dimensione intima e non didattica. Sono stufo di insegnare: non fa per me. Questo è un luogo di condivisione intima, fotografie in parole di stati d’animo, speranze e paure. Per conoscermi, per conoscerci.

Buon anno, e alla prossima pagina.

La curiosità è il motore dei creativi

Nelle pagine precedenti ho spesso parlato di quanto sia importante il modus vivendi.

Come viviamo, cosa guardiamo, cosa leggiamo. Dimmi come vivi e ti dirò chi sei.

Per quanto mi riguarda, al centro di tutto vi è un’apertura nei confronti di ciò che non conosco. A volte forzata. Poi vi racconto. Sta di fatto che spesso ciò che mi spinge a continuare un processo creativo è proprio la curiosità che provoca in me.

La facoltà di poter andare a scoprire dimensioni che non conosco mi affascina.

C’è una frase che ho letto che in poche parole diceva questo:
"Ci sono le cose che sappiamo di non conoscere. E poi ci sono quelle che non sappiamo di non conoscere."

Io sono drogato della seconda.

Quando ho la fortuna di trovare qualcosa o qualcuno che mi "apre una porta", ecco che io mi apro al mondo. E mi ci perdo.

Adoro perdermi in ciò che non conosco. La sfida di riuscire a far diventare queste pareti di geroglifici qualcosa che comprendo è irresistibile.

Mi è successo parecchi mesi fa con il marketing. Nulla di meno artistico, eppure sto cominciando a pensare che invece possa essere la manna dell’artista.

Almeno di quello indipendente.

Ma come potrebbe essere altrimenti l’artista? Può un artista essere dipendente? Non credo.

A me piace vederlo come un cavallo libero, folle, che sulle ali della sua volontà porta gli altri in un viaggio che solo lui poteva trovare, inventare, creare. Proprio perché libero.

Libero dalle imposizioni del mercato. Libero dalle scelte di altri.

Così, mi sono detto: Ma perché non studiare davvero il marketing e cercare di capire se attraverso di esso posso far vivere la mia arte?

Un po’ come mettersi le manette ai polsi da soli, mi direte, ma non è così.

Io pecco di solitudine, amo la libertà più di ogni altra cosa. Amo perdermi, liberamente, e poi trovare per caso qualcosa che è gemma.

Difficile farlo quando qualcuno ti dà delle scadenze.

Qualcuno che magari non ha la tua visione artistica, non ha i tuoi valori. Qualcuno che guarda al mercato, alla vendibilità.

Ma ora, e qui parlo a te artista, se fossi tu quello che si impone scelte legate al mercato? Alla vendibilità?

Non sarebbero scelte più in linea con te?

Se tu scegliessi volontariamente una strada, dopo aver analizzato le possibilità e averle allineate con i tuoi desideri, e cercassi di trovare una quadra, non sarebbe questo compromesso il migliore dei mondi?

E quindi mi sono messo a studiare come funziona la vendita di libri, l’autopubblicazione, i sistemi di email marketing, il podcast, la programmazione del sito, Javascript, CSS, PHP, HTML.

Ho cominciato a mettere in fila tutti gli strumenti che già conoscevo e quelli da imparare per provare a creare un sistema, una "macchina" che aiutasse le mie storie a funzionare.

Non posso dire che la macchina per ora sia stato un successo. Ma è anche vero che sono agli inizi e che, nel poco tempo da quando ho cominciato questa avventura (la Divina Avventura è il mio libro d’esordio, uscito nemmeno un anno e mezzo fa), le cose vanno sempre meglio.

Ma è un lavoro titanico, mostruoso, come costruire la bicicletta mentre si pedala.

E non solo: bisogna anche fare il giocoliere appena possibile.

Sono nate cose bellissime, tentativi diventati poi qualcosa di più, ma soprattutto sono cresciuto.

Mi sento più completo, più ricco di esperienze, di vita.

Ecco perché la curiosità è così importante. Perché ci porta in luoghi che ci procurano fatica, difficoltà, ma ci restituiscono qualcosa di molto più importante come premio per averla seguita: l’apertura mentale.

Solo la curiosità può farci conoscere ciò che non sappiamo di non conoscere.

Alla prossima pagina.

L'Arte è l'editing di un'idea

Più volte vi ho parlato della mia tecnica della pizza.

L’ho chiamata così perché mi ricorda appunto la lievitazione della pasta madre. In generale, si può dire che un’opera d’arte è come un piatto: ha una sua ricetta, una certa dose di improvvisazione.

L’opera d’arte è lei stessa una storia.

E questo è valido anche per le storie. Ovviamente, andare a scavare su tutte le luci e ombre del processo creativo è un abisso nel quale non voglio sprofondare oggi.

Quindi, per mantenermi sano, affronterò la mia tecnica: quella cosa tangibile, limitata, che ci dà tante certezze e, a volte, ci impedisce di trovare il nostro cuore. Ma spesso ci aiuta a volare.

Per me, tutto parte da un’intuizione, un’idea, che è fermentata dentro di me. Come lo abbia fatto è un mistero, ma è un misto di fisiologia e intellettualità.

È un processo passivo, in cui la parte attiva è proprio il "come vivere": cosa leggere, cosa mangiare, chi frequentare, a cosa dare attenzione.

Tutte queste cose sono i fertilizzanti del nostro orto e, come ogni cuoco sa, un buon piatto è fatto all’80% di buoni ingredienti.

Dopo che l’idea fermentata si manifesta finalmente dentro di me, davanti a me, allora nasce un senso di responsabilità verso quell’afflato.

Mantenerlo vivo. Farne qualcosa. Usarlo. Creare.

E così me lo tengo stretto, ma lo lascio vagare dentro di me ancora libero. Non lo scrivo, non lo dico nemmeno.

Lo lascio lì. È troppo fragile per affrontare il mondo, meglio tenerlo tra le pieghe del pensiero.

Piano piano, anche a mia insaputa, cresce, diventa qualcosa di tangibile, non ancora definito, ma comincia a essere costellato di parole: parole alte.

Vecchiaia. Vendetta. Amore. Destino.

A quel punto so di avere qualcosa che devo cominciare a crescere e a formare con la mia volontà. La tecnica. L’imposizione della volontà sull’idea.

La tecnica serve a domare il caos.

Superato il Rubicone, i miei studi cominciano a venire ogni giorno a bussare:
"Che cosa vuoi dire?"
"Come lo vuoi dire?"

Ancora non lo so! urlo a me stesso, invano.

Non c’è nulla da fare, l’idea ormai è padrona del suo campo e mi urla una cosa sola:
"Scrivimi! Buttami giù da qualche parte che sennò me ne vado e non mi rivedi mai più!"

E allora ecco che scrivo la prima frase, spesso in una cartella chiamata "Idee di storie".

Dopo aver ceduto al capriccio dell’idea, aspetto. Anche perché, a volte, c’è un’altra idea pronta a bussare alla mia porta nel frattempo.

Poi, però, arriva quel giorno in cui mi capita di ripensare di più a un’idea in particolare.

Proprio quella là.

Come mai mi torna in mente?

Forse perché mi è necessaria. Perché mi parla. Perché è interessante. Sì, è lei.

Ed ecco che comincia una fase più dimensionata, in cui decido che di quel blocco di marmo ne farò un’opera.

Ora non si scherza più.

Bisogna rientrare nei cardini: primo atto, secondo, terzo, quarto, quinto. Evento scatenante. Arco del personaggio. Debolezze, desideri. Chi, dove, come, quando e perché.

Risposte! Che prontamente mutano, perché l’atto creativo non è finito, anzi, si è semplicemente spostato verso altri livelli, più "alti", se vogliamo.

L’importante è mantenere vivo il fuoco che ha animato questo processo: quell’idea iniziale.

Quando ci riesco, l’idea iniziale diventa come una frase scolpita nel marmo.

A volte, quella frase è diversa dall’idea. Non può che essere così.

Un’idea è mutevole, non ha forma. Una frase è fatta di parole. Una frase è una definizione immutabile.

Ma grazie a questa frase immutabile, trovo la forza e la disciplina per andare avanti fino alla fine.

Cercando, con tutte le mie forze, di farla diventare bellezza, motivo di vanto e di sostentamento.

Alla prossima pagina.

Il futuro dell'uomo

Che cos'è un uomo? Cosa ci distingue da tutto il resto? Alcuni diranno "nulla", siamo tutti allo stesso livello: la pianta, la formica, il serpente, la gallina, il cane, l'uomo. Vita.

I neo-evoluzionisti dicono che esista solo una forma di vita, il DNA, e che tutto il resto non sia che iterazioni per migliorare la sopravvivenza. Scafandri diversi che ospitano sempre la stessa vita.

Per chi mi ha letto, conoscete il mio insaziabile desiderio di sognare, di credere nell'ignoto, in tutto ciò che non c'è. Ecco, penso che l'umanità risieda in questo spazio inesistente, in cui l'anima è regina e i sogni brillano.

Sono terrorizzato dalle macchine, dall'intelligenza artificiale. Eppure, la uso quotidianamente, ne vedo il potenziale, soprattutto per quanto riguarda l'organizzazione. Non a caso, i francesi hanno sempre chiamato il computer "ordinateur". L'ordinatore. Ha senso. In fondo, sono circuiti con angoli perfettamente retti, processori con la certezza dell'1 e dello 0, che si muovono senza stanchezza, senza difetto. I trattori dell'umanità. Inarrestabili, sempre migliori. Fa paura, no?

Sì, fa molta paura. In pochi anni, le IA saranno capaci di produrre contenuto illimitato, perfetto, colorato al punto giusto, su misura per ognuno di noi. Cosa significa? Significa che molti prodotti audiovisivi non esisteranno se non per i nostri occhi e solo per loro. Verranno prodotte milioni di serie al mese, e ognuna di esse varrà quanto un seme di riso. La cultura popolare rischia di diventare la cultura singolare. Ognuno sarà felice con la propria produzione, isolato in un bozzolo di illusione, convinto di aver prodotto arte con un semplice pulsante: "Guarda ora", "Produci arte".

L'arte non è solo un fine, ma un mezzo. Il processo artistico è fatica, ricerca, conoscenza. È un processo definito dall'imperfezione, e anche dalla consapevolezza che, a un certo punto, bisogna lasciar andare. L'arte e la creatività insegnano all'uomo che le esercita i suoi limiti, donandogli consapevolezza. La ricerca alimenta la cultura, il punto di vista. La creatività ci migliora.

Ma non è tutto oscuro, anzi.

Questi nuovi strumenti daranno vita a nuove forme di arte, a nuovi modi di percepire il mondo e la realtà. Torniamo al dilemma dello strumento: non è lo strumento a fare l'artista, ma l'artista a usare gli strumenti. E credo che continuerà a essere vero.

In questo, mi sento fortunato a poter usare questi nuovi strumenti, a poter, grazie a loro, imparare, studiare, formulare e ordinare in modi che prima avrebbero richiesto molto più tempo. Grazie all'elettricità, al computer, a internet, posso connettermi a tanti, sviluppare un rapporto dove so che sapete che dietro a queste parole ci sono io.

E penso che questo sia il futuro dell'arte digitale. Essa non morirà, anzi, stiamo per entrare in un momento d'oro. Ma avrà bisogno di questo rapporto che noi abbiamo. Avrà bisogno di un legame, tra l'artista, umano, e lo spettatore, umano anch'esso. E sarà la forza di questo legame a dare agli artisti la possibilità di esprimersi usando tutti i mezzi a disposizione.

Sarà la nostra mutevole imperfezione a salvarci. Noi siamo cambiamento, siamo vita, siamo ignoto.

Alla prossima pagina.

Costruire un personaggio: dalla carta al palco

Molte domande mi sono state poste per questo articolo, che sarà, come vedrete, una forma ibrida di discussione tra di noi. Come sapete, vi ho chiesto, alcune settimane fa, di pormi delle domande sull'argomento. Oggi desidero sia approfondire questo tema da un punto di vista tecnico, che affrontare le vostre domande.

Prima di tutto, è necessario comprendere esattamente cosa è un personaggio. Io ho una mia personalissima teoria a riguardo: per me, il personaggio è un'allucinazione collettiva che poi si manifesta fisicamente attraverso la potenza della recitazione.

Quando recito non interpreto un personaggio, ma vivo le battute che mi vengono date nel più profondo e realistico dei modi, vestito da persone che hanno seguito un'idea, all'interno di scenografie che dipingono un mondo. E tutto questo produce l'allucinazione che incarno: il personaggio.

Partendo da questa premessa, è facile comprendere come io non creda nella caratterizzazione, ma piuttosto nell'onestà. Per me la buona recitazione è la bugia vera. L'onestà più profonda incarnata nell'illusione del reale. Quando recito, non fingo, sono vero, fino in fondo, fin dove riesco. E poi, magicamente, si sente un "Buona!" e l'illusione finisce il tempo di un respiro.

Difatti, spesso mi chiedono se trovo difficile entrare in un personaggio, al che rispondo: no, entrare è facile. È uscire che è difficile, perché a forza di indossare una maschera, qualcosa di quella maschera ti rimane addosso, e non te la stacchi più. Tu incarni il personaggio, e il personaggio ti penetra nelle ossa. Ovviamente, per affrontare questo metodo serve grande controllo, soprattutto emotivo, perché ci vuole un attimo a confondere la linea tra reale e finto. Ma è così che mi piace affrontare l'arte della recitazione. Con il cuore in mano.

Per la scrittura, invece, il processo è molto più complesso. Un personaggio è l'insieme delle azioni che compie all'interno della storia. Le grandi scelte lo definiscono. Il modo in cui si esprime, in cui pensa, tutto prende forma nelle parole. In un livello di astrazione che regala, se ben scritto, al lettore, la possibilità di essere egli stesso quel personaggio. Di vivere in prima persona, nella propria fantasia, ogni aspetto delle menti e delle anime che costellano il libro.

La mia tecnica di scrittura è divisa in varie fasi. Io comincio a pensare a una possibile storia, e piano piano la immagino, come fosse un racconto breve, poche pagine, che poi comincio a definire, a strutturare, a incasellare. È una fase molto creativa e al contempo molto tecnica: fondamentale per me per darmi la libertà, in seguito, di scrivere senza pensare. Proprio come nella recitazione.

Quando affronto la pagina, il dialogo, lo vivo come se stessi recitando, cercando appunto di incarnare, ogni volta, il pensiero, il desiderio o la paura del personaggio, con la consapevolezza di non sprecare parole e di portare avanti la scena.

In questo caso, la recitazione e l'improvvisazione mi sono molto utili, perché mi permettono di affrontare questo "spazio" con una consapevolezza maggiore, un divertimento che mi regala lacrime, sorrisi, emozioni. Perché scrivere mi emoziona tantissimo: è quando si arriva a una scena importante, durante la quale si riesce a mettere sul piatto un pezzo di cuore, beh, quello è un grande momento per lo scrittore. Oserei dire che è il motivo per cui è così bello scrivere. Così... liberatorio.


Come fai a calarti esattamente ogni volta in un personaggio diverso, quando reciti?


Questa domanda mi è stata posta più volte. Dunque... il mio processo è sempre lo stesso. Io affronto il momento, il silenzio, la scena, per quella che è. Né più né meno. Il mio obiettivo, come attore, è essere nel qui e ora, ed è toccando quel momento che il personaggio nasce. La mia responsabilità, come attore, è quella di essere "vero". Di far accadere qualcosa. Il resto lo lascio agli altri. Questo mi permette di dare allo spettatore quel pezzo di me che è, credo, una delle mie caratteristiche.


Ti sei ispirato al personaggio di Tancredi, un ruolo che ti porti addosso da alcuni anni, per disegnare Floyd come l'antagonista di Luca, personaggio oscuro che avrà molto probabilmente il suo sviluppo nel prossimo volume?


Lo ammetto. Floyd viene dalla maschera di Tancredi. Come dicevo, è inevitabile che, a forza di frequentare un personaggio come lo faccio io, qualcosa dentro rimanga. La scrittura in questo mi dà la possibilità, in un certo senso, di sublimare quel demone interiore (nel caso di Tancredi è il caso di dirlo!) e di utilizzarlo come uno strumento narrativo. È una delle grandi fortune che ho come attore. Io ho incarnato molti uomini diversi, alcuni cupi, altri romantici, e questo ha ampliato la mia panoplia di pensieri, di anime.


Per entrare nel personaggio come ti prepari?


Avere un approccio atipico come il mio non preclude, ovviamente, una grande preparazione. La mia consiste in due cose. 1. La memoria. Io tendo a conoscere molto bene le mie battute, le studio in maniera quasi ossessiva, perché voglio riuscire a non pensarle, voglio farle diventare qualcosa di istintivo, come respirare, proprio per poterle dare una naturalezza. E 2. Cerco l'attimo. Dovete sapere che sul set sono piuttosto un burlone: faccio scherzi, faccio facce, parlo e mi diverto tra un ciak e l'altro, e spesso chi mi vede sul set si chiede come faccia a passare, subito dopo il ciak, alla serietà del personaggio. Quella bolla di leggerezza mi serve proprio ad allinearmi con me stesso, con chi mi circonda, a farmi sentire la concretezza del presente.

E poi... si vola.

Spero davvero che questo nuovo format vi piaccia. E nel caso, potremmo svilupparlo ancora di più, cercando una relazione più dinamica, in cui traggo anche da voi i temi da affrontare. Un dialogo continuo, che serva a testimoniare il nostro piccolo giardino.

Alla prossima pagina.

Il mio discorso al Senato

Oggi ho deciso di condividere con voi il testo del mio discorso al Senato, con delle piccole note per confessarvi anche quali erano i miei stati d'animo e le mie emozioni in quel momento così importante.

Il premio si soffermava sulle "Soft Skills", cioè quelle competenze che non si acquisiscono con lo studio scolastico, ma che rappresentano l'interdisciplinarità della conoscenza acquisita nella vita. Competenze, nel mio caso, che spaziano da campi come la gestione emotiva, alla creatività fino allo storytelling.

Ve lo lascio in forma scritta. Se mi state ascoltando da Spotify, questa è la buona occasione per fare un salto sul sito flavioparenti.com nella sezione blog, potrete anche vedere il video integrale del discorso.

Alla prossima pagina!

(Avevo il cuore a mille e temevo di non essere all'altezza della situazione. Prima di me, molti medici avevano parlato.)

Buonasera. Io, come molti artisti, soffro della sindrome dell'impostore, quindi mi sento molto emozionato, ma anche fortunato a potervi ascoltare tutti, perché venite da tante sfere diverse e portate conoscenze diverse che io non possiedo. Io sono al 100% soft skills: l’artista, per definizione, non ha molte hard skills. Le mie competenze sono il parlare, per la recitazione, e lo scrivere, per la scrittura, che sono skills che tendenzialmente abbiamo tutti, ma che bisogna trasformare in emozione. Questa è la mia soft skill.

(Per un breve periodo nella mia mente mi era balenata l'idea di improvvisare e non appoggiarmi al discorso che avevo scritto, ma poi ho voluto rimanere fedele alla mia scelta iniziale.)

Ora, mi sono preparato un piccolo discorso, perché comunque siamo in Senato e volevo omaggiare questo momento. Prima di tutto, grazie, grazie mille per questo premio, perché sono davvero stupefatto di essere qui. Ricevere questo premio in seno al Senato per me è un onore immenso, quindi innanzitutto vi voglio ringraziare di cuore. Questo riconoscimento non è soltanto un traguardo (sono giovane), ma è un promemoria del viaggio che io ho intrapreso tanti anni fa. È un viaggio che ho cominciato sul palcoscenico a Genova, che poi ho continuato tra le telecamere di Cinecittà, e che adesso si è evoluto in modo che io non avrei mai potuto immaginare.

Io sono un attore, e quindi vivo le storie sulla mia pelle, nel momento presente, ora, "Hic et Nunc". E ogni scena, ogni battuta per me è un'opportunità di connettermi al momento, che è qualcosa di effimero, eppure è così importante. E lo vivete tutti: lo vivete voi avvocati, lo vivete voi medici. Il momento, essere connesso al momento, questa è l'arte della recitazione. Ma è una soft skill. E forse una delle soft skills più importanti, perché è quella che ti permette di connetterti con l'essere umano che hai davanti.

(Ho riportato il discorso come l'ho detto, ma dovete sapere che vi erano parti improvvisate e parti scritte. Proprio per via di quel pensiero iniziale, ho scelto di lasciarmi alcuni spazi in cui, chissà, avrei potuto rafforzare o dire qualcosa di diverso. Dove ho improvvisato, chiedete? Questo rimarrà un segreto...😂)

Quindi, racconto storie, vivo le storie, ma non mi fermo semplicemente alla recitazione. Io ho avuto la fortuna di fare teatro, di fare film, come abbiamo detto, di fare serie, videogiochi, e ogni volta ho capito quanto sono importanti le storie, perché sono il ponte che ci connette e che ci ricorda che non siamo soli. Una storia ci ricorda che non siamo soli, che qualcun altro sta vivendo le stesse cose che stiamo vivendo adesso. E questa è l'importanza delle storie. Una storia è un racconto che conduce sia colui che la dice che colui che l'ascolta in un'esperienza che lo trasforma.

Ho trovato poi nei romanzi la forma più adatta per me, per dare vita alla mia creatività. La scrittura, nella sua forma più pura, mi permette di esplorare le sfumature della realtà e soprattutto di me stesso, perché fare arte significa anche guardare se stessi, produrre qualcosa che è fuori da sé e poi, come uno specchio, sentirne l'eco e crescere attraverso questa ripetizione. Insomma, ho capito che raccontare le storie per me è il motore della mia anima. È la fiamma che alimenta ogni mia azione, che sia teatrale, cinematografica o letteraria, perché la creatività accende l'anima. E senza creatività la vita è povera, a prescindere dal lavoro che fate.

(Qui cominciavo a sentire la voce tremare. Non volevo andare lungo, non volevo tediarli. E poi non volevo sembrare come se "me la stessi tirando". È difficile quando si prende un premio, non cadere nell'autocelebrazione. E pensate, mi è venuto in aiuto proprio questo diario. Perché scriverlo non solo mi ha permesso di legarmi a voi, ma mi ha anche dato nuovi strumenti, poiché ogni articolo è per me un nuovo mondo, una nuova scoperta che man mano sta forgiando la mia poetica.)

E in questo senso, prendere un premio come questo mi fa riflettere su quanto sia importante coltivare queste soft skills: storytelling, creatività. Cosa sono? A cosa servono? Servono. Servono a collegarci, servono a riconoscere l'altro uomo, si trasformano in empatia, ma non solo, anche in capacità di prevedere ciò che l'altro farà, perché è in ascolto, perché si percepisce l'umanità che si ha davanti.

Quindi, grazie. Grazie a chi ha creduto in me. Colgo l'occasione per ringraziare la mia editrice, Aurora Di Giuseppe, e grazie a voi per avermi riconosciuto questo valore.

(Questo che segue, come è ovvio, è un tema a me molto caro, e mi ha emozionato aver avuto la possibilità di poter, appunto, farlo emergere in un contesto così importante.)

E finisco con qualcosa di estremamente importante, che sarà al centro del dibattito dell'arte dei prossimi vent'anni e che approfitto per mettere sotto la lente adesso. Io questo premio lo dedico a tutti coloro che, in un mondo di intelligenze artificiali che sembrano pronte a sostituirci, continuano a credere nell'anima, nella forza del racconto umano, ispirato e imperfetto. Perché sarà sempre e solo la nostra umanità a restituire significato, connessione e speranza.

Grazie.

L'arte di prendere appunti e raccogliere idee

Ogni artista o creativo sa quanto sia importante catturare le idee nel momento in cui emergono, perché spesso sfuggono come sabbia tra le dita. Tuttavia, raccogliere idee è un’arte che richiede metodo e disciplina. Nel corso degli anni, ho sviluppato una serie di strumenti e tecniche che mi permettono di ordinare e gestire non solo le intuizioni creative, ma anche le questioni pratiche del mio lavoro. La chiave sta nel trovare il giusto equilibrio tra ordine e libertà creativa, tra azione e riflessione.

Gli strumenti che uso: Microsoft To-Do, Apple Notes e Notepad

Per tenere traccia di tutto ciò che devo fare, uso diverse piattaforme. Microsoft To-Do è il mio strumento principale per le cose da fare. È organizzato, chiaro, e mi permette di avere una visione d’insieme su tutti i compiti e i progetti che ho in corso. Qui metto le scadenze, le priorità e i dettagli su ciò che deve essere fatto. Apple Notes invece è il mio strumento per le idee più immediate, quelle che mi vengono in mente all’improvviso e che devo annotare velocemente, ovunque mi trovi. Infine, uso anche Notepad sul computer, più come un blocco note digitale per sessioni di brainstorming o per elaborare meglio le idee.

Una cosa che non faccio è utilizzare le note vocali. Personalmente, preferisco scrivere, perché mettere le parole su carta o in digitale mi aiuta a dare ordine ai pensieri. Scrivere è un processo che mi permette di riflettere e di organizzare meglio ciò che ho in mente.

Dal caos alle cartelle tematiche, fino a un nuovo metodo: Problemi e Opportunità

Fino a poco tempo fa, organizzavo le mie idee in cartelle tematiche, ognuna delle quali indirizzata a un settore preciso: "la società di videogiochi", "la scrittura", "il sito" e così via. Era un metodo funzionale, ma sentivo che mancava qualcosa in termini di gestione e azione pratica.

Di recente, ho scoperto un modo nuovo di strutturare il mio sistema di appunti. Ho iniziato a dividere tutto in due grandi gruppi: "problemi da risolvere" e "opportunità". Questa distinzione ha trasformato il mio approccio. I problemi sono quelle questioni che devono essere affrontate per poter andare avanti, quelle rogne che bloccano il progresso se non vengono risolte. Le opportunità, invece, sono tutte quelle idee nuove che potrebbero aprire nuovi orizzonti o creare nuove possibilità, ma che non sempre necessitano di azione immediata.

Quello che faccio è concentrarmi esclusivamente sui problemi da risolvere. Questi hanno la priorità perché rappresentano gli ostacoli reali al mio avanzamento. Le opportunità, invece, le lascio riposare per qualche settimana. Questo perché spesso sono quelle che mi entusiasmano di più e che mi portano a dedicare loro tanto tempo ed energia, ma non sempre portano a risultati concreti. Dopo 2-3 settimane, le rileggo con occhi nuovi. Se, dopo quel tempo, l’opportunità non mi sembra più così interessante, la elimino. Se invece passa il test del tempo, allora mi dedico a svilupparla.

Mi piace anche dedicarmi a quello che chiamo "una giornata di opportunità", un’intera giornata in cui mi immergo solo nelle nuove possibilità, esplorando ciò che può venire fuori da idee che ho lasciato riposare.

Niente note per le idee creative: Lascio che ribollano nel calderone

Un’altra caratteristica del mio metodo è che non prendo subito note per le idee creative. Mi ispiro alla filosofia socratica secondo cui la scrittura "fissa" le idee, in un certo senso le uccide. Quando un’idea viene fissata troppo presto, rischia di perdere la sua vitalità, di diventare troppo statica. Per questo motivo, lascio che le idee ribollano nel calderone della mia mente. In questo modo, permetto che i pensieri si mescolino, si incontrino, e creino quelle connessioni inaspettate che possono portare a vere esplosioni creative.

Solo quando comincio ad avere una visione generale, quando un’idea è maturata abbastanza, inizio a scrivere qualcosa. Anche in questo caso, però, non mi affretto a svilupparla subito. Lascio riposare le mie prime note, ci torno sopra dopo un po’ di tempo e rivaluto quello che ho scritto. Proprio come faccio con le opportunità e i problemi da risolvere, seleziono attentamente quali idee portare avanti e quali scartare. Non tutto merita di essere sviluppato, e la selezione è un processo cruciale.

L’importanza di trovare il proprio metodo

Catturare idee e intuizioni è un’arte che richiede un metodo adatto alle proprie esigenze. Il mio approccio si basa su una combinazione di strumenti pratici e una filosofia di selezione attenta. Da un lato, utilizzo strumenti tecnologici per organizzare i miei pensieri. Dall’altro, faccio riposare le idee nella mia mente e lascio che le opportunità e i problemi maturino nel tempo, per poi valutarli con spirito lucido.

Alla fine, ciò che conta è riuscire a trovare un sistema che bilanci l’impulso creativo con la necessità di ordine e struttura. Solo così possiamo trasformare l’ispirazione in azione concreta, senza perdere la magia del processo creativo.

Alla prossima pagina.

La disciplina dell'artista

La disciplina dell'artista

Essere un artista significa vivere costantemente tra due forze opposte: la libertà creativa e la rigida disciplina. Da un lato, c’è il bisogno di spaziare, di esplorare senza limiti, di accedere a quelle idee che ci sorprendono e ci stupiscono. Dall’altro, c’è la necessità di dare una forma concreta a queste idee, di strutturare il lavoro affinché possa essere compreso, apprezzato e, alla fine, realizzato. Nel tempo, ho imparato che solo bilanciando questi due elementi è possibile trasformare la creatività in un mestiere produttivo e soddisfacente.

La libertà creativa: raggiungere il "numeno"

La libertà creativa è quel momento magico in cui l’artista riesce a trascendere il mondo fenomenico, a oltrepassare le apparenze per arrivare al "numeno", quel luogo oltre la superficie delle cose dove risiedono le idee più profonde e pure. In quello spazio, quasi mistico, si trovano le idee che possono sorprendere anche noi stessi. È un luogo in cui la mente sembra connettersi direttamente con il frutto fresco dell’albero della realtà, raccogliendolo direttamente dai suoi rami.

È in quel momento che si sperimenta la meraviglia della creazione pura, quando le idee fluiscono senza controllo, senza schemi, e siamo così addentro alla creazione che non ci rendiamo conto di essere semplicemente un canale attraverso il quale passa qualcosa di più grande. Ma quella libertà, per quanto esaltante, è solo il primo passo. L’idea pura, da sola, non è abbastanza. Come un magma incandescente che emerge dalle profondità della terra, essa ha bisogno di essere raffreddata, modellata e scolpita affinché possa prendere forma. Ed è qui che entra in gioco la disciplina.

Forgiare l’idea: la necessità della disciplina

Proprio come un fabbro deve battere il ferro finché è caldo per dargli forma, (o come Saturno che forgia il suo anello, direbbe Anna nell'Anello di Saturno) anche l’artista deve lavorare sull’idea appena nata, ancora flessibile e malleabile. La disciplina è l’attrezzo che permette di dare struttura a quel magma creativo, evitando che si disperda in un fuoco di paglia. L’idea, infatti, si raffredda rapidamente, e senza la tecnica e la costanza, rischiamo di perderne il controllo.

Lavorare con disciplina significa accettare che il momento di pura ispirazione è solo una parte del processo. Dopo quel momento iniziale, c’è il lavoro quotidiano, la fatica di dare forma a qualcosa di concreto. E non è sempre facile. Spesso mi trovo a dover recitare senza scintilla creativa, senza entusiasmo. Può succedere, la vita è complessa e piena di sfumatura. Ma è proprio in quei momenti che la disciplina si rivela fondamentale. Sapere che devo essere lì, che devo lavorare, mi permette di attraversare anche i momenti meno ispirati.

La tecnica: il ponte tra libertà e forma

La tecnica è il mezzo con cui trasformiamo l’idea - o noi stessi - in un'opera tangibile. Che sia scrivere o recitare, è un processo di crescita che richiede pazienza, ma anche una profonda conoscenza degli strumenti. Nel mio caso, lo storytelling e la recitazione. L'arte "del presente" e l'arte "della Storia". Due facce della stessa medaglia.

La tecnica non mi limita la creatività, al contrario, la fa emergere. Come ho detto spesso, la libertà creativa è meravigliosa, ma è senza confini. È solo quando riusciamo a inserirla all'interno di un quadro definito, che può davvero brillare. È come una scultura: la materia prima è necessaria, ma senza la mano esperta dello scultore, rimane solo un blocco di marmo. Conosco vari scultori, vi assicuro che è un lavoro faticoso, che usura muscoli e pelle. Eppure, solo così si arriva all'eccellenza.

L’equilibrio tra caos e ordine

Alla fine, il mestiere dell’artista è una danza continua tra il caos della creazione e l’ordine della disciplina. La libertà creativa ci trascina in luoghi inaspettati, ci permette di attingere a idee nuove e sorprendenti, ma è la disciplina a trasformare quelle idee in opere compiute. Il vero segreto è imparare a bilanciare queste due forze, senza permettere che una schiacci l’altra.

Con la libertà creativa esploriamo, con la disciplina realizziamo. Ed è in questo delicato equilibrio che si trova il mio cuore.

Alla prossima pagina.

La potenza dei rituali

La potenza dei rituali

Nella vita creativa, la disciplina sembra spesso in contraddizione con l’ispirazione, eppure, più cresce la mia esperienza come scrittore, più mi accorgo di quanto sia essenziale costruire delle abitudini precise per alimentare il processo creativo. Oggi voglio parlarvi del valore dei rituali, quei momenti che, ripetuti giorno dopo giorno, diventano una bussola per la mente e il cuore, e mi aiutano a mantenere la rotta verso l'obiettivo.

La routine come alleata della creatività

C’è un’idea romantica della creatività, secondo cui l’ispirazione arriva come un lampo improvviso, dal nulla. E' così, ma l'ispirazione ha bisogno del terreno giusto su cui crescere. La creatività prospera quando viene coltivata quotidianamente, attraverso riti, routine. La disciplina, paradossalmente, libera la mente e crea lo spazio in cui l’ispirazione può fiorire.

Molti scrittori e artisti di successo hanno riconosciuto l’importanza di questo legame. Murakami, per esempio, inizia ogni giornata con un rituale immutabile: si sveglia all’alba, corre, e poi scrive per diverse ore. Stephen King ha una routine altrettanto rigida: scrive ogni giorno alla stessa ora, indipendentemente dall’ispirazione del momento. Questo mi ha fatto riflettere su quanto sia fondamentale costruire una routine che non dipenda dall’umore o dalle circostanze.

Nel mio caso, ho tante routine.

Camminare per risvegliare mente, cuore e anima

Uno dei momenti centrali della mia giornata creativa è la camminata. Cammino molto, come facevano i pensatori greci, convinto che il movimento del corpo risvegli non solo la mente, ma anche il cuore e l’anima. C’è qualcosa di potente nell’atto del camminare: è un modo per allontanarmi fisicamente dalla scrivania, ma soprattutto per liberare la mente dai pensieri che mi opprimono. Le migliori intuizioni spesso arrivano proprio in questi momenti di movimento, quando il respiro si fa regolare e la mente si lascia andare.

Dopo la camminata, il ritmo della giornata varia a seconda della fase di scrittura in cui mi trovo. Se sono in fase produttiva, quando c’è bisogno di macinare parole, il mio momento migliore è la mattina, dalle 9 alle 12. In queste ore, con la mente fresca e il corpo energizzato, mi siedo e lavoro senza interruzioni, lasciando che il flusso creativo prenda il sopravvento.

Quando invece sono nella fase di ricerca di idee, il mio orologio creativo cambia completamente. Le notti diventano il mio rifugio. Dalle 23 alle 2, nel silenzio della casa, mi immergo nel processo di strutturazione, di riflessione, lasciando che le idee emergano da quel terreno fertile che si crea solo quando tutto il resto del mondo dorme. È un momento quasi mistico, in cui la mente si distende e si apre a nuove possibilità.

Questa routine, però, non è nata da un giorno all’altro. Ricordo ancora quando scrissi il mio primo romanzo, "La rovina dell'anima" (mai pubblicato), a Parigi, all'Île Saint-Louis. Ogni mattina, alle 10:00, mi sedevo in un piccolo bar e ordinavo un caffè americano da 8 euro (prezzi folli, lo so!). Il caffè fumante accanto a me diventava parte del mio rituale quotidiano, e lì, seduto per due ore, cercavo di scrivere. Alcuni giorni non riuscivo a mettere giù nemmeno una parola, altri invece le idee fluivano senza sforzo. Ma più eseguivo quella routine, più mi rendevo conto che le parole sgorgavano con maggior facilità. La costanza era la chiave.

Il potere della costanza

Ricordo che durante la scrittura de "La rovina dell'anima", la mia prima opera, la costanza era tutto. Era una scrittura esplorativa, in cui non avevo una chiara direzione, né sapevo dove la storia sarebbe andata a parare. Ogni giorno mi sedevo a quel tavolo nell'Île Saint-Louis con la speranza che le parole venissero a galla. Alcuni giorni ero bloccato, altri sembrava che le idee nascessero da sole, ma quella routine mi spingeva ad andare avanti, nonostante l'incertezza.

Quella esperienza è stata diversa rispetto alla scrittura dei miei volumi più recenti, come "La Divina Avventura" o "L'Anello di Saturno", dove ho iniziato con una struttura ben definita e una visione chiara della direzione narrativa. In quei giorni parigini, la scrittura era più un atto di scoperta: un viaggio nelle profondità della mia mente senza una mappa. Eppure, anche in quell'incertezza, la costanza del rituale ha avuto un ruolo cruciale. La disciplina quotidiana di sedermi a scrivere, indipendentemente dal risultato, mi ha insegnato che il vero progresso creativo non dipende sempre dall'ispirazione momentanea, ma dalla perseveranza.

Questo insegnamento è rimasto con me anche oggi. Sebbene il mio processo creativo sia più strutturato, continuo a credere che la costanza sia la chiave per superare i momenti di blocco o scarsa ispirazione. Siediti, comincia, e le parole alla fine arriveranno.

Il rito della recitazione

Oltre che scrittore, sono prima di tutto un attore, e la recitazione, a suo modo, è un rituale. Quando salgo sul set, mi immergo in un rito preciso, fatto di gesti, parole e movimenti, che si ripetono ad ogni ciak. Ma ho imparato a non essere vittima del rito. La recitazione non è un atto passivo; richiede uno sforzo continuo di libertà creativa. Mi impegno a spezzare e rompere quelle che sono le mie stesse idee, i miei schemi, perché quello che conta, alla fine, è l'osservazione del reale. Non importa quanto rigido sia il rito, se non riesci a vedere, ad ascoltare ciò che ti circonda, allora rischi di perdere l’essenza stessa della tua arte.

La vera sfida è trovare un equilibrio tra rito e azione, tra disciplina e creatività. È in questo bilanciamento che si riesce a fare dell'arte un mestiere produttivo. Non si tratta di scegliere tra rigore e libertà, ma di farli convivere, lasciando che il rituale guidi la mano, mentre la creatività rompe le barriere e apre nuove strade.

Alla prossima pagina

Come nasce l'ispirazione?

Oggi è mancata la mia prima grande Maestra di Recitazione, la direttrice della scuola del Teatro Stabile, Anna Laura Messeri. Una donnina forte, ruvida, diretta, con l'energia vitale di un leone e la sagacia di una volpe. Aveva i capelli corti, l'ho conosciuta a vent'anni e, come tutti i bambini davanti ai nonni, per me Anna Laura è sempre stata una nonna. Non l'ho mai vista invecchiare, perché l'ho sempre vista vecchia. Eppure, il suo cuore era ancora giovane, sempre giovane. Dalla scuola di recitazione traeva vita, dagli alunni linfa per alzarsi un'altra volta, per urlare, di nuovo, che la voce non arrivava, che non si capiva quello che veniva detto.

Una maestra del palco che ora parla tramite le voci delle centinaia di alunni che ha educato, molti dei quali vi sono noti, poiché diventati famosi.

Uno di loro sono io.

Voglio raccontarvi come Anna Laura affrontò il concetto di ispirazione. Voglio iniziare da lì, perché è il primo ricordo che mi è venuto in mente quando mi sono chiesto come cominciare questa pagina. Ed è successo il giorno in cui ci ha lasciati.

Non può essere un caso, caro lettore.

Me ne stavo sul palco dopo aver ricevuto dalla "Mess", come la chiamavamo noi, un foglio: un estratto del Mein Kampf di A. Hitler, che parlava di sport. Di come la gioventù dovesse essere sana, forte. Un estratto che esulava dalla politica folle di Hitler, ma che ne conteneva un altro lato, meno conosciuto.

Lo scopo era affrontare questo lungo testo come un monologo. Incarnarlo con la voce e il corpo. Dargli ragione. Perché sì, quando si recita, una delle meraviglie è poter essere qualcun altro, qualcuno che non conosciamo, di cui non condividiamo le idee, ma che, nel momento in cui lo incarniamo, diventa parte di noi. L'attore è mille uomini, mille volti, mille lati di mille pensieri. Recitare, proprio come leggere, arricchisce.

Recitare è leggere con il corpo.

Toccava a me. Il palco di prova era quello del Teatro della Corte di Genova. Una piazza d'armi da duemila spettatori, un palco nero, enorme, un San Siro dei teatri. Vuoto.

Solo la Mess, seduta, che aspettava di tranciare con un commento sagace il prossimo allievo.

Toccava a me.

Entro sul palco, il foglio umido in mano, su cui era stampato il monologo. Lo avevo imparato a memoria, ma ero ancora incerto, dovevo tenerlo in mano, per accertarmi che, in caso di un vuoto di memoria, avrei potuto contare su di esso.

Arrivo in scena e mi prendo un tempo. Credo sia un primo segno di consapevolezza recitativa. Non si può cominciare qualcosa di interessante senza prepararlo con il silenzio.

E così, aspetto. Mi godo il mio momento. Il palco. "Non è mica male, poi, questo teatro…" penso.

Passa un altro secondo ed ecco che la voce della Mess spunta dagli abissi della platea, rivolgendosi a quel giovane francese in camicia e jeans, pronto a decantare la follia.

«Eeeeeeee… che fai? Aspetti l'ispirazione?!»

L'ispirazione. In effetti, era proprio questo che facevo. Aspettavo l'ispirazione, il coraggio di cominciare. La scelta di abbandonare il crogiolo nel quale mi stavo cullando, come un abusivo immeritevole, del silenzio teatrale.

«Eh sì, Mess, devo partire bene!»

«Non devi partire bene. Devi partire e basta!»

Ecco, in summa, cosa penso sia l'ispirazione. L'ispirazione, nella sua più profonda forma, è la preparazione all'ignoto.

L'opera è ignota. Nessuno può sapere come sarà l'opera d'arte nella sua forma finita, perché il processo della creazione è esso stesso l'arte. È organico, rispecchia l'anima del momento, ma anche il tutto che è l'artista.

L'ispirazione viene da "in-spiratio", inalare. L'ispirazione è il momento in cui ci si solleva da terra, ci si sublima in un vuoto teso a lasciarci in mano all'ignoto. Il momento in cui si fa entrare l'aria per poi eseguire, urlare, piangere, ridere, distruggere e creare.

Quindi, ragionandoci, cara Anna Laura, avevi colto il mio talento, l'ispirazione, e subito mi dicesti come portarlo avanti. Eseguendo. Imparando la tecnica. E facendo quel passo avanti.

E ogni giorno, da quel giorno, un passo avanti è stato fatto. E mille altri ne farò, Mess.

Alla prossima pagina.

Libera la creatività

Quando ero piccolo, mia mamma mi faceva giocare a un gioco di associazione libera. Funzionava così: "Pensa a una parola e dilla, la prima che ti viene in mente". L'altro giocatore, dopo aver sentito la parola, doveva dire la prima parola che gli veniva in mente, connessa a quella appena detta. È un gioco di associazione libera, in cui, grazie all'istinto e al vocabolario, si possono allineare concetti che, se troppo ragionati, non finirebbero mai insieme. È un ottimo modo per fluidificare l'immaginazione e sviluppare quello che si chiama "pensiero laterale".

Il pensiero laterale è quella forma di pensiero che permette di utilizzare una conoscenza normalmente associata a un determinato campo del sapere, in un altro campo. Spesso le idee rivoluzionarie sono figlie del pensiero laterale. Persino le invenzioni lo sono. L'osservazione del mondo è il primo spunto di creatività, ed è anche quello più inesauribile.

Ma la fluidità di pensiero non basta per generare qualcosa di davvero nuovo. Serve anche lo studio. Prendiamo l'esempio del gioco che facevo da bambino: quale era, secondo voi, lo strumento utile a migliorare il gioco? Il dizionario. Più i giocatori conoscevano parole difficili, più il gioco si innalzava verso vette interessanti.

In effetti, basta pensare ai due giocatori. Immaginate di avere Platone e Kant che giocano a questo gioco, oppure Baudelaire e Dante, sarebbe interessante.

Dante: "Inferno"
Baudelaire: "Spleen"
Dante: "Maledizione"
Baudelaire: "Fleurs"
Dante: "Amore"
Baudelaire: "Desiderio"
Dante: "Beatrice"
Baudelaire: "Vampira"
Dante: "Lussuria"
Baudelaire: "Decadenza"
Dante: "Purificazione"
Baudelaire: "Abysses"
Dante: "Redenzione"
Baudelaire: "Noia"
Dante: "Eternità"
Baudelaire: "Ombra"
Dante: "Luce"

Insomma, ci sarebbero dialoghi da immaginare! Questo esercizio mi ha aiutato molto a dare flessibilità al mio modo di pensare. Credo che sia anche grazie a questo che sono riuscito ad applicare il pensiero creativo (nello specifico lo storytelling) a molti altri aspetti della mia vita.

Per esempio, quando fondai insieme a cinque amici Untold Games, una società di videogiochi, nel 2014, utilizzai tutte le tecniche attoriali che avevo a disposizione per vendere il gioco nelle fiere di Los Angeles e San Francisco. Non solo: il fatto di provenire da un mondo "classico" come quello del teatro e della letteratura mi dava un vantaggio anche nello storytelling, sia inerente alla storia del nostro primo videogioco, sia nel raccontare la nostra storia come team di sviluppo.

Non esistono conoscenze inutili per la creatività, se manteniamo una prospettiva aperta e fluida, proprio come quelle parole. Le start-up più innovative degli ultimi anni spesso sono collegate a campi come l'agricoltura, che per anni è stato messo da parte, considerato poco "moderno".

Ognuno di noi è un tesoro di conoscenza, un forziere pieno di perle di vita che non aspettano altro che essere infilate in una collana. È il motivo per cui spesso si suggerisce al creativo di "cominciare da ciò che conosce", non tanto per un fatto egotico di raccontare se stessi, ma per partire proprio da quelle caratteristiche che renderanno la sua invenzione unica.

Come diceva Carmelo Bene, e non smetterò mai di citarlo: "Siate voi stessi dei capolavori". Perché alla fine di tutto, il vero valore aggiunto non è l'idea, non è nemmeno la realizzazione, ma è la persona che incarna questi due aspetti.

Un altro modo di stimolare la nostra creatività è fare vuoto e recarci in un luogo a noi sconosciuto. Affidarsi a quello che io chiamo, nella Divina Avventura, "l'istinto della materia". Noi siamo fatti, come tutto, di materia. E questa materia ha una sua intelligenza. Non solo, ognuno di noi ha un'intelligenza unica, cucita addosso, e a volte, vuoi per paura o per destino, seppelliamo l'istinto della nostra materia dietro un costrutto sociale, allontanandoci da quello che è il nostro demone, inteso come animale interiore, compagno protettore (daímōn, dal greco).

Forzandoci a spostarci verso un territorio sconosciuto, stimoliamo una cosa di cui tutti hanno paura: la crisi. La crisi, per il creativo, è benzina. La crisi accende il demone che c'è in noi, e se ci siamo preparati bene (in sostanza, se abbiamo letto il vocabolario a dovere e imparato, quasi a livello muscolare, nuove "parole") allora in quel momento di crisi brilleremo di un'intensità rara, perché, con le spalle al muro, il creativo ben allenato dà il meglio di sé.

  1. Allenare il pensiero laterale
  2. Arricchire la tecnica
  3. Andare a giocare nella vera arena: quella della nostra crisi.

Ecco i tre passi fondamentali per creare insieme alla nostra anima..

Alla prossima pagina.

L'arte dei sogni

Mi piace sognare, immaginare, proiettarmi in mondi che non esistono ancora e che, con la volontà e un po' di caparbietà, possono trasformarsi in realtà.

La mia indole—un po' come quella di Luca nell’Anello di Saturno—è sempre stata quella di un’anima che fugge dal reale. A volte per eccessiva sensibilità, a volte per vera e propria misantropia. Che ci posso fare? Amo la solitudine, amo vagare nel vuoto, senza meta, con occhi e orecchie ben aperti, alla scoperta di qualcosa che mi apra nuovi mondi.

I sogni, gli incubi...

Oggi voglio affrontare questa dimensione magica nella quale proiettiamo tutto noi stessi. Che esperti filosofi, psicoterapeuti e scienziati hanno provato a decodificare, ma senza successo. Cosa sono i sogni? A cosa servono? E soprattutto, che impatto possono avere sulla nostra creatività?

Comincio con quello che per me è un dato di fatto. Più cresco, più i miei sogni si fanno ad occhi aperti piuttosto che nel sonno. Da piccolo avevo una relazione complice con i miei sogni; riuscivo, quando qualcosa interrompeva il mio sonno, a riprenderli, proprio come il secondo tempo di un film. Era molto divertente. Succedeva, per esempio, che vivevo una storia nella quale ero protagonista di un evento fantascientifico e, mentre mi avvicinavo alla base dove avrei scoperto un grande mistero, ecco che qualcosa, o qualcuno, all'interno del sogno mi metteva paura. E mi svegliavo. Ma, troppo curioso di scoprire come sarebbe andata a finire, mi rituffavo nel sonno per completarlo.

Un’altra cosa peculiare che mi succedeva era che i miei sogni avevano una "intro". Cominciavano spesso nello stesso modo: un corridoio allagato, io su un tronco che galleggiava verso la fine del corridoio, dove mi aspettava un grande orologio a pendolo. Ci finivo dentro, cadevo nel buio e mi ritrovavo in una gigantesca scacchiera. Da lì, la mia storia cominciava.

Ho sempre sognato storie. Con, come avrebbe detto il caro Aristotele: "un inizio, uno sviluppo e una fine".

Gli incubi, invece, sono sempre sfuggiti al mio controllo. Non sarebbero stati veri e propri incubi se fosse stato il contrario. La paura cos’è se non la consapevolezza di non avere alcun controllo sugli eventi? I nostri incubi sono la proiezione di tutto ciò che ci perseguita.

Se i sogni sono desideri, gli incubi sono paure.

Desideri e paure. I due magneti dei grandi personaggi della letteratura. Credo che una domanda meravigliosa da porci quando affrontiamo la creazione dei personaggi sia chiedersi cosa sognano e quali sono i loro incubi. Questo ci impone una consapevolezza diversa della loro umanità, che poi si rifletterà nel modo in cui reagiranno alle sfide che la storia gli imporrà.

La funzione dei sogni nella creatività è molto simile a quella dell'arte. I sogni ci manifestano qualcosa che abbiamo dentro. Sono una proiezione del nostro mondo interiore in una forma codificata, "comprensibile" a livello conscio. Che è esattamente quello che dovrebbe essere un'opera d'arte. L'artista, nell'atto della creazione, attinge al mondo oscuro, al numeno, e manifesta quella visione attraverso la tecnica, in una forma detta "artistica" (che sia un dipinto, un film, una poesia, un tempio, ecc.).

I sogni sono la prima vera forma d'arte. Un'arte personale, intima, che serve a conoscersi, a scoprirsi, ad ascoltarci. Sono la bussola dell'anima che ci indica, attraverso un processo del tutto personale ma perfettamente calibrato alla nostra essenza, quale sia la strada da percorrere o da evitare.

I sogni siamo noi.

Chissà, forse un giorno potremo, grazie alla tecnologia, invitare qualcuno a sognare insieme a noi, sognare collettivamente. Forse in quel momento, quando i desideri di tutti si fonderanno con le paure degli altri, allora l'umanità troverà un suo equilibrio.

Nel frattempo, tocca a noi artisti creare questi ponti. Generare, attraverso un percorso di scoperta, un sogno, un incubo e fissarlo, proprio come una fotografia olografica, su tela, su carta, sul mondo, in modo tale che qualcuno, chiunque, possa avere l'opportunità, incontrando l’opera, di sognare un frammento di noi.

Si dice che l'arte unisce i popoli e penso che sia proprio questo il motivo. Perché, come su una nave in tempesta, l'artista tesse corde robuste che legano gli uomini tra di loro, permettendo loro di comprendere che quella solitudine che sempre li attanaglia continuamente è un’illusione. Che i loro sogni non sono tanto diversi da quelli degli altri, e lo stesso si può dire delle paure.

Quindi, sognate, sognate ad occhi chiusi e aperti. Sognate per creare ponti che possano irrigare il cuore dei nomadi che attraversano, nel tempo di un lampo di eternità, questa meravigliosa illusione chiamata vita.

Alla prossima pagina.

Riscopri la creatività

E così, si ricomincia...

Ho passato delle vacanze, devo dire, poco vacanti, belle e intense, insieme a mia figlia e Eleonora. Siamo stati a Ibiza, un'isola molto bella e molto cara. Ibiza ha il fascino di un luogo dove può succedere di tutto. Ci sono le discoteche, è vero, ma ci sono anche spiagge isolate, ristoranti tre stelle Michelin e piccoli chiringuito dove si può gustare un cocomero fresco. Insomma, ce n'è per tutti i gusti.

E ora, inizia il nuovo anno scolastico. Incredibile come sia rimasto impresso in me questo ciclo. A settembre si ricomincia: finiscono le vacanze, che da piccolo duravano due mesi e ora solo due settimane. Una metafora della vita adulta che, piano piano, diventa sempre più piena di cose da fare e sempre più scarna di tempo libero.

Non posso certo lamentarmi. Uno dei lati positivi dell'essere artista è proprio il tempo libero, necessario per poter generare nuove idee, per affrontare la crisi, per crescere. Si dice che la crescita nei bambini avvenga all'80% durante il sonno. Ecco, io penso che la crescita interiore dell'artista avvenga in quello che è il suo "sonno", cioè il tempo libero.

Il vuoto ha una funzione creativa importante. Lo sanno gli attori, quelli veri: solo dal silenzio si può procedere verso l'emozione. La stessa cosa vale per la creazione artistica a tutti i livelli, ma soprattutto per quanto riguarda la nascita delle idee. Le idee hanno bisogno di vuoto. Badate, non significa per forza silenzio (anche se silenzio e solitudine, per quanto mi riguarda, sono i blocchi fondamentali della mia creatività), ma può bastare una camminata, una nuotata, un caffè preso in una bolla di nulla.

Durante queste settimane, ho ragionato a lungo su cosa voglio fare della mia vita. Anche questo è un passaggio importante, soprattutto nell'età adulta: la pianificazione, la progettazione. Lo sapete, mi piace scrivere tanto quanto recitare. E da alcuni anni ho intrapreso la creazione di un nuovo lavoro, quello del "produttore di proprietà intellettuali". Il mio progetto è scrivere libri pensati anche per una potenziale adattabilità cinematografica o televisiva e gestire il processo dalla creazione fino alla vendita dei diritti. Un modo originale di unire cinema e scrittura, le mie due passioni.

Non so se ci riuscirò, ma è questo che voglio fare nei prossimi anni. E lo farò ritagliandomi il tempo tra un lavoro d'attore e l'altro. Tra Il Paradiso delle Signore, che girerò fino a gennaio, e un'altra serie Rai che comincerò a settembre. Sono anche stato contattato per un premio molto importante e totalmente inaspettato. Ovviamente sarete i primi a sapere qualcosa in più.

Molte cose cambieranno. Prima di tutto, come avrete sicuramente notato, il sito internet ha subito una grande ristrutturazione. L'ho reso più leggero, più snello. Spero che vi piaccia. Posso sempre apportare modifiche, quindi se avete suggerimenti scrivete nei commenti, sarò felice di valutarli.

Un'altra cosa che cambia è che ho deciso di ridurre gli episodi del diario a uno per settimana. So che molti di voi si rattristeranno per questa "terribile notizia" — avevo anche chiesto in chat su Instagram quale fosse la vostra preferenza, e tutti avete detto "no, due a settimana!". Ma purtroppo, scrivere due episodi mi richiede troppa fatica, quindi ho deciso di scriverne uno solo a settimana, più curato, più profondo e leggermente più lungo. Non vogliatemene, ma se voglio riuscire a conciliare recitazione, scrittura e podcast, sono costretto a trovare un equilibrio tra questi elementi. Sono certo che capirete.

Anno nuovo, vita nuova, così si dice, no?

Ovviamente ci saranno eventi dove potremo incontrarci, i nuovi volumi dell'Anello di Saturno e anche la nuova storia che ho cominciato a scrivere. Ci vado piano, perché prima voglio fare bene le valutazioni sul successo dell'Anello di Saturno. Prima di imbarcarmi in un'altra folle avventura, devo considerare bene tutte le possibilità e dedicare le mie risorse lì dove sono più utili. Pensandoci, sto facendo un gioco di equilibrio tra creatività e imprenditorialità.

Penso che quest'anno saranno questi i due temi che affronterò negli articoli del diario. L'imprenditorialità — quindi come sviluppare un progetto, quali strumenti usare, quali tecniche di marketing, di sviluppo web, di distribuzione dei libri — e la creatività, quella che ormai conoscete, ma che è un campo così vasto che sono certo ci sarà ancora molto da scoprire. Sia per me che per voi. Proverò ad essere più concreto, a dare suggerimenti costruttivi sulla scrittura, la recitazione, le idee. Anche qui, se avete proposte o temi che volete che io affronti, ricordate di usare i commenti. Spesso non riesco a leggere tutti i DM su Instagram o Facebook, ma qui, sul sito, leggo tutto.

Detto questo,

Alla prossima pagina!

Come crescere come artista

Mi è stato chiesto, su Spotify, di approfondire la crescita dell'artista.

Prima di tutto dobbiamo capire cosa si intende per crescita. Il mestiere dell'artista è complesso e non è solo limitato alla sua arte, cioè alla sua tecnica, ma include la sua anima, il suo portafoglio, la sua vita sociale, la sua cultura, la sua mente, il suo corpo. Insomma, le caratteristiche che deve sviluppare un bravo artista sono tante e multidisciplinari. Così tanto che dobbiamo arrivare, per forza di cose, a una visione olistica di cosa sia un artista.

L'artista, per me, è colui che porta una nuova sfumatura di realtà a coloro che non hanno il tempo o la voglia di cercarla da soli.

Questo vuol dire che per me l'artista è prima di tutto un esploratore. Ma non esplora lo spazio, almeno, non principalmente. Esplora i suoi sentimenti, la sua anima. Per questo spesso viene confuso come un essere vanesio. È vero, molti che fanno arte lo fanno per vanità, fragilità, desiderio di essere riconosciuti. Ma non parlo di loro; parlo di quelli che hanno dentro una ferita, un desiderio irrefrenabile di comunicare, una curiosità che li porta ogni volta lontano.

L'artista deve esplorare gli altri, lo spazio e il tempo. Proprio perché, per via di questa caratteristica olistica, la sua crescita dipende da tanti fattori. Purtroppo, per ragioni di spazio e di tempo, mi focalizzerò sulla crescita del motore centrale.

Ci possono venire in aiuto alcuni detti sopravvissuti ai millenni di guerre e rivoluzioni:

"Mens sana in corpore sano."

Alimentate cuore e mente con cibo di qualità, che vi elevi, che vi predisponga al miglioramento e all'apertura.

"Più so, più so di non sapere."

Questo principio base, che obbliga coloro che hanno intrapreso un percorso di scoperta, a fare sempre un passo avanti verso l'ignoto, è la base del movimento. È il motore.

"Chi va piano, va sano e va lontano."

Per crescere, serve la resilienza della tartaruga. Non si ha successo la prima volta, nemmeno la centesima. Dicono che i primi cinque anni di qualsiasi disciplina non sono fatti per trovare il successo, ma per diventare bravi. Ci vuole tempo, dedizione e ascolto.

"Non mettere il carro davanti ai buoi."

Questo detto vuol dire molte cose insieme. Nel nostro caso, direi che prima di tutto serve una buona gestione dell'economia. Il mio suggerimento è di non indebitarsi, per evitare di essere costretti, soprattutto all'inizio della carriera, a fare rinunce per via di un debito. Ma vale anche per come ci si presenta. Umiltà, professionalità e ascolto sono competenze ignorate ma fondamentali nel mondo dell'arte.

Ultima cosa... Nel frattempo che fate questa strada, impervia, piena di buche e precipizi ad ambo i lati, spesso solitaria, avulsa dalla quotidianità, speciale poiché straniera, vi suggerisco di ricordare, di tanto in tanto, per la vostra salute mentale, un ultimo detto:

"Chi si accontenta, gode."

Perché a volte il talento non è riuscire a fare quello che amiamo, ma amare quello che facciamo.

Alla prossima pagina.

Razionalità e Creatività

Il segreto, nell'arte come nella vita, è agire.

"Non pensare, fare. Lo dice anche la Nike."

Ultimamente, sul mio feed di Instagram, non faccio altro che vedere motivatori, guru e geni della finanza che ripetono come un mantra che il segreto è nell'azione.

Ma forse è eccessivamente semplicistico pensare che solo chi "si alza" o "chi fa" possieda le chiavi del successo? Io, per esempio, faccio tanto, tantissimo, e vi posso assicurare che almeno l'80% dei miei tentativi si rivela essere un fallimento. Il 20%, invece, no. Ed è per questo che poi mi rialzo dopo la caduta e riprendo di buona lena da dove mi ero interrotto.

Qualcosa, dentro di me, continua a pensare che, forse, quel gran numero di fallimenti potrebbe diventare un gran numero di successi se solo io non facessi tutto così in fretta. Se avessi la pazienza di studiare. Il fare, il correre, l'agire devono essere supportati dal raziocinio, dalla capacità analitica che ci distingue da tutti gli animali: quella di prevedere, di vedere oltre.

In un certo senso, l'intelligenza è proprio questo: simulare nella nostra testa le eventuali possibilità e poi fare la nostra scommessa e "agire".

Ma per quanto possiamo provare a immaginare il futuro, è davvero impossibile. Se pensate che solo in una scacchiera fatta di 64 caselle e 32 pezzi, dopo la decima mossa, le combinazioni di possibili posizioni sono superiori ai numeri di atomi nell'universo (ma non era infinito?), allora mi pare evidente che non possiamo essere neanche capaci di prevedere il meteo del giorno dopo. Difatti, sbagliano spesso.

Ma, a parte gli scherzi, il mondo non è una formula, e il vento cambia quando vuole.

Nell'Anello di Saturno, quel vento si chiama Destino, ed è animato persino di una volontà. Anche lui vive nel dilemma se agire o non agire. Un Destino amletico: "essere o non essere? Fare o non fare? Troppo pensiero mi porta via, caro lettore!"

Tutto questo per dire che la creatività non è nulla senza la razionalità. E nell'arte, questa razionalità ha un nome: si chiama tecnica. Dal greco Tekne, arte. Insomma, l'artista è prima di tutto un tecnico, una persona maestra nel fare un gesto tecnico. Un attore raziocinante.

L'artista diventa protagonista del presente solo permeato di una tecnica forgiata negli anni, divenuta inconscia, che gli permette di partecipare con destrezza al presente e, nel mentre, renderlo eterno.

Ecco cosa vuol dire il detto "impara l'arte e mettila da parte."

Quando scrivete, recitate, ballate, dipingete, quello è il momento in cui dovete spegnere la testa. Lasciate che siano il cuore, l'anima e l'intuizione a governarvi verso l'ignoto, verso lo stupore.

C'è sempre tempo per aggiustare, levigare, incastrare e formalizzare.

Come dice De André: "Dal diamante non nasce niente, dal letame nascono i fior."

Alla prossima pagina.

Perchè Anagni?

Ormai me lo sento dire spesso: "Perché hai scelto Anagni per l'Anello di Saturno?"

Vi dirò, è il frutto del caso, dell'analisi e della volontà. Dopo La Divina Avventura, avevo deciso di scrivere un altro libro, ma visto che avevo percepito, nella mia scrittura, un'eccessiva densità, decisi di scrivere un libro in due volumi. La storia parlava d'amore e di destino. Sviluppandola, e trovando poi questo meraviglioso narratore che è il destino, qualcosa dentro di me continuava a sobbollire. Qualcosa che mi diceva: "Flavio, vai, vola con la fantasia".

Vi devo confessare che volevo scrivere fuori dal genere fantastico. Volevo affrontare la realtà. La mia storia doveva essere ancorata nel reale, quanto più reale possibile. Ed ecco che pensai di raccontare una piccola parte della mia adolescenza, quel mio essere straniero.

I due volumi sono diventati cinque, Flavio si è fatto Luca, che era il nome di un ragazzo italiano in un meraviglioso lungometraggio della Pixar dal medesimo nome.

E Anna, mi chiederete? Perché hai scelto questo nome? Perché adoro Lucio Dalla e adoro una canzone in particolare: "Anna e Marco". Come scoprirete nei prossimi volumi, la musica italiana degli anni '80/'90 è molto presente. Dalla, Tozzi, Cocciante. Li vedrete sparsi qua e là a dare colonna sonora all'incredibile storia di Luca e Anna.

"Sì, ma non ci hai detto perché hai scelto Anagni."

Ho cercato se vi fossero leggende legate a Saturno su internet. E guarda qua, la prima città che trovo è proprio Anagni. Non la conoscevo, ma a pelle, qualcosa mi ha attraversato. "Anagni, città fondata da Saturno… nel Lazio… il destino…" Allora ho preso la macchina e, in un caldo pomeriggio d'agosto, sono arrivato nel meraviglioso borgo delle colline ciociare. Ero da solo e ho cominciato a immaginarmi Luca che camminava in mezzo alle pietre antiche. E poi, un Ronnie, la vita del borgo negli anni '90, le scalinate. Ed ecco che era nato il primo volume della saga.

Ma, se questo non vi basta, sul sito vi lascio il video della fantastica presentazione fatta, con un particolare ringraziamento al comune di Anagni, che si è mostrato aperto ed entusiasta. Grazie a chi è venuto e a chi non c'è riuscito.

E grazie a voi, che mi ascoltate, mi leggete e mi guardate.

Alla prossima pagina.

Vita, Morte e Fantasia

Oggi voglio tuffarmi in temi che mi sono molto cari e che continuano ad affascinarmi, per quanto provi a distanziarmene.

Non che voglia dimenticarli, anzi. Ma vivo con il terrore di ripetermi, di essere noioso. Forse è questo che poi mi dà quella spinta in più nella recitazione, nella scrittura, nella comunicazione. Sono terrorizzato dall'essere poco interessante. Ne ho già parlato: il mio terrore della banalità. Quindi spesso mi capita di fuggire da temi che mi sono cari, per il solo motivo di scoprire qualcos'altro, di arricchirmi di differenze che potrò trovare in giro per il mondo.

Il mondo è così vario, come la cucina. Ogni posto ha i suoi costumi, usi, ricette e religioni. Siamo diversi, eppure così simili. C'è qualcosa che sembra accomunarci: la morte, la vita e il ponte tra i mondi, che chiamo la fantasia.

Oggi vi svelerò un segreto. Mi sono dato la promessa di dire sempre la verità a mia figlia, Elettra. E mi direte: "Eh vabbè, che ci vuole!" Al che vi dico solo una frase: "Papà, Babbo Natale esiste?"

Silenzio.

Ecco, non è poi così semplice, vero?

Ovviamente la risposta corretta è no, non esiste. E mi ero preparato a rispondere così nel caso me lo avesse chiesto. Poi, però, qualcosa in me ha cominciato a indagare su questo personaggio: Babbo Natale. Un personaggio nato dalla costola di San Nicola, che prima ancora era il solstizio d'inverno, la giornata più breve, l'inizio della rinascita che avveniva il giorno successivo. Insomma, Babbo Natale rappresenta, in una forma di fantasia, qualcosa di reale, di tangibile. Quindi ho optato per una risposta che fosse onesta, e allo stesso tempo che evitasse di uccidere sul nascere la fantasia.

"Si amore mio, esiste, nel mondo della fantasia. Che è vero tanto quanto il nostro. Ed è pieno di possibilità, di scoperte, e di tutto quello che puoi immaginare."

Chi l'ha detto che le leggende non sono vere? Io ci credo nella fantasia. E chi l'ha detto che il solo pensare a qualcosa non generi, in chissà quale altra dimensione, la nascita di questa cosa? E chissà, magari, nello scrivere l'Anello di Saturno, un mondo distante ma vicino, si è formato, e Luca e Anna esistono, vivono quella storia, come noi viviamo la nostra.

Infatti, chi l'ha detto che noi non siamo il sogno di qualcun altro?

Vita, fantasia e morte sono anche i temi della Divina Avventura. Un'odissea attraverso il fantastico, la fantascienza, la spiritualità, in cui ho peccato di densità, ma ho esagerato in generosità. Se un giorno avete voglia di affrontare qualcosa di più "tosto" dell'Anello di Saturno, il libro è lì che vi aspetta. Per chi non l'avesse mai letto, vi lascio il link alla prima parte del primo capitolo, letto da me.

Detto questo, sabato scorso ho fatto la presentazione dell'Anello di Saturno ad Anagni, ed è stato spettacolare. Poter tornare tra quelle strade, poter tornare a vedere quella storia che mi ha occupato la mente e il corpo per mesi e mesi, è stato anche liberatorio. È stato un po' come tornare a casa. In una casa in cui peró non ho mai vissuto, ma è come se l'avessi fatto.

Perchè si sa: chi vive leggendo vive mille vite.

Alla prossima pagina.

Il momento giusto

Quando è il momento giusto?

Il mio lavoro, l'attore, è in parte l'arte del momento giusto. Un bravo attore riesce a sembrare al posto giusto al momento giusto. Questo lo rende sia credibile che emozionante. Mi piace comparare l'arte della recitazione con quella sportiva, perché nel recitare vi è una componente di performance tipica dello sport, ma in una dimensione più umana, più empatica. L'arte dell'empatia.

Per esempio, per un calciatore, quando è il momento giusto di calciare la palla? Poco prima? Poco dopo? Diciamo che sono tutti bravi con il senno di poi… ma quello che conta è il momento. Quell'istante in mezzo ad altri mille istanti nel quale, se viene eseguita l'idea, l'emozione, il calcio al pallone, la realtà si trasforma, e un gesto diventa una lacrima nell'occhio di chi lo guarda, un urlo liberatorio, uno stupore indimenticabile.

Questo è vero anche nel processo creativo. Io sono un grande fan di Socrate. Per me, lui è stato superiore a tutti i filosofi dopo di lui, perché Socrate aveva chiaro quanto fosse pericolosa la parola scritta. Quanto fosse pericoloso definire i pensieri, forgiarli nell'eternità di una parola. La vita è mutevole, cambia come le maree, e anche i pensieri, persino le parole. In un certo senso, il vano tentativo di rimanere immortali con le parole si scontra con la realtà del creato, che si fa piuttosto beffa di tutto ciò che lasciamo ai posteri.

Dicevo di Socrate. Il pensiero. Il processo creativo. Io provo, almeno all'inizio della genesi di un'idea, a non scrivere nulla, proprio per non perdere il momento giusto. C'è un momento per fissare i pensieri, per forgiarli in modo inequivocabile, che non permette poi di tornare indietro. Ma fino a che il pensiero rimane dentro di noi, nella nostra mente, nel nostro cuore, non ha una vera e propria forma, siamo noi la forma di quel pensiero, ed esso muta e si conforma al nostro sentire. È vivo.

E quando si decide di mettere su carta un'idea, in un certo senso, la si uccide. Come le farfalle che diventano oggetti di collezione, le idee appuntate alla carta sono la forma primordiale di un oggetto destinato all'esibizione, più che alla personale ricerca.

E quindi grande Socrate, che è riuscito, in tutta la sua carriera di filosofo, a non scrivere nulla, almeno non ci è arrivato nulla, ma solo a plasmare la mente di coloro i quali hanno definito il modo di pensare occidentale per migliaia di anni a venire.

Ho uno strano rapporto con il mio inconscio. Mi fido di lui, e spero che lui si fidi di me. Quando ho un'idea, non la fisso, non la metto in un taccuino, la lascio riposare nel calderone dell'inconscio, conscio (si fa per dire) che sarà lui a restituirmi qualcosa di più morbido, più impastato e amalgamato, nel tempo.

L'arte è come la cucina: spesso, una cottura lenta produce sfumature di profumo e di gusto assolutamente uniche.

Alla prossima pagina.

Luci e Ombre

L'atto della creazione è un atto fatto di luce e ombre, di Ying e Yang. La luce, per sua natura, esiste solo se vi è ombra. Il processo che porta l'artista a raffinare la sua espressione fino a renderla immortale, che sia un testo, una statua o un palazzo, è un processo fatto di scelte, sacrifici e anche distruzione.

Dovete sapere che per un'idea buona, cento sono state sacrificate. Un mio maestro di regia mi diceva spesso di non affezionarmi alle mie idee. Gli americani hanno un termine per questo problema nella scrittura: "Kill your darlings", cioè elimina le cose che ti piacciono di più. Il motivo? Perché probabilmente sono quelle che mantieni nell'opera più per egoismo che per una reale necessità. Una sorta di vanità creativa.

Insomma, sono un essere pieno di contrasti. Penso che il segreto sia stupirli con un abbraccio. I nostri demoni, le nostre paure, sono il frutto proibito che va morso per essere finalmente scacciati dal giardino dell'Eden e affrontare il percorso che è la vita. L'arte trae forza dalle ferite della vita; l'ho spesso raccontato nelle pagine di questo diario.

Inoltre, il processo artistico spesso viene svolto in solitudine. Non solo l'artista scava dentro di sé per trovare perle di numeno da raccontare agli altri, ma l'opera stessa che crea diventa uno specchio e poi un oracolo.

Vi spiego cosa intendo: spesso mi capita di ritrovarmi davanti a un testo che ho scritto e leggerlo come fosse di qualcun altro. Se nel frattempo la vita mi ha cambiato, lo guardo con tenerezza, perché non vedo il testo, ma il Flavio che l'ha scritto. Ma quando mi capita di rileggere l'opera che sto realizzando, è molto diverso. Diventa il mio demone. È lei ad alimentare dentro di me paure e desideri. Tutte le luci e le ombre che ho proiettato al suo interno ora sembrano essere animate di vita propria, ed ecco perché l'arte che produco mi cambia.

L'arte è cura dell'anima. L'artista è, attraverso la propria opera, terapeuta di se stesso. E l'opera rimane alla fine del percorso come una manifestazione, un dono ai posteri del cammino ormai tracciato dall'artista . Una sorta di mappa emotiva, esistenziale e divertente da assaporare con calma.

Il concetto di Ying e Yang non è solo presente nell'arte, ma a ben vedere in ogni atomo di realtà. Dove vi è luce, vi è ombra. In noi, negli altri, nelle relazioni con gli altri. Siamo imperfetti, ed è in questa imperfezione che giace la necessità di continuo miglioramento, di continua crescita.

Dove vi è movimento, vi sono scelte. E dove vi sono scelte, vi sono rimpianti e rimorsi. Lo Ying e lo Yang è anche del tempo. Noi andiamo avanti, ma le nostre scelte no, ce le portiamo dietro per sempre. Anche questo, insieme all'amore, è un tema portante della saga dell'Anello: I demoni del passato…

A proposito di saga, le votazioni riguardo al tema della prossima sono concluse. Ha vinto (di poco) la fratellanza e subito dopo, la disillusione. Ora ho l'intenzione di lavorare su alcuni soggetti che integrino entrambe, e poi li condividerò con voi. E di nuovo piccola votazione. A quel punto avremo tracciato una direzione, un suggerimento che svilupperò in gran segreto.

Ma come sempre, sarete i primi a sapere tutto.

Alla prossima pagina.

Abbraccia la normalità

Chi ha paura della normalità? Io per molto tempo l'ho avuta. Qualcosa in me continuava (e a volte continua) a pensare che essere normali voglia dire non essere speciali. Ho il terrore di essere banale, in un certo senso. E penso che questo timore sia un motore del mio agire… quel desiderio profondo di dimostrare quanto io sia speciale, di far valere qualità che spesso la società fraintende: come la fragilità, la sensibilità, la sincerità.

Se vi fate un giro per i feed dei vari social network, scoprirete che raramente una persona (soprattutto se uomo) espone questi lati di sé. Vanno per la maggiore i maschi "Alfa", quelli che una nota pubblicità di profumo chiamava "Per l'uomo che non deve chiedere mai". Ovviamente questa frase è sparita dagli annali, perché chiedere non è una questione di educazione o di mascolinità, ma proprio di civismo.

Io sono uomo, e da quando sono piccolo ho dovuto avere a che fare con questa percezione (spesso autoimposta) che gli uomini vogliono dare di loro stessi agli altri: forti, duri, sicuri di sé. Ora si è aggiunto un universo di estetica, chirurgica e non, che fino a poco fa era relegata alle donne. Ma si sa, il mercato, per generare nuovi bisogni, crea nuove paure...

Non è diverso per le donne, anzi, lo so. Il genere femminile è, sin dai tempi dell'invenzione del primo mascara, molto più soggetto alla pressione dell'apparire "speciale" agli occhi della comunità di quanto l'uomo sia mai stato.

Si sa, i tempi cambiano, ma qualcosa, dentro noi esseri umani, rimane costante. È da lì che i classici traggono la loro linfa vitale, da quel motore che alimenta le nostre gesta, proprio come ai tempi degli antichi greci.

Cosa alimenta quindi questa mia paura di normalità? Da una parte, la realtà e i miei sogni che spesso fanno a botte. La realtà è una muraglia indistruttibile, che non guarda in faccia nessuno. E quando mi ci schianto, fa male. Parecchio.

Quindi, da una parte, vi è una fuga dalla realtà per paura di scoprire che in fondo io non sono quello che pensavo, o che speravo, di essere. Ma è insito in me anche il desiderio di appartenere alla comunità, di essere speciale, anche agli occhi degli altri. Di fare qualcosa per la società che mi dia un posto dove stare, un po' di amore. Da lì nasce la mia scelta di recitare, di scrivere, di emozionarvi.

Perché in fondo si torna sempre lì: l'amore. L'amore per se stessi, l'amore per un altro o un'altra, l'amore per il gruppo. Quel senso di appartenenza che tanto mi fa paura ma a cui, sotto sotto, anelo.

Per fare arte, per scrivere, per esprimersi sull'umano, è necessario andare alla radice, essere classici. Perché solo così, attraverso la ricerca delle radici dell'anima, si possono saltare le allucinazioni della contemporaneità e trovare i motivi veri delle azioni che ci muovono.

Abbiamo un continuo e inesauribile desiderio di sentirci amati.

Di questo parlo nell'Anello di Saturno. Ora è ancora presto per percepire la sua interezza, visto è uscito solo il primo volume, ma l'amore è uno dei temi fondanti della storia. L'amore nelle sue mille sfaccettature. I greci avevano varie parole per definirlo, perché ne vedevano le sfumature: Eros, Philia, Storge, Agape e molte altre.

Il mio viaggio è stato attraversare ognuna di quelle parole per comprenderla, nella speranza che chi deciderà di accompagnarmi in questo viaggio si ritrovi, alla fine, ad amare se stesso.

Perché, come dice Dalla in "Disperato erotico stomp": "Ma la cosa eccezionale / dammi retta / è essere normale."

Alla prossima pagina.

Anni 90, I valori perduti

Nel primo volume dell'Anello di Saturno esploro anni lontani, ma vicini al mio cuore: gli anni '90. Anni di cartoni animati su Italia Uno, i Cavalieri dello Zodiaco, Ken il Guerriero su La Sette, Mimi Ayuara, Hello Spank e mille altri.

Ma non solo: erano anni in cui non c'era il telefonino, né internet. Per sapere qualcosa, si utilizzava ancora la famosa enciclopedia in 12 volumi, il dizionario, l'atlante geografico. Il sapere era in casa, letteralmente, nei libri che stavano nelle biblioteche. Un sapere poco mobile, certo, ma che obbligava chi lo cercava a fare un passo avanti, a fare quella piccola fatica necessaria per poi apprezzare il risultato.

Mi ricordo ancora quando da piccolo mia madre mi diceva di andare a guardare nell'enciclopedia dopo l'ennesima mia richiesta di "cosa vuol dire questo?" Così ho imparato a cercare per indice alfabetico e, nel frattempo che leggevo la parola misteriosa, ne scoprivo anche altre, vicine. Un giorno, non ricordo esattamente a che età, mi venne voglia di aprire il dizionario a caso e leggerlo fino a incontrare una parola a me sconosciuta. La leggevo e poi lo richiudevo.

Nella parola vi è il pensiero, la possibilità di immaginare. All'inizio - non a caso - era il verbo. La vera conoscenza parte dalla conoscenza delle parole. E questo è qualcosa che Anna, nel libro, ha ben capito. Lei, così curiosa e desiderosa di conoscere il passato, le antiche civiltà, impara le parole, le lingue, che sono la chiave della conoscenza.

Ma gli anni '90 erano anche anni in cui i valori erano diversi. Non voglio assolutamente cadere nella retorica del "ai miei tempi era meglio", perché non è così. Il mondo è meraviglioso, e il suo incedere costante, a prescindere da noi, dagli anni che passano, è la manifestazione della potenza vitale che ci anima tutti.

La società muta, si sviluppa, va avanti. Cambiano le parole, gli usi, le abitudini e anche i valori.

Gli anni '90 erano anni in cui la domenica l'Italia si fermava per ascoltare il calcio alla radio nella speranza di aver fatto 13 al totocalcio. L'aggregazione sociale era molto più forte. Le tavolate e le adunate erano qualcosa di normale. I ragazzini crescevano frequentandosi fuori dal focolaio domestico. Vi era meno timore, da parte dei genitori, a lasciarli bazzicare le piazze fino a tarda sera.

I valori cattolici e cristiani erano molto più radicati. Il matrimonio e la messa erano parte integrante della maggioranza delle famiglie. Penso lo siano ancora, ma mi pare evidente che da quel punto di vista le cose siano cambiate parecchio. La multiculturalità porta con sé trasformazioni che spesso diluiscono le tradizioni.

Amo le tradizioni, penso che rappresentino l'apice della saggezza popolare. Sono riti che hanno superato la barriera del tempo, che sono sopravvissuti fino a noi perché veri, profondi. Ma il mondo va avanti, e certe tradizioni non sono più compatibili con i valori moderni.

Di questo parlo nella Divina Avventura. Il protagonista, Overton, si chiama esattamente come "La Finestra di Overton", un principio socio-economico che definisce questa finestra come il range di cose "accettabili socialmente". Questa finestra si muove nel tempo, proprio come Overton che continua ad evolvere, a prescindere da ciò che lo circonda.

Certe cose invece penso che non siano cambiate: la natura umana, l'amore, la paura, i desideri, quella dicotomia profonda che ci obbliga a cercare la felicità personale all'interno di una società fatta di mille altri come noi, a distinguerci senza però diventare eremiti. La nostra ricerca di un equilibrio.

Non a caso, i classici, siano essi inglesi, russi, francesi, greci, latini, italiani, sono ancora attuali. Chi mi legge conosce la mia posizione riguardo alla contemporaneità e alla classicità. Io sono per i valori antropologici che non decadono. Cerco di trovare, in questa nostra contemporaneità, dei valori universali. Nella Divina Avventura, è la ricerca della perfezione, il desiderio di appartenere a un gruppo, la religione come salvezza dal nulla di cui abbiamo paura.

E nell'Anello di Saturno, è l'amore, il destino, l'onere delle nostre scelte. Per chi ha letto il primo volume, questi temi ancora non sono emersi, sono solo abbozzati, come è giusto che sia. Ma vedrete che man mano che la storia si svilupperà, questi temi diventeranno dominanti e vi porteranno, spero, a farvi domande importanti sui rimorsi e i rimpianti.

Non smetterò di cercare di affrontare i valori e temi che ci spingono ad agire, che hanno spinto molti prima di noi e che spingeranno molti dopo di noi.

Come vi avevo anticipato, per la prossima saga voglio coinvolgervi. Quindi, ancora prima di condividere con voi una storia, voglio capire quali valori potrei affrontare.

Scegliete: vendetta, fratellanza, malattia, sacrificio, disillusione, redenzione o ossessione?

Alla prossima pagina

Elogio alla pigrizia

Ah… la pigrizia, l'ozio.

C'è chi dice che sia un peccato capitale, ma è davvero così? Bill Gates diceva, in una nota intervista: "Scegli sempre una persona pigra per fare un lavoro difficile perché una persona pigra troverà un modo semplice per farlo."

Mi tocca ammetterlo, sono fondamentalmente pigro. Sono così pigro che, pur di non fare qualcosa, mi sveno e mi stanco fino ad esaurirmi. Una pigrizia folle, la mia! L'intero mio processo creativo è la fotografia di questa follia. Sono disposto a passare ore e ore a modificare uno schema, un processo, pur di fare in modo che, "quando è fatto, ho finito di lavorre".

Penso che sia quello che succede quando un pigro incontra la necessità della perfezione. In lui scatta una forma di ossessione che porta la sua pigrizia a diventare un volano di produzione, un motore di desiderio di fare meno, facendo di più.

Da bambino, spesso sceglievo la strada meno faticosa per risolvere i problemi. Non di certo la migliore, almeno non a livello teorico. Ma lo era per me. Gli americani la chiamano "the path of least resistance", la strada con la resistenza minore. La strada facile.

In un articolo di tanto tempo fa, discutevo l'esistenza delle due porte, quella piccola e quella grande, e di come mia madre mi suggerisse spesso di optare per quella piccola, poiché era la più difficile e, quindi, dall'altra parte, avrei sicuramente trovato meno gente e più spazio. In un certo senso, il mio essere bastian contrario, indipendente, è la manifestazione di questa mia voce interiore, il mio desiderio di scardinare le etichette, di fare tutto "in modo diverso". Ma ciò non mi ha tolto quella che fondamentalmente è una parte integrante del mio essere: la pigrizia.

Quindi voglio fare le cose a modo mio, diversamente, ma senza faticare! Sono terribile! 😂

A parte gli scherzi, credo che questo binomio abbia prodotto in me una specie di corto circuito che tuttora mi alimenta: indipendenza, perfezionismo e pigrizia.

E ora rivedo queste qualità (o difetti, che dir si voglia) anche in mia figlia. Noto la sua tendenza a voler fare le cose a modo suo e un certo "penchant" nel scegliere la strada approssimativa, quella veloce e facile.

Io penso che siano delle competenze fondamentali. L'approssimazione è una forma molto evoluta di intelligenza, poco apprezzata negli ambienti accademici e scolastici, ma molto efficace nella vita reale. L'Italia ne è un esempio mondiale.

Poi, come al solito, dipende dove si applica. Ma io penso che, persino in ambiti altamente precisi e teorici, coloro che hanno la capacità di approssimare - e quindi di semplificare il pensiero - siano quelli che poi riescono a fare, grazie alla tecnica e alla precisione, un passo avanti.

Nel processo creativo è uguale. Come dice Zuckerberg in un suo famoso discorso a Stanford, le idee non nascono già fatte, si creano man mano che si sviluppano.

Ed ecco che l'approssimazione e la tecnica trovano, in questo processo di nascita e realizzazione, la loro resa ottimale.

Vi faccio una domanda: l'intuizione cos'è? Per me, è un'approssimazione, è un lampo di genio, un'idea, una cosa che è più visione che materia: un sogno. Poi, con l'ausilio dello studio e della conoscenza, piano piano quel sogno prende forma, si standardizza e si fa, nel tempo, sapere comune, nuovo tassello da aggiungere alla meravigliosa odissea dell'umanità.

I pigri magari non saranno produttivi come gli altri, magari non avranno quella capacità di essere grandi lavoratori ed esecutori, e spesso non sono neanche tanto precisi. Ma penso che una cosa la facciano meglio di tutti gli altri: sognare.

E ormai chi mi conosce lo sa: per me il sogno è il motore dell'azione che trasforma la realtà.

Alla prossima pagina.

Come nasce un'idea?

Di sabato cammino. Quando riesco e trovo il tempo, mi faccio delle lunghe camminate per Roma. L'antica Roma, quella cinta dal Tevere, che si espone in tutta la sua bellezza senza però esibirsi. Non ne ha bisogno. Roma è Roma.

Camminando, mi vengono idee. Idee per il diario, idee per nuove storie.

Questa settimana ho finalmente completato la prima stesura del volume cinque dell'Anello di Saturno. Per chi mi segue da tempo, è facile immaginare come questo sia importante. È una saga che ho scritto per molti mesi, a cui mi sono dedicato anima e corpo per un'infinità di ore. Ho rinunciato a molti progetti cinematografici per potermi dedicare a questa storia che, come vedrete a breve con il secondo volume, che esce il primo agosto, cresce sempre di più.

L'Anello di Saturno è scritto in cinque volumi, come fossero cinque stagioni di una serie TV. Ogni volume è poi suddiviso in dieci capitoli, che sarebbero gli episodi. E poi, ogni capitolo è composto da precisi movimenti per renderlo autonomo ma allo stesso tempo portare avanti la trama. Insomma, è un lavorone! Il motivo di tutto questo? Perché sono figlio dei miei tempi, e voglio dare al lettore la possibilità di fermarsi senza interrompere il flusso, proprio come in una serie. In questo modo, non solo la saga è facilmente pensabile in un'ipotetico adattamento cinema/tv, ma possiede anche un proprio ritmo interno che culla chi la legge.

Oggi voglio parlare delle idee. Ne parlo spesso, è un mio tema ricorrente. Per me le idee sono intuizioni che provengono dall'osservazione, dall'ascolto della vita e anche da un'apertura di mente e di anima. Tutto questo è necessario per accedere a quel mondo sommerso, nascosto, che Kant chiama Il Noumeno. Il luogo dei non luoghi. Il luogo oltre il fenomeno, che esiste, ma non c'è dato conoscere.

Le idee sono vita, nascono. Una buona idea non esisteva prima della sua nascita. È proprio questo che la rende così attraente e preziosa. Spesso mi sono sentito dire che "l'idea non vale niente, è l'esecuzione che vale." Questo discorso, ahimé, è la fotografia del tempo in cui viviamo. Un mondo in cui il valore non sta nel mistero della creazione, ma nella sua mercificazione. Questa società ci insegna che vale solo ciò che può essere venduto. Per fortuna in Italia, vuoi per le radici culturali profondamente umanistiche che abbiamo ereditato dai nostri avi, vige ancora il pensiero che vi sono cose che hanno valore a prescindere dal loro prezzo. La vita, la salute, l'amicizia, l'amore. I valori, quelli veri.

Quindi io, che sono un umanista esistenziale, non posso che dare la priorità alle idee. Le idee valgono, tanto. Tantissimo. Perché averne di nuove non è facile. Richiede pazienza, ascolto e osservazione. Qualità che in questo furore sociale nel quale viviamo, tempestati di rumori, guerre, nervosismi e compiti da portare avanti fino alla fine della nostra vita, è difficile avere.

Quindi, per prima cosa, per avere idee bisogna avere tempo! Eccolo, il vero valore della vita. Chiedete anche all'uomo più ricco del mondo se potesse scegliere tra tutta la sua fortuna o cento anni di vita (sana) in più e scoprirete subito quale è il vero valore dell'esistenza: Il tempo. Se immaginiamo una buona idea come la figlia del tempo perduto ad ascoltare il mondo, allora ecco che il suo vero valore emerge.

Ma quale folle sciocco investirebbe la propria vita in una tale impresa?

Presente!

Amo perdermi. Amo la crisi. Amo le idee. Ho scritto tanto, ieri riguardavo un po' tutti i lavori che ho prodotto. Tre testi teatrali, cinque sceneggiature, due videogiochi, due libri non pubblicati, e poi la Divina Avventura, e ora cinque volumi dell'Anello di Saturno. In mezzo a questo, poesie, lettere d'amore e imprese di ogni tipo. Alla fonte delle mie azioni, c'è sempre un'idea. A volte buona, a volte scarsa, e poi, segue la fatica della realizzazione, onere che mi prendo io, poiché sono pessimo nel trovare collaborazioni.

Chissà, forse con l'Anello cambierà, e troverò un produttore interessato a svilupparne la serie. Le vendite stanno andando forte, sono uno scrittore emergente, ma i numeri che sta facendo la saga sono davvero ottimi, quindi, procedo con cautela e quando la saga sarà finita, ed emergerà il valore della mia idea per intero, sono certo che l'Anello di Saturno troverà il suo produttore.

Rileggendo questa pagina, mi rendo conto di essere caduto in un vortice di flusso di pensiero. Penso che sia questa la vera natura del diario: la condivisione dei miei pensieri, a volte intimi, a volte generalizzati, sulla vita, sul mondo, sul mio percorso d'artista.

Ho una domanda: pubblicando due volte a settimana, forse potrei fare un articolo "libero" e uno "a tema". Per quest'ultimo, ci sono degli aspetti che vorreste che io affrontassi? Se me li scrivete nei commenti, prometto di metterli nel diario. E di scriverci sopra. Vorrei che questo giardino, ormai più che fiorito, diventasse una vera fonte di dialogo tra me e voi, ma non solo nei commenti, ma nel cuore del testo che scrivo ogni settimana.

Quindi scrivetemi e ditemi se volete che affronti un tema, e lo farò.

Alla prossima pagina.

La sicurezza in se stessi

Lasciate che vi sveli un piccolo grande segreto sulla recitazione: non conta il modo in cui dite qualcosa, conta la sicurezza con cui emettete il significato.

Oserei dire che questo non vale solo nell'atto recitativo, ma in ogni cosa della vita che riguarda la comunicazione. La sicurezza del gesto è ciò che definisce un grande ballerino o un calciatore; la sicurezza delle idee è il primo segno di visione, che governa la realizzazione. Senza di essa, la deriva è alle porte.

Insomma, la sicurezza in se stessi sembra essere una componente chiave della realizzazione. Oggi voglio affrontarla e comprendere se posso darvi qualcosa, se posso, attraverso la mia conoscenza della recitazione, offrire un punto di vista fresco su una questione antica come la storia dell'uomo.

Prima di tutto, che cosa è davvero la sicurezza in noi stessi? Essere sfrontati? Essere certi di avere ragione? Avere coraggio? Avere la forza di non ascoltare altro che noi stessi? A sentire questo elenco, si potrebbe pensare che l'arroganza sia il tratto distintivo del sicuro.

Nulla di più sbagliato.

Questo elenco è ciò che si osserva quando si vede qualcuno sicuro di sé, ma non sono queste le forze che lo governano.

Una volta lessi una domanda: "Come si fa a riconoscere qualcuno di più bravo di noi?"

Una risposta mi colpì: "Se vedi una persona che ha spesso successo, e a te sembra che sia fortuna, hai trovato qualcuno di più bravo di te." L'ho trovata geniale come risposta, perché in effetti, l'ignoranza rende tutto magico, e ciò che proviene dal metodo e dalla ricerca, sembra, agli occhi di colui che ignora, frutto del caso e della fortuna.

La sicurezza in sé è merce rara, ambita da molti. Penso che in tanti la simulino, partendo da ciò che hanno osservato in coloro che la hanno davvero. E così, ecco nascere, per via dell'insicurezza, l'arroganza, la determinazione cieca, la violenza della volontà.

Un paradosso, non trovate? La ricerca di perfezione, se affrontata esteriormente, porta all'imperfezione. Proprio come Kato nella Divina Avventura, coloro che non mettono in discussione sé e il mondo, si ritrovano, ad un certo punto della vita, ingabbiati dai loro pregiudizi, incapaci di evolversi, come fa invece l'allievo Overton, che pur venendo dagli abissi della terra, dal deserto, dall'istinto della materia, raggiunge vette superiori al maestro. Overton è un ragazzo bestia, che però porta con sé la perla della crisi.

La sicurezza in sé, quella sincera, proviene, credo, dall'accettazione di questa nostra imperfezione, ma non basta. Deve essere corredata da curiosità, conoscenza e ascolto. Ho avuto, nella mia carriera, la fortuna di collaborare con molti artisti considerati geniali. Ognuno di loro aveva una forma di sicurezza evidente, ma era spesso accompagnata da un'anima fragile e piena di demoni latenti. Anche loro, come ognuno di noi, vivevano il conflitto interno.

La sicurezza in sé non è la fine della nostra guerra interiore, ma l'accettazione che il percorso che spetta a tutti noi, quello verso la conoscenza, non avrà mai fine, e che il nostro passaggio in questa realtà è un mistero che mai verrà svelato.

Ecco, penso che accettare questo mistero sia il primo passo per avere, nei confronti di noi stessi e degli altri, quell'amore necessario ad essere sicuri.

Solo lo stolto non cambia mai idea, no?

Alla prossima pagina.

I piccoli piaceri della vita

"L'unico modo per liberarsi di una tentazione è cedervi."

Oggi inizio con questa frase, che quando lessi, mi colpì profondamente. Ognuno ha un piccolo piacere, una tentazione alla quale cede, perché la vita, in fondo, è anche questo: amare quel lato meno nobile, meno alto, ma pur sempre necessario. Il torbido che è in tutti noi ci rende normali, uguali agli altri.

Sono certo che, se la luce illuminasse tutte le nostre ombre in un colpo solo, ci guarderemmo con grande amore, perché ci renderemmo conto di quanto ognuno di noi sia fatto della stessa materia dell'altro. I nostri vizi, le nostre piccole debolezze, i piaceri della vita.

Io, per esempio, amo giocare a scacchi. A volte perdo tempo, mi dimentico del mondo, per rimanere immerso in una partita. È il mio piccolo piacere. Almeno, è quello che posso permettermi di condividere pubblicamente. Ognuno ha le sue ombre.

Fu mio padre a insegnarmi da piccolo. E, a ragion veduta, fu una manna. Gli scacchi, negli anni, non solo mi hanno donato una disciplina mentale, un modo di organizzare le idee, di visualizzare un piano, ma anche un modo per socializzare con altri ragazzi, con persone più anziane. Gli scacchi sono una lingua, una piccola scienza, un gioco che unisce.

Spesso vado a giocare al Bar del Fico, un posto nel centro di Roma, dove uomini di ogni estrazione sociale si incontrano per giocare sotto l'ombra del fico di Piazza del Fico.

In questo luogo, che reputo magico, è possibile vedere il miracolo che produce il gioco dei re. Come la livella di Totò, tutti i giocatori presenti, che siano guide turistiche abusive, senatori della repubblica, reietti appena usciti di prigione o impersonificazioni della grande bellezza (o persino attori famosi, come nel mio caso!), sono uguali davanti a quelle 64 caselle. E magicamente, ecco che ci si parla come fossimo fratelli, si ride con l'altro, non importa quanto diverso, non importa quanto distante.

I piccoli piaceri della vita: una camminata tra le bellezze romane, una partita al Bar del Fico, portare mia figlia a prendere il gelato e mangiarne uno anche io, anche se sono a dieta. Concedermi al vizio, di tanto in tanto, per ricordarmi che a volte, nella vita, il bello è tra le ombre del creato.

Nell'Anello di Saturno, ho scritto un momento, nel primo volume, in cui parlo proprio dell'oscurità, della notte e di quanto possa essere in un certo senso liberatoria. Il passo è quando Luca, deciso a seguire Anna in un'avventura ai limiti del legale, si ritrova a camminare per le strade di Anagni alle 4:48 del mattino. E in quel momento si rende conto di essere solo, in mezzo alle ombre, nella notte. Tesso le lodi dell'oscurità, perché quel velo che tutto nasconde rende anche le nostre ombre invisibili. Ed è come se, lasciandoci andare a quei piccoli piaceri della vita, anche le nostre ombre scomparissero, il tempo di un sorriso.

E poi, da bravi adulti, riprendiamo il cammino del controllo, i passi calcolati della razionalità che ci imponiamo per rimanere civili, per raggiungere gli obiettivi, per convivere in pace.

Alla prossima pagina.

La modernità Liquida

Oggi, in questa pagina, voglio scrivere a Janaina. Mi ha chiesto di parlare della modernità liquida, un tema profondo e interessante, al quale ho dedicato, tempo fa, una poesia che vi allego. Anzi, questa volta, ho anche deciso di leggerla e scriverla sulla pagina.

RETE SOCIALE

Profili liquidi,
Cangianti e statici.
Mentori di sé stessi,
Alunni del proprio eco.
Piroette digitali,
Gli occhi specchiati
Nell'oscurità
Dei loro display.

A volte, attingere a ciò che abbiamo fatto per approfondire, persino riscoprire parti di realtà, è un modo per aggiornare la nostra visione del mondo. Partendo da ciò che abbiamo prodotto, possiamo testare la validità dei nostri argomenti.

Io credo nel contenuto classico. Cosa intendo per classico? Intendo un contenuto che superi la barriera dell'essere "contemporaneo". Un testo classico parla agli uomini e alle donne di ogni epoca, poiché affronta i problemi essenziali della vita, in una forma che non è strettamente legata al momento presente, ma alla nostra natura.

Ogni uomo e ogni donna può rivedere se stesso in Ulisse, nel suo tentativo di tornare a casa. E cosa dire di Edipo, di Elettra, di Achille? E poi ci sono i classici del teatro: Amleto e il suo dilemma, Otello e la sua gelosia. Eterni, per sempre presenti.

Se da una parte vi è il classico, dall'altra parte vi è il contemporaneo, l'attuale, la moda. Quel perenne inseguire il presente per attraversarlo, per sentirsi a nostra volta legati a questo tempo che fugge e passa. I contenuti che parlano del mondo nel momento in cui viene osservato, che fotografano qualcosa che esiste davanti a noi, che affrontano paure e i desideri del momento.

Badate, non penso vi siano contenuti "superiori", se possiamo chiamarli così. È una questione di gusto. A volte ciò che è contemporaneo diventa classico. E spesso ciò che è classico, è anche contemporaneo.

La nostra società, digitale, cangiante appunto, malleabile più del vento, continua a inseguire la chimera del presente. I social network ci chiedono di essere attuali, veloci come non mai. Superficiali, in un certo senso. Anche perché penso che sia davvero difficile scavare nel profondo dell'anima con 180 caratteri.

Da questa velocità di pensiero e produzione scaturisce una fluidità di contenuti e di forme. Si passa dal testo all'immagine, dal suono al video, senza soluzioni di continuità.

E questo non vale solo per la forma, ma anche per il contenuto. Siamo in una società liquida, in cui la famosa finestra di Overton (che definisce ciò che è accettabile) si muove giornalmente, continuamente. In cui la sessualità si è fatta liquida, indistinta. In cui persino i credo e le ideologie non riescono a sopravvivere a questo asfaltamento del bianco e nero. L'Annullamento della dualità.

Eraclito sarebbe confuso, si potrebbe dire. Dov'è finita la sua meravigliosa dicotomia? Il bene e il male? La fame e l'assenza di fame? La sete e l'assenza di sete? Le cose esistono perchè hanno un loro opposto.

Una società così liquida ci mette davanti a un paradosso di importanza generazionale: che cos'è la realtà? È ciò che decidiamo noi, oppure esiste a prescindere dal nostro desiderio, dalla nostra mente?

Come sempre, non ho risposte, ma qualcosa mi suggerisce che questo mondo, questa realtà che ci circonda, sia ben più importante di qualsiasi nostro credo, qualsiasi nostra regola, e anche di qualsiasi desiderio.

Alla prossima pagina.

L'amicizia, valore supremo

L'amicizia, per me, è una forma d'amore nobile, un amore che non necessita di essere alimentato dall'Eros. Ho perso tanti amici e questo vuol dire che ne ho avuti tanti. Ma non sono mai stato uno "da branco", come si dice. Anzi, non mi piacciono proprio le dinamiche che si sviluppano nei branchi. Le trovo odiose, ripugnanti quasi. A me piace l'amicizia forte, il legame di pochi, che non si estende in area, ma si addentra nelle viscere dell'anima altrui.

Forse è per questo che da giovane facevo fatica a diventare amico degli altri, perché in un certo senso ricercavo nell'altro quello stesso desiderio di conoscenza profonda, di ascolto, di isolamento, che richiede quella qualità di legame.

Io sono uno di quelli che alle feste se ne sta accanto al muro, in attesa di quella persona con la quale parlare e, nel frattempo, osserva il mondo oppure si perde nelle proprie idee. Faccio una fatica tremenda a fare amicizia; sicuramente questo è dovuto alla mia riservatezza. Le mie origini celtiche, questo mio essere tutto sommato austero, di certo non aiutano. Rischio di sembrare arrogante. Forse lo sono, chissà. Di certo non amo discutere di cose di poco conto. E questo mi rende probabilmente antipatico ai molti.

Ho imparato però, nel tempo, ad ammorbidirmi, a sorridere e a concedermi un momento di sana leggerezza. Ecco, forse è proprio questo che mi manca: la leggerezza. Non a caso, la amo nella mia compagna e la adoro in mia figlia. Questa leggerezza, questo pensare scivolando, senza pensare, per i minuti della giornata, mi dona una tranquillità che non riesco a darmi.

Ho avuto molti amici, ma li ho persi. Vuoi per le distanze, per le incomprensioni, per il mutamento che la vita impone a tutti noi. Si cresce, si cambia lavoro, idee, desideri e ci si divide.

Spesso, quando poi rivedo amici di tempo fa, ricado in quelle situazioni che chiamo i "ti ricordi?". Non essendo più vivo il filo del presente, l'amicizia si ciba di quei meravigliosi ricordi che hanno alimentato un presente ormai passato. "Ti ricordi quando abbiamo fatto questo e quest'altro?" e giù a ridere di noi stessi, di ciò che eravamo.

Ma anche se è vero che il presente non permette di essere sempre legati, so che questi amici, nel caso ne avessi bisogno, mi aiuterebbero. E so che anche loro sanno che sono sempre qui, chiuso nella mia torre d'avorio, proprio come allora, disponibile a tutto per aiutarli. Proprio come allora.

E voi, come vivete l'amicizia? Quanto conta nella vostra vita? Siete riusciti a coltivare amici mai persi?

Alla prossima pagina.

Come affrontare la solitudine

In una poesia nominata "Piangente", parlo della solitudine. Nell'Anello di Saturno parlo di solitudine. Persino nella Divina Avventura. Nel rispondere a questa richiesta da parte di un ascoltatore, nel cercare di capire come affronto la solitudine, mi sono reso conto che i miei protagonisti sono esseri soli, emarginati, anime vaganti alla periferia del mondo. Ma badate, non sono infelici, solo soli perché privi di un riconoscimento, di un legame con il mondo che li possa far sentire appartenenti a un gruppo.

Io non appartengo, rifuggo dalle classificazioni, dalle bandiere, dal tifo. Penso che nell'eccesso di appartenenza si annidino forze pericolose.

Si dice che quello che lo scrittore scrive, lo scrittore è. Forse è così. Forse sono solo. Fondamentalmente lo siamo tutti in fondo, no? Pavese diceva: "Si nasce e si muore da soli.". Forse si vive da soli, anche, ma cullandoci nell'illusione che i legami che sviluppiamo con gli altri ci tirino davvero fuori dalla solitudine.

Molto tempo fa ho imparato una cosa che mi ha sconvolto la percezione delle cose. Sapete che nulla si tocca? In realtà, ogni particella ha dei campi magnetici che le impediscono di toccare le altre particelle elementari. Se persino gli elementi fondanti del creato sono soli, come possiamo noi non esserlo? Questo mondo nel quale viviamo sembra essere una tempesta di sabbia, i cui granelli non si toccano mai.

Eppure, eppure…

Eppure l'amore. Eppure l'amicizia. Eppure l'odio, l'invidia, la gioia e la paura.

Tutte queste emozioni sono la prova che non siamo soli. Che siamo legati in un certo modo a quello che ci circonda. E anche se gli atomi sono isole fluttuanti perse in un cosmo di nulla, noi, la nostra anima, se vogliamo chiamarla così, percepisce oltre i burroni, oltre le barriere, l'esistenza dell'altro.

Deleuze diceva che siamo deserti che parlano ad altri deserti, io aggiungo che in quel contatto metafisico ci irrighiamo a vicenda. Quei ponti ci collegano con il resto del mondo e ci permettono di sentire che siamo parti di un grande sistema, ben più grande persino della nostra immaginazione.

Il cosmo, la realtà, la vita sono concetti immensi, impossibili da abbracciare. Vanno ascoltati, come si ascolta il vento. Vanno amati come si ama la luce del sole in una mattina di maggio. Vanno accettati, come la morte. Solo così può essere affrontata la solitudine, con la certezza che essa non è altro che un'illusione.

Non siamo mai soli, abbiamo i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri bisogni. E poi, i sensi, i ricordi, le voci degli altri che ancora vivono in noi. Noi siamo il frutto di generazioni precedenti, in noi vivono altre mille antenati, e non solo: tutti siamo rappresentanti della vita, in continuo mutamento, alla ricerca di un legame, forse. Di un senso.

Personalmente, la solitudine è un'amica con la quale passo molto tempo. Mi piace, la amo. Amo quella sensazione di libertà che mi procura. Ma sono anche consapevole che questa valle nella quale mi crogiolo mi ingobbisce, mi ruba al mondo, mi attira nelle viscere della stasi. La solitudine è il momento in cui creo, in cui entro in contatto con me stesso, in cui volo e mi lascio andare all'immaginazione, ai desideri.

Ho paura della solitudine, ma non voglio fuggire da essa: perché la amo troppo.

Alla prossima pagina.

L'empatia

L'empatia. A volte mi chiedo se averne sia una qualità oppure un difetto. "Il giusto" ecco quanto uno dovrebbe averne: la giusta empatia per non soffrire troppo e per non essere ciechi davanti alle ingiustizie della vita, del destino.

Quando ero piccolo, ricordo che soffrivo tantissimo nel vedere persone martoriate dalla vita: i portatori di handicap, le sedie a rotelle: ingiustizie che non riuscivo proprio ad accettare. Le trovavo - e lo trovo tuttora - così ingiuste.

Perché loro sì e io no? Perché sono stati puniti? Esiste davvero un giusto e uno sbagliato in questa vita? Tutte domande, mi pare ovvio, che si fa chi prova empatia per coloro che lo circondano. Ma l'empatia non è solo emotiva, esiste anche quella cognitiva.

L'empatia cognitiva è la capacità di riconoscere i punti di vista altrui, di essere aperti davanti alle differenze che ci distinguono e che fanno dell'umanità la barriera corallina delle idee. E in questa società, che sembra - a suo dire - così volta alla diversità e all'inclusione, ne vedo poca, di empatia.

Le differenze vere non sono quelle che ci piace vedere negli altri. Le differenze vere sono quelle che non sopportiamo, che troviamo orribili, inaccettabili. Ed è su quelle differenze che dovremmo arricchirci, parafrasando Paul Valery. E in tutto questo marasma di inclusività, mi sembra a volte che si perda la nozione che tutti - anche quelli davvero diversi - hanno il diritto di esprimersi. Io amo la libertà.

E nella creatività? L'empatia è uno strumento che permette di crescere per osmosi, che ci da la possiblità didi nutrirci di ciò che ci circonda in un modo costruttivo, aperto e libero. L'empatia artistica, la capacità di comprendere un poeta, un pittore, uno scrittore, è una forma più alta - se posso osare dirlo - di empatia, che fonde sia il nostro lato razionale che quello emotivo. Un'empatia olistica che rasenta, quando vissuta davvero, uno stato vitale, un'apertura totale nei confronti del mondo.

Mi ricordo di un film con John Travolta, Phenomenon, in cui lui - un uomo normale - viene diagnosticato con un tumore al cervello. Comincia a essere profondamente intelligente, a risolvere equazioni impossibili anche per i computer, e poi, alla fine, si ferma davanti alla bellezza degli alberi che respirano con il vento. Il suo punto più alto è stata l'empatia.

Mi viene in mente anche il sacchetto di plastica di "American Beauty" che vola, semplicemente, preso dalle correnti ascensionali. L'empatia è quella porta che ci dà l'occasione di intuire la bellezza che c'è nel mondo, di vedere - anche nel dolore - la possibilità di una rinascita e anche nella perdita, un nuovo inizio.

Concludo questa mia piccola parentesi con una forte sensazione che mi porto dentro: Io credo che tutti gli esseri umani siano empatici per natura - a parte, chiaramente, i casi patologici - ma purtroppo, l'empatia è come un muscolo. Se non viene allenata, si incancrenisce, si riversa dentro di noi, portandoci a dimenticarci degli altri, rendendoci schiavi di fama, gloria e potere. Di noi stessi.

E come si allena l'empatia? Con l'arte, con l'amore, con la curiosità.

Sì, nel mondo ci vorrebbe più empatia.

Alla prossima pagina.

Il dolore è benzina

Il ricordo della morte di mia nonna, la spiaggia, il silenzio, mio fratello, il tempo che passa. Esperienze che, anche se difficili, ci formano e ci arricchiscono. E dopo averle registrate, le elaboriamo e le abbracciamo.

Ricordo il funerale di mia nonna. Non perché l'ho vissuto, purtroppo non ho avuto la possibilità di farlo, stavo girando. Ma ricordo gli ultimi giorni della sua vita. Arrivai a Cecina a fine marzo, sapendo che non le rimanevano che pochi giorni. Già da tre giorni non rispondeva più e il suo letto era diventato un luogo di addio per i vivi. Un sepolcro.

Un tempo, si nasceva e si moriva in casa. E forse non era poi così male.

Arrivai e c'erano tutti. Mio zio, mio fratello, mia sorella, mia madre. Mancava solo mio papà - il figlio - che arrivò poco dopo, anche lui sommerso di lavoro, era riuscito a venire giù da Milano.

Nonna se ne andò poco dopo che suo figlio l'aveva salutata.

Quel pomeriggio, io e mio fratello - non siamo cresciuti insieme - andammo in spiaggia. Le spiagge della Toscana sono strane. Sono tristi. Hanno quelle piccole alghe a forma di palline pelose marroni e ci sono tronchi secchi che spaccano la sabbia. Da una parte, un mare ancora selvaggio; dall'altra, le pinete.

Quel giorno, il cielo era bianco, c'era vento. Ma io e mio fratello, nel silenzio, camminammo a lungo, fianco a fianco. Successe qualcosa di magico. Decidemmo di spostare un tronco, insieme, per poterci sedere comodi a guardare il mare. In allegra armonia, proprio come un fratello maggiore e uno minore (io), spingemmo il pesante tronco verso il bagnasciuga.

Mio fratello si accese una sigaretta, chiedendo l'accendino a un gruppo di giovani poco più in là. Mi aveva chiesto di andarci io. Ma mi vergogno ancora ad andare a chiedere le cose alle persone che non conosco. Ero fatto così e lo sono tuttora.

Pochi anni dopo, mio nonno raggiunse l'amore della sua vita, chissà dove. La morte di nonno fu più dura, gli ero legato in modo speciale. Gli volevo proprio tanto bene. E piansi, ma non abbastanza.

Un giorno, mentre giravo "Cenerentola", il regista mi chiese di fare una scena con una forte disperazione. Era passato poco tempo e il dolore che mi portavo dentro per mio nonno e era ancora lì, dentro di me. Sentivo che aveva bisogno di uscire, che doveva essere estirpato dal mio cuore. E così feci. Piansi. Aprii i rubinetti. Lo feci così tanto che non riuscii a chiuderli per alcune ore. Il pianto convulso prese il meglio di me, e a fatica girai la scena (quella quando arrivo nel teatro per raggiungere "Cenerentola" da bravo principe azzurro.) e tutto andò per il meglio.

Il dolore è benzina per l'artista. E l'arte è la sua cura. Un circolo virtuoso che vale mille sedute di terapia.

Alla prossima pagina.

La gelosia nell'arte

Non sono geloso. Non lo sono né delle cose né soprattutto delle persone, perché in me vive forte un credo che difficilmente abbandonerò: siamo tutti nati liberi e il rispetto sta proprio nel donare, anche (e soprattutto) a coloro che amiamo, la libertà di fare ciò che desiderano.

La gelosia, in fondo, è quel virus che si insedia tra le pieghe del nostro ego e che vorrebbe controllare gli altri. È un desiderio di dominio sul mondo. È sete di potere. E a me, il potere, non solo non interessa, ma proprio mi ripugna. Sono un indipendente nel cuore, l'unico potere che ho è su me stesso (e anche lì, il Destino avrebbe da ridire; chi ha letto "L'Anello di Saturno" può capire). Insomma, ho una repulsione naturale per la gelosia.

Ma anche essendo così, a volte, qualcosa dentro di me vibra quando scopro di aver perso un casting a favore di un altro attore, o anche in altre sfere, per esempio, quando ero al Salone di Torino, dopo aver fatto un bellissimo firmacopie. Peraltro vi lascio un piccolo video (per chi mi ascolta da Spotify, lo trovate su flavioparenti.com nella sezione "Diario D'artista", potrete vedere un po' di firme).

Insomma, dopo aver completato il firmacopie - che, a onor del vero, è stato un discreto successo, c'erano tante persone, tutte stupende - sono uscito e sono passato davanti al firmacopie di Felicia Kingsley.

Che dire, sono rimasto molto colpito da tutti coloro che aspettavano diligentemente in fila. Una fila lunga, lunghissima! Centinaia di ragazze e ragazzi che, libri in mano, aspettavano di incontrare la loro beniamina. Il mio primo pensiero è stato "mamma mia quanti…" e poi ho pensato a me. Inevitabilmente mi sono anche messo a paragone. Non è durato molto, forse mezzo minuto, anche meno. E poi la gelosia è sfumata in desiderio. Quello di riuscire, un giorno, a fare come lei, come Felicia Kingsley. A scrivere, scrivere, scrivere fino a che non venga riconosciuta la qualità e il valore della mia opera attraverso il pubblico.

Ora, a giorni di distanza, posso dire che quella fila mi ha ispirato a fare meglio, a comprendere come ha fatto quella signora a raggiungere quel livello.

Tutto questo per dire che se siete artisti, ma anche se non lo siete, non abbiate paura della gelosia, è un sentimento umano, naturale. Ma sappiate renderlo costruttivo, fate in modo che quella sensazione proiettata sull'altro si specchi in voi, e vi imponga di elevarvi. E chi, se non coloro che fanno meglio di voi, possono aiutarvi a fare meglio?

La gelosia è la bussola che vi dice dove dovreste andare. Dove la vostra curiosità darà i migliori frutti. Studiate coloro che vi rendono gelosi, cercate di capire l'origine del loro successo, cercate l'ispirazione, il mutamento, la trasformazione.

Nell'arte, la competizione non esiste. Esiste nel mercato, nelle vendite, nei numeri, ma non nell'espressione. Anzi, in quel caso, è l'unicità della voce che rende l'artista interessante. Ed ecco un sottile paradosso nel quale l'artista è costretto a rimanere in equilibrio. Autenticità della propria voce, ma anche studio e assorbimento di tecniche altrui. Come diceva Pirandello, uno e centomila. Perché Il "nessuno" lo lasciamo a Ulisse, perché nessuno è "nessuno". Persino nella più profonda delle solitudini.

E voi, avete mai subito la gelosia? Come l'avete affrontata?

Alla prossima pagina.

Evviva l'arte!

Oggi voglio condividere un'aneddotto di tradimento che mi aprì gli occhi sulla "follia" che la recitazione - e l'arte in generale - impone a coloro che la vivono.

Prima di tutto, recitare cosa significa? È una domanda difficile, che non ha una risposta univoca, ovviamente. Recitare è parlare e agire in maniera interessante e credibile. E qui si aprono mondi, metodi, visioni su come si debba fare per essere "interessanti" o "credibili" (anche perché parlare e agire, diciamolo, sono elementi comprensibili: é sufficiente essere intellegibili e muoversi con equilibrio e destrezza, cose che si imparano piuttosto facilmente).

Dunque, rimangono due misteriose variabili: interessante e credibile. Non farò una dissertazione su come raggiungere questi due punti, perché, come ha detto Dario Fo – e con lui molti altri – i metodi per arrivarci sono tanti quante sono le strade che portano a Roma. Ma certamente una componente fondamentale del percorso è la volontà dell'artista di perseguire il desiderio di far proprio qualcosa che proprio non è: assorbire, modificarsi, trasformarsi.

L'arte richiede mutamento. E per mutare davvero, per essere davvero altro da sé, è necessario applicare la trasformazione in ogni atomo di tempo, in ogni briciola di gesto. E potete immaginare cosa comporti questo quando si parla di recitazione!

Per esempio, "parlare in dizione", cioè usare le "e" e le "o" giuste, con l'accento giusto, non è solo una questione di "sapere come si fa". Ma soprattutto di "fare come si sa". La dizione va applicata nella vita di tutti i giorni, quando si chiede il conto al ristorante, quando si chiede l'ora ad un amico, etc... E saprete di esserci riusciti quando – perso ogni controllo durante una litigata – parlerete con gli accenti giusti. Ecco cos'è l'arte: influenzarsi così tanto da non doverci più pensare. Usare la memoria del corpo e non quella della mente. La postura, la voce, la respirazione, la dizione sono tutti elementi della recitazione che vanno assorbiti nel loro profondo per essere efficaci in scena.

Perché in scena, signori, non si pensa: in scena si vola.

Il mio aneddoto - che ora arriva - vi farà comprendere a che punto ho applicato questa metodologia nella mia vita...

Un giorno di molti anni fa, quando ero ventenne, venni a scoprire da un mio amico il tradimento della mia compagna dell'epoca. Erano le tre di notte e il mio amico, forse comprendendo quanto in fondo io soffrissi pur senza sapere, decise di aprire il vaso di Pandora. Era una storia d'amore che reputavo seria, io e lei stavamo insieme da alcuni anni – che a quell'età sono decenni – e la notizia mi travolse. Fu proprio un'onda d'urto che mi prese in pieno volto. Uno schiaffo divino che mi ribaltò il cuore. Mi alzai, pensante, trascinando quella notizia verso la cucina, quando il mio corpo cedette sotto il peso. Caddi proprio in ginocchio, cercando di comprendere cosa mi succedeva. Ero davvero caduto in un piccolo baratro.

Ebbene, sapete cosa mi è successo? Una parte di me, un "agente" sempre presente, disse: "Wow, com'è drammatico questo momento. Tienilo, ricordalo, che potrebbe esserti utile." e registrò ogni cosa, ogni movimento, ogni sensazione, ogni pensiero, in modo tale da arricchire la mia valigia di emozioni.

Sono certo che questo succede a tutti gli artisti, in forme diverse: ma l'arte non ci abbandona mai, è una compagna che si colloca dentro di noi e registra emozioni, sensazioni, colori, immagini. Tutto ciò che i nostri sensi – e non – registrano. É una lente per la vita.

E poi, come per magia, nell'atto della creazione, ecco che la restituzione si fa bellezza poetica, espressione alta, illuminante che marcia sopra la polvere del tempo.

Evviva l'arte.

Alla prossima pagina.

Come gestire il burnout

Per chi non sapesse cosa fosse il burnout, in sostanza è quel momento in cui tutte le fatiche esercitate verso un dato obiettivo diventano così grandi e così pesanti da impedire alla persona di continuare. Questo può portare a moltissimi problemi: depressione, crolli psicologici, abbandono degli obiettivi. Insomma, è qualcosa di brutto, e molti - se non tutti - ne sono soggetti. Più degli altri, sicuramente coloro che hanno tendenze compulsive e ossessive, che puntano alla loro direzione come un pitbull che morde la carne, incapaci di fermarsi, di darsi pace fino a che non saranno riusciti nel loro intento.

Ebbene sì, lo ammetto, sono uno di questi. Chi mi conosce già lo sa: faccio tanto, anzi, faccio troppo. Ogni volta provo a ricordarmi che non dovrei, che alle nove di sera è venuto il momento di fermarsi, di smettere di rispondere, di scrivere, di "lavorare".

Ecco qual è il mio problema: ho molto raramente la sensazione di lavorare. Per me, scrivere, recitare, rispondervi, tuffarmi in una nuova passione, studiare, sono elementi fondanti della mia vita. Così tanto che non li percepisco come un peso, e quindi mi sovraccarico senza nemmeno rendermene conto.

Pensate che addirittura mi scordo di bere. Per ore, se non giorni. A 23 anni, mentre recitavo "Galois" al teatro stabile di Genova, ebbi le coliche renali per mancanza di liquidi ingeriti. Ho scoperto che mi manca la lampadina che si accende quando il mio corpo necessita di idratarsi. Questo perché mi perdo totalmente nelle mie idee, nei miei pensieri, nelle mie passioni.

È una cosa bellissima, e mi sento così fortunato a poter esercitare ogni giorno la mia arte, in un modo o in un altro. E non potrei se voi non foste qui al mio fianco. Questo mi dà forza, ma anche - è inevitabile - mi assorbe energia e tempo. Sento la necessità di far sentire che ascolto, che ci sono e a volte esagero. Lo dico per me. Dovrei davvero imparare a chiudere i rubinetti, ad isolarmi. Ma come faccio? Ecco che alle 23:54 mi sovviene un'idea per una storia, oppure un nuovo metodo per il sito, eccetera. Sono continuamente assalito da me stesso…

Quindi, come faccio? Vorrei chiudere questo articolo avendo trovato qualcosa, una miccia, una piccola pepita che mi possa permettere di evitare il burnout. Una volta mia madre mi disse che il suo problema era che "era troppo romantica nel suo lavoro", che vorrebbe dire che prendeva tutto a cuore.

Non importa se è un lavoro d'ufficio o un lavoro creativo, è importante staccare. E per farlo, è importante inquadrare l'opera artistica come un lavoro. Retribuito, con degli orari. Perché sennò lo scotto da pagare è alto, altissimo: disidratazione, asocialità, depressione. Che poi, a pensarci bene, sono tratti quasi distintivi dell'artista.

L'artista non scinde il proprio moto creativo dalla propria vita e così facendo, a volte cede alla passione che si fa ossessione, desiderio violento alimentato dal fuoco sacro dell'arte.

E ci vuole acqua per alimentare quel fuoco sacro. Acqua e pazienza. Proprio come le piante.

Ecco, mi sento un po' come Luca nell'Anello di Saturno: una pianta sradicata non dalla vita, ma da sé stessa, in perenne ricerca di mutamento, di trasformazione. Sono come una trottola che balla incessantemente, fino a che, proprio come quel giocattolo, finirò la mia danza in movimenti compulsivi e agitati, per poi addormentarmi.

Mi piacerebbe riuscire a imparare a rallentare dolcemente... ma una trottola che si ferma tranquilla voi l'avete mai vista?

Ora vi scrivo con la bottiglia d'acqua vicino a me. Tra poche settimane ricomincerò "Il paradiso delle signore". Non vedo l'ora, perché il "lavoro" mi restituisce ordine, mi obbliga a dormire, a riposare, a prepararmi.

Dopo mesi di follia creativa, di scrittura incessante dell'Anello di Saturno, nel quale purtroppo non sono riuscito a completare del tutto l'ultimo volume (sono a metà), sarò costretto a darmi pace, a ritrovare l'equilibrio che la recitazione mi impone.

Non vedo l'ora.

E voi, come gestite il burnout? Avete trovato metodi personali che funzionano? Vi aspetto nei commenti.

Alla prossima pagina.

Come amarsi

Quando ho scritto una pagina riguardante l'arte e la bellezza, affermavo che l'importante, per alimentare lo spirito creativo, è circondarsi di cose amorevoli, da amare e che ci amano. Lo ribadisco: penso che sia davvero la prima cosa da fare per una sana igiene dell'anima. È essenziale scacciare via coloro che ci fanno essere la versione peggiore di noi stessi e abbracciare chi ci rende felici, rispettati e amati.

Tuttavia, una domanda mi colse impreparato: «Ma come faccio ad amarmi?». È una domanda potente, tragica, struggente. Colui che si pone questa domanda si trova in un oceano di caos, dal quale è difficile persino scorgere l'orizzonte, tanto alte sono le onde che lo travolgono.

Io sono un ragazzo fortunato, come direbbe Jovanotti, cresciuto tra le braccia amorevoli di due genitori a cui devo tutto. Mi hanno guidato, indicandomi i limiti con la severità che solo l'amore può esprimere: con un sorriso e una carezza, intransigente, ma per il mio bene. Per molti anni sono stati il mio rifugio e lo sono ancora, quando, a volte, affronto delle crisi, sia riguardo a scelte di carriera sia a sconvolgimenti emotivi. In quei momenti, vado da loro. E loro, inevitabilmente, mi ascoltano e mi rispondono.

A tutte le mie domande, da piccolo, mio padre rispondeva assiduamente, mentre mia madre mi spingeva a interrogarmi e a vedere il mondo attraverso le lenti dello scetticismo.

Dunque, alla domanda «come fare ad amarsi», non ho, purtroppo, una risposta. E non me la sento di darne una. Sarebbe banale, priva di vera sostanza. Potrei dire: «Fallo e basta». Perché è così: l'amore è una scelta, un atto di volontà primitivo e originale. Nell'Anello di Saturno, è addirittura l'amore che fa nascere il nostro mondo. In questa cosmogonia, siamo tutti figli dell'amore. E quindi, in un certo senso, siamo noi stessi amore.

Ma a volte succede che persino l'amore non ama sé stesso. Perché ha paura, teme l'ignoto, teme sé stesso, teme il dolore che l'amore può scatenare. Perché amare non è solo piacere e gioia. Amare a volte significa rinunciare, soffrire, lottare, vivere.

Anche a me capita di non amarmi a volte, di odiarmi quasi, quando sbaglio, quando non sono all'altezza, quando esagero, quando non agisco e so che dovrei farlo. Succede. Siamo tutti esseri fallibili. E forse, amarsi è proprio questo: accettare di non essere perfetti.

Alla prossima pagina.

Esiste la sincronicità?

Il diario d'artista è tornato! Mi sono concesso una pausa, offrendovi i primi capitoli dell'Anello di Saturno che oggi, finalmente, esce. Auguro quindi a tutti voi che lo avete preordinato una splendida lettura e attendo con ansia le vostre recensioni.

E ora... il diario.

Oggi voglio affrontare un tema che mi è stato richiesto su Spotify: non so se lo sapevato, ma si possono fare delle domande alla fine dell'ascolto del podcast, e io, come sapete, leggo tutto! Mi è stato chiesto di parlare di sincronicità, di tempo, di vita e morte. Insomma, un argomento leggero e felice, perfetto per inaugurare una nuova stagione del diario! Scherzi a parte, sono temi affascinanti e soprattutto pertinenti all'Anello di Saturno; ho quindi deciso di fare un piccolo salto nel mondo del Destino.

Prima di tutto, è importante chiedersi cosa sia realmente la sincronicità. È un concetto di Jung che si riferisce a quelle coincidenze apparentemente non causali, come se tutto fosse collegato. Jung sosteneva infatti l'esistenza di una connessione tra il mondo psichico e quello fisico, come se ci fosse qualcosa che "ordina" il mondo, oltre lo spazio e il tempo. Nel libro, lo chiamo Destino, e addirittura gli do la parola; è lui che narra di coincidenze, belle e brutte, con le quali trama per sconfiggere l'amore di Luca e Anna. Nel mondo dell'Anello di Saturno, sopra le nostre teste avviene una lotta invisibile tra caos e ordine, tra amore e morte. Ma questo succede anche qui, nel nostro mondo?

E qui entra in gioco la sincronicità, e soprattutto, entra in gioco il credo di ognuno di noi.

Io credo nella sincronicità? È una domanda difficile, alla quale però mi sento di rispondere di sì.

E per dimostrarvelo, vi racconterò un aneddoto incredibile riguardante proprio la saga. Come sapete, tutto inizia ad Anagni, dove fu edificata una famosa cattedrale nel 1072. Nel corso della saga, gli eventi porteranno i protagonisti al tempio di Sakya, in Tibet. La scelta di questo tempio non fu casuale; ma piuttosto dettata dalla necessità di trovare una fonte originale di cultura orientale. Facendo le mi ricerche alle due di notte, scoprii quel monastero. Fu li che nacque una delle più grandi scuole di buddismo: il buddismo tibetano. La cosa più incredibile fu quando iniziai a fare ricerche su Sakya nel dettaglio. La prima pagina che uno sfoglia è wikipedia, e li, con un colpo d'occhio, scoprii una cosa che mi bloccò il fiato: Il monastero di Sakya fu fondato nel 1073. Esattamente un anno dopo la cattedrale di Anagni! Ora ditemi voi quali sono le probabilità che due templi, distanti 8000 chilometri in linea d'aria l'uno dall'altro, in due luoghi così remoti del pianeta, siano stati fondati a un anno di distanza? Per me questo è stato un segno. E quando vedo segni, mi dico che sto facendo il percorso giusto.

Nella saga scoprirete che questi due "templi" sono collegati eccome, io non ne sapevo nulla, eppure, eccoli qui, insieme.

Si può dire che questa sia sincronicità? Chi lo sa. A me piace pensare che sì. Voglio immaginare che tutto ciò rientri in quella magia che avviene nel momento della creazione, in cui l'artista, per chissà quali vettori misteriosi, si collega a sfere che non vediamo, ma forse percepiamo e unisci puntine che sembravano sconnessi.

E voi, avete mai avuto un episodio di sincronicità così evidente da far dubitare anche il più scettico? Vi aspetto nei commenti.

Alla prossima pagina.

L'Anello Di Saturno IV

Luca, come un nobile parigino in rotta verso la ghigliottina, avanzava lentamente verso il fondo della piazza. Il gruppo di coetanei aveva preso possesso dei gradini sotto al monumento ai caduti. Il giovane sapeva a cosa andava incontro: ogni volta era la stessa storia. I genitori lo forzavano a incontrare gli altri e ogni volta finiva per essere rifiutato.

Avvicinandosi, solo uno di loro lo fece sentire accolto, esistente: Geppo, sedici anni, un ragazzo dai capelli crespi e naso importante, con la postura di un nuotatore professionista. Dal suo sorriso forte e sano, da quell’espressione bonaria, Luca intuì che Geppo era diverso, che ci teneva agli altri.
Appena Geppo si alzò per andare incontro a Luca, Ronnie lo fermò con un gesto. Poi, ergendosi con un sorriso tagliente tra le labbra, chiese a tutti: «A chi va di giocare a Torello?». Era una domanda retorica; nessuno poteva dire di no a Ronnie.

I ragazzi si disposero in cerchio al centro della piazza vuota. Ronnie, rivolgendosi a Luca, che era rimasto in disparte, disse: «Francesino, vuoi giocare?».
Luca si avvicinò timidamente, ancora incapace di capire di cosa parlasse quel ragazzo. Cos’era il Torello? Cosa avrebbe dovuto fare? si chiese camminando verso il cerchio di ragazzi.
Geppo intuì la difficoltà di Luca quando, giunto al centro, osservò tutti con uno sguardo smarrito e inconsapevole, tipico di chi non sa come agire. «Quelli in cerchio si passano la palla. Tu la devi intercettare, ma solo coi piedi. Se ci riesci, prendi il posto di quello che l’ha calciata per ultimo», spiegò Geppo.

Luca annuì in segno di ringraziamento. Fu sufficiente quel fugace scambio di sguardi per far comprendere a entrambi che erano destinati all’amicizia.

Il gioco prese il via. Geppo calciò la palla verso Ronnie; Luca, goffo ma dalle gambe lunghe, riuscì a sfiorarla, quasi prendendola con la punta dei piedi. Il suo cappuccio scivolò dal capo, la sua corsa si fece più concitata e il sudore lo trascinò in una trance che si potrebbe definire agonistica. Luca si muoveva inaspettatamente come un gatto cacciatore, eccitato dalla competizione. Acceso da un’energia nuova, comprese presto come anticipare il pallone.

Ronnie, nel tentativo di beffarlo, diede un calcio a pallonetto, il “cucchiaio”, come lo chiamava. Ma Luca, con un balzo atletico, fermò la palla con il petto e la posò sotto il suo piede, assumendo una posa trionfale.

Ronnie aveva perso davanti a tutti, e ora era il suo turno di andare al centro. Il bullo che covava in lui non perse tempo a segnare il territorio. Con due falcate si piazzò davanti a Luca e lo spinse a terra con violenza, in un gesto di pura frustrazione. Geppo intervenne immediatamente per fermare Ronnie, i cui pugni fremevano di rabbia per lo smacco subito.

Luca, decisamente più intelligente del suo avversario, si alzò, spolverando i jeans e mantenendo lo sguardo basso per evitare ulteriori tensioni. Si ritrasse di un passo, notando che il suo Game Boy era caduto sui sampietrini, proprio vicino ai piedi di Ronnie. Capovolto, lo schermo non era visibile. Un brivido di paura lo attraversò all’idea di aver perso il suo unico compagno di giochi.

Geppo, prontamente, raccolse il Game Boy per lui.

«Ma che stai a fare?» lo interrogò Ronnie.

«Ma si può sapere che cazzo t’ha fatto? Stava solo giocando», rispose Geppo, visibilmente irritato.
Ronnie, lanciando uno sguardo circospetto ai suoi compagni e notando la vergogna nei loro occhi, capì di aver esagerato. Con un gesto magnanimo ma finto disse: «Fate un po’ come cazzo vi pare...» e si ritirò sugli scalini a bere una birra, da solo.

Geppo allungò il Game Boy a Luca. «Io sono Andrea, ma qui mi chiamano tutti Geppo. Tu?»
Luca prese il suo videogioco, notando lo schermo scheggiato. «Luca...» rispose, serrando le labbra.

«Mi dispiace, Luca.»

«Non importa», rispose lui, riaccendendo la console. Lo schermo funzionava ancora. Alzò lo sguardo: «Grazie, Geppo». E si allontanò.

«Ciao Lucà», disse Geppo, enfatizzando l’accento francese in tono scherzoso. Luca non poté fare a meno di sorridere mentre si allontanava. Era un ragazzo che avrebbe voluto come amico, ma temette di perderlo ancor prima di conoscerlo, proprio come era successo con Julien.
Si allontanò senza una meta precisa, desiderando soltanto trovare un luogo tranquillo dove stare da solo. Si sentiva a suo agio in assenza degli altri, libero di immaginare di avere superpoteri, di saper fare karate e sconfiggere tutti.

Quanta fantasia produce la voglia di fuggire, caro lettore! E Luca ne era colmo, perché conosceva la fuga come le sue tasche. Fuggiva dagli altri, dal mondo che cambia troppo spesso eppure resta sempre uguale.

Ma soprattutto, fuggiva da se stesso.

***

Luca scese i grandi scalini dietro piazza Cavour, numerosi ma bassi e agevoli. Con lo sguardo incollato allo schermo del Game Boy, illuminato dalla luce gialla dei lampioni, giocava a Tetris con grazia e calma. La batteria del gioco era ormai quasi esaurita, segnalata dalla spia rossa più debole del solito. Quando la spia lo abbandonò, tutto si spense improvvisamente. Luca alzò lo sguardo per la prima volta. Si trovava in fondo alla scalinata, di fronte agli alberi del parco, lontano dalla piazza. Levando gli occhi verso la collina, intravide la punta del monumento ai caduti, ma i rumori del borgo erano scomparsi. L’odore della natura riempiva le sue narici, e fu immerso da un’insolita quiete, piacevole e cullante.

Il cielo era tempestato di stelle, più brillanti di quanto le avesse mai viste. “Sono così tante...” pensò, ammirando la Via Lattea visibile a occhio nudo e individuando pianeti come Marte, Venere e Saturno.
Poi si accorse di non essere solo. A una decina di metri da lui, sulla sua sinistra, sedeva una ragazza sotto la luce gialla dell’unico lampione acceso. Era seduta con le ginocchia piegate sul muretto, la schiena appoggiata al palo. Aveva un libro in mano e una sigaretta spenta tra le labbra.

Luca rimase a osservarla, immobile come gli alberi. La ragazza era così assorta nella lettura che ignorava le zanzare volare intorno a lei. Si interruppe solo per accendere la sua sigaretta, senza distogliere lo sguardo dalla fine del capitolo.

Luca la ammirò fumare, catturato dalla scena. Ogni soffio la avvolgeva in un velo di mistero. I suoi occhi smeraldi e felini, incorniciati da lunghe ciglia, seguivano le righe del libro. Aveva i tratti delicati, zigomi alti e lentiggini sulla pelle chiara. Indossava una canottiera, pantaloncini e sandali di tela. I suoi capelli erano lisci e castani.

Conclusa la lettura, la ragazza gettò la cicca, si spruzzò del profumo addosso, prese una gomma da masticare dalla borsa e si rivolse a Luca: «Come ti chiami?».

«Cosa?» rispose lui, risvegliato all’improvviso dall’ipnosi, sorpreso di essere stato notato.

«Sono dieci minuti che mi stai fissando. Come ti chiami?»

Luca sentì le ginocchia tremare e un rossore di vergogna gli salì al viso. Era stato lì a guardarla come un ebete e lei se ne era accorta. Balbettò la sua risposta: «Luca... io... mi...»

«E che ci fai qui?» chiese lei, scendendo dal muretto su cui era seduta. «Sei nuovo?»

Luca fece spallucce, cercando di giustificare la sua presenza. «No... niente,» alzò lo sguardo, «stavo guardando le stelle.»

La ragazza si avvicinò per osservarlo meglio. «Ce ne sono tante, quale guardavi?»

Luca deglutì nel sentirla così vicina. «Sa... Saturno...» rispose, quasi senza voce.

La ragazza scoppiò in una risata gentile: «Saturno non è una stella». E se ne andò, senza dire a Luca il suo nome.

***

Questo è - ahimè - l'ultimo capitolo che posso permettermi di offrirti gratuitamente. Se questo libro ti piace e vuoi sapere come andrà avanti l'incredibile storia di Luca e Anna, la potrai trovare nelle sue varie forme (ebook, audiolibro e cartaceo) cliccando sul banner della pagina. Acquistanto il libro non solo ti tufferai in una storia emozionante, ma mi sosterrai nel mio percorso di scrittore.

A prescindere dalla tua scelta, grazie per essere arrivata, o arrivato, fin qui.

Alla prossima pagina.

L'Anello Di Saturno III

Calato il crepuscolo, sotto la prima stella, l’aria si fece più fresca di quanto Jane si aspettasse. «Avrei dovuto portare un maglioncino», disse al figlio, uscendo dal portone annerito dall’ombra del tramonto, ma Luca rimaneva sempre troppo silenzioso per lei.

Il ragazzo teneva gli occhi a terra, voleva evitare di affezionarsi a quel luogo, consapevole che sarebbero di nuovo partiti, prima o poi, come sempre. Non gli importava nulla di quel borgo; Anagni era solo un’altra tappa, un’altra puntina da inchiodare al mappamondo. Non voleva affezionarsi nemmeno ai sampietrini, non desiderava ammirare le stradine medievali né sentirne l’odore. L’aria della sera aveva portato con sé un profumo di soffritto che fuoriusciva dalle finestre delle case, ora illuminate. Ma lui era infastidito da tutto, persino dai colori tenui che sfumavano con il tramonto.

Povero Luca. Non era nemmeno colpa dei genitori. Come biasimarli? Jane e Alberto avevano sempre seguito la loro felicità. Loro erano per Luca l’esempio della fiaccola dell’entusiasmo, del desiderio di ricerca, di divertimento. Erano viaggiatori nell’anima e, nel loro incedere, lo avevano trascinato ovunque.
Da Westminster a Madrid, da Nizza a Parigi, Luca era stato costretto a scoprire scuole e paesi diversi: Africa, Asia, Giordania, dove aveva visto Petra, la città di roccia. Insomma, Jane e Alberto erano così: genitori amorevoli, figli del tempo che corre.

Nel ’65, Jane era scappata di casa, appena maggiorenne. Gli anni di collegio e un padre severo l’avevano portata tra le braccia di Alberto, che invece era cresciuto come un uomo libero. Lui, amante delle donne e viaggiatore in fuga dalle sue origini modeste, si era innamorato delle minigonne francesi e si era trasferito a Parigi. A ventun anni era entrato all’Ecole Normale Supérieure per cominciare gli studi di Fisica, che lo avrebbero portato poi ad emergere come uno dei massimi esperti di fisica teorica della sua generazione.

«Dai, Pulce, vieni. Andiamo a cercare un ristorante», disse Alberto al figlio, rituffatosi tra i pixel che diventavano sempre meno visibili nella notte crescente. L’affetto che lo stringeva a Luca era un legame indistruttibile. Solo una cosa poteva far soffrire Alberto: vedere Luca isolato dietro quella corazza che aveva innalzato tra di loro.

«Dai, andiamo», ripeté.

«Sì, papà.»

«Ecco, vedi...» borbottò Jane infilandosi lo scialle, «quando tuo padre ti chiede qualcosa, ubbidisci subito. Ma quando invece te lo chiedo io, no. Mi piacerebbe capire perché.»

Luca alzò gli occhi dallo schermo, stupefatto dalle parole della madre: «Che ho detto?».

«Prima ti ho chiesto di venire e tu non mi hai nemmeno risposto.»

«Non avevo sentito.»

Jane lo guardò, una lieve fitta di dolore materno accarezzò il suo cuore.

***

Le voci animavano il borgo assopito dalla lunga giornata. Dopo aver cercato invano un ristorante per quasi venti minuti, la famiglia stava per rinunciare alla ricerca quando Alberto notò due anziani seduti su sedie di legno attorno a un tavolo rotondo, immersi in una partita di briscola. Accanto a loro, sulla tovaglia cerata, un bicchiere di rosso allungato con l’acqua.

«Scusate...» disse Alberto con cortesia.

I due anziani, concentrati nel loro gioco, non lo degnarono nemmeno di uno sguardo.

«Sapete indicarmi un ristorante?»

Uno degli anziani si piegò leggermente verso Alberto, senza mai staccare gli occhi dal tavolo, e con una sigaretta stropicciata all’angolo della bocca disse: «Accanto al municipio ci sta un’osteria. Non prendete l’abbacchio, che Marco non è capace».

«Ma che stai a dire», rispose piccato l’anziano di fronte. «Mio figlio è il miglior cuoco di Anagni.» Poi, rivolgendosi ad Alberto: «Non lo state ad ascoltare. Andate più avanti e pigliate ’a salita, in piazza ci sta un ristorante. Proprio davanti alla Santa Maria. Cucina mio figlio, è bravo».

«No, macché bravo. L’abbacchio non lo sa proprio fare. È secco!» disse l’altro, lanciando un tre di bastoni con violenza sul tavolo. «Briscola!» urlò con voce graffiata. L’altro, sbuffando, gettò le carte a casaccio.
In men che non si dica ricominciarono un’altra partita, dimenticando la presenza di Alberto, che raggiunse moglie e figlio.

***

La piazza della cattedrale era avvolta da un fascino antico e misterioso. Il campanile, alto più di trenta metri, dominava la piccola città come un obelisco grigio dal pallore lunare. Si dice, caro lettore, che di notte tutto sia più bello perché le oscenità del mondo vengono celate dal velo dell’oscurità, trasformandosi in ombre che scompaiono nelle tenebre. Ma l’oscurità risveglia anche i mostri nascosti negli angoli della paura, e per questo la notte è così seducente: nessuno resiste al brivido dell’ignoto.
La trattoria era buona e l’abbacchio, sebbene leggermente secco, era ottimo.

«Com’era la cotoletta?» chiese Alberto, osservando il piatto quasi immacolato del figlio. Luca teneva i polsi sotto gli zigomi e i gomiti sul tavolo, fissando inerte la cotoletta mangiata a metà, stesa sopra una triste foglia di lattuga. Non aveva fame, e Alberto sapeva che questo era il primo segno che qualcosa non andava. Luca sembrava la fiammella morente di una candela consumata.

Con un riflesso quasi automatico, il ragazzo afferrò il suo Game Boy. Alberto non ebbe nemmeno il coraggio di strapparglielo via. Come poteva? Sapeva bene che suo figlio stava male a causa delle scelte che aveva fatto lui. Era colpa sua se continuavano a muoversi, spinti dall’ambizione di dirigere un giorno un gruppo di specialisti, di scoprire qualcosa di nuovo, di entrare nei libri di storia. Questo era ciò che Alberto desiderava più di tutto. Guardando il figlio, fu travolto dalla consapevolezza che non gli restava molto tempo prima che Luca diventasse un adulto, prima che la vita se lo prendesse per non restituirglielo più.

Immagino, caro lettore, che tu sia curioso di sapere cosa diventerà Luca da grande. Se ascolterai la mia storia fino alla fine, ti prometto che lo saprai: le vie del tempo e del destino sono, come scoprirai, infinite.

Alberto, per un attimo, si immaginò il figlio alla guida della sua Citroën gialla, pronto a partire senza di lui verso chissà dove. E in quel momento si rese conto che non gli aveva insegnato a frenare. Mentre immaginava la macchina fuggire via per le tortuose strade cittadine, il terrore di sentire uno schianto gli soffocò i polmoni. Si asciugò la fronte con il tovagliolo, cercando di scacciare via i pensieri e le zanzare. «Mangia, Luca, è buona, ti fa bene», disse, accorato.

Luca, senza fare storie, posò il Game Boy sul tavolo e prese forchetta e coltello per ubbidire al padre.
«Quando te lo dico io...» disse Jane, facendo un altro tiro di Camel e incrociando le braccia. Aveva finito un piatto di gamberi alla piastra, che lei stessa aveva definito mediocre, e aspettava – da troppo tempo secondo i suoi standard – il caffè, richiesto almeno cinque minuti prima.

«Stanno finendo anche le ultime batterie», ribatté Luca con una voce così bassa che Jane non capì se fosse un tentativo di informarla o solo di parlare a se stesso.

Con la coda dell’occhio, Alberto notò un gruppo di ragazzi che giocava e correva davanti alla cattedrale. Era lo stesso gruppo che aveva visto nel pomeriggio, fuori dal municipio. Una dozzina di giovani sorridenti e abbronzati scendeva verso piazza Cavour per il dopo cena, insieme al fedele pallone.

«Perché non vai con loro?» chiese Jane.

Luca li guardò, stanco. Vide Ronnie, e l’idea di doverlo affrontare di nuovo lo bloccò.

«Non vuoi farti nuovi amici?» insistette la madre.

«A che serve,» disse Luca, «tanto andremo via tra poco.» Avrebbe voluto scomparire da tutto e da tutti, persino dalle memorie dei suoi genitori che tanto amava, così almeno non avrebbero sofferto per la sua mancanza.

«Dai…» provò a convincerlo Alberto, sfiorando il cappuccio nero del maglione che Luca indossava. «Non hai caldo con questo?»

Il ragazzo rispose con un gesto delle spalle, allontanandosi dal padre, e si alzò senza dire una parola. Infilò il Game Boy nel tascone centrale della felpa e si avviò, come un automa obbediente ai comandi impartiti.

«Torna quando vuoi, ma non troppo tardi!» gli gridò Jane, spegnendo con nervosismo la sigaretta sul posacenere di vetro. Una tazzina di caffè giunse sul tavolo. «Finalmente...» disse con un tono amaro, osservando il figlio allontanarsi, consapevole ‒ come Alberto ‒ delle proprie responsabilità.

L'Anello Di Saturno II

Il caldo era insopportabile. L’afa estiva aveva trasformato i sampietrini in pietre arroventate, dalle quali il vapore non emergeva più, tanto secca era diventata la loro superficie. Persino le nuvole sembravano essersi dileguate, lasciando il cielo alla mercé del sole che cuoceva a fuoco lento l’antico arco di Travertino, la porta Cerere, che segnava l’ingresso nel centro storico di Anagni.

«Hai tu il foglio con le indicazioni?» chiese Jane, alzando la voce per sovrastare il canto delle cicale che dominavano intorno. Vampate di calore secche strappavano il respiro.

Non c’era anima viva. Il centro di Anagni, borgo antico situato in cima alla valle del Sacco, 424 m sopra il livello del mare, era un luogo desolato.

A Luca bastò un passo per sentirsi immerso in una rovina archeologica abbandonata dal tempo e dagli uomini. Vide un campanile solitario emergere da dietro gli edifici bassi e antichi, accatastati e compressi. Era la cattedrale.

Le serrande dei negozi erano tutte abbassate. Non c’era nemmeno l’odore di pane a suggerire l’esistenza di vita, in quella desolazione. Tutti gli anagnini erano fuggiti all’ombra fresca delle foreste o verso i venti del litorale.

Alberto estrasse dalla tasca un foglio inumidito dal sudore e dal viaggio, con sopra le indicazioni, e si incamminò per trovare la loro casa.

«E le valigie?» lo interpellò Jane.

Alberto, rifugiatosi sotto l’ombra della porta Cerere, cercava di capire la direzione da prendere: «Dopo, prima troviamo casa».

Luca alzò lo sguardo, osservando lo stemma della città: un’aquila che afferrava un leone, e delle chiavi con un manto.

Alberto lasciò quindi la macchina in mezzo alla piazza, rasserenato dal fatto che nessun vigile si sarebbe preoccupato di multarlo, e si avviò lungo la strada principale del piccolo borgo: corso Vittorio Emanuele. «Dovrebbe essere in fondo alla via», disse, orientando la mappa nella direzione giusta. E i tre procedettero verso la cattedrale a monte.

La casa ricordava quella dei nonni: una villetta situata in un cunicolo laterale che scendeva dalla strada principale verso la valle. Civico 38. Jane estrasse un mazzo di chiavi dalla sua borsa Givenchy e le passò ad Alberto, che aprì il grande portone di legno verde.

All’interno aleggiava un odore di luogo dimenticato. La freschezza che si sprigionò dall’oscurità fu un sollievo per Luca, che subito cercò un posto dove sedersi. Jane storse il naso: la polvere era così densa da essere visibile in controluce. «Devo trovare una donna delle pulizie», disse, entrando nel salone.
Luca si gettò sul divano, che rilasciò una nuvola di polvere. Quando la luce finalmente invase la stanza, un paesaggio mozzafiato si svelò davanti alla famiglia Colonna. La casa si affacciava sulla vallata ciociara, un luogo di straordinaria bellezza, un mix tra l’eleganza toscana e quel senso di natura selvaggia che ancora caratterizzava il Lazio.

Jane non poté fare a meno di sorridere di fronte ai colori della vallata. Gerani e begonie pendevano dalle finestre, avvolte dalla vigna americana che conferiva alla vista un’atmosfera romantica, persino più magica dell’entroterra della Costa Azzurra, che tanto amava.

«Ci hanno lasciato qualcosa in cucina! Spaghetti!» esclamò Alberto, che aveva già iniziato a esplorare le varie mensole di legno alla ricerca di pasta, olio, aglio e, magari, peperoncino. Trovò una grossa pentola di acciaio bianco, la riempì d’acqua e tentò di accendere i fornelli. Ma nulla, l’accendigas non si avviava.

«Eppure il gas c’è», disse, ascoltando il sibilo silenzioso provenire dai fuochi, che tuttavia rimanevano spenti.

«Hai provato a premere il pulsante dell’accendigas?» chiese Jane, posando la borsa sulla tovaglia cerata.

«Certo che ho provato, ma non funziona, guarda.»

Nel frattempo, Luca, sdraiato sul divano e infastidito dalla luce, si era immerso nuovamente nel suo Game Boy. Jane provò ad accendere la luce della cucina, ma gli interruttori di plastica color crema non sortirono alcun effetto.

«Mi sa che non c’è elettricità», osservò Alberto. «L’interruttore centrale dovrebbe essere all’ingresso, come dai miei.» Così, dietro l’attaccapanni, trovò lo sportello dell’interruttore, che però sembrava acceso.

«Forse c’è qualcosa fuori», suggerì Jane. Una volta usciti, avvolti dal canto delle cicale, notarono un cavo elettrico che pendolava sopra le loro teste. «Non ci hanno allacciato...» mormorò Alberto, asciugandosi la fronte.

Jane, con la sua abituale determinazione, non esitò. «Vai a parlare con qualcuno», disse. Poi rivolgendosi al figlio: «Luca! Stacca gli occhi da quell’aggeggio e aiuta tuo padre!».

Così, i due Colonna si misero in marcia alla ricerca di un elettricista alle 13:45 di Ferragosto.

***

Appena arrivati nella piazzetta centrale, il sudore sulla nuca di Alberto già colava a profusione. Senza ombra dove rifugiarsi, Anagni sembrava l’inferno. Con segnaletica scarsa e pochi turisti, appariva quasi una città fantasma.

«Municipio», lesse Alberto seguendo un cartello di metallo sbiadito dal sole. «Aspettami qui», e si diresse sotto la gigantesca volta che ospitava l’ingresso verso gli uffici, nutrendo la speranza di trovare qualcuno.

Per la prima volta, ma non sarebbe certo stata l’ultima, Luca si trovò solo. Osservò il padre svanire tra i corridoi degli uffici statali. Il suo sguardo si perse verso piazza Cavour, dominata dal monumento ai caduti, arso dalla calura.

Sentì il suono di un pallone che colpiva un muro: la valvola rimbombava contro la plastica, producendo un rumore acuto e artificiale, qualcosa di nuovo per lui. A Parigi, i ragazzi non giocavano a pallone; era troppo pericoloso con tutte quelle macchine.

Il Super Tele blu e nero si fermò ai piedi di Luca, che lo bloccò con la suola delle sue All Star.

«Aò! Che ti sei incantato?!» gridò un ragazzo robusto con un marcato accento ciociaro. Era Ronnie, diciassette anni, ripetente di terza superiore. Luca, accecato dalla luce, non riuscì a vederlo chiaramente.

Osservò il pallone ai suoi piedi, pensando di non averne mai calciato uno in vita sua, a parte una volta a scuola. Non sapeva come restituirlo a Ronnie senza sembrare goffo. Lo prese con le mani e uscì dall’ombra della volta, avvicinandosi al ragazzo, che lo fissò come se fosse un alieno. Ronnie era un capogruppo, alto, robusto, con la pelle olivastra e un ciuffo alla Elvis. Aveva spalle larghe e un viso imberbe. «Da dove vieni?» chiese con tono aggressivo, stagliandosi imponente come un gigante davanti a Luca.

«Mi chiamo Luca, vengo da… da Parigi», balbettò il ragazzo. Al suono di quella città, Ronnie storse il naso, forse per gelosia, forse per frustrazione. Parigi... lui non era mai andato più in là della capitale, e il viaggio più ambizioso che sognava di fare era quello che i suoi genitori continuavano a promettergli: Gardaland.

Gli bastò uno sguardo per capire che Luca, così magrolino e nascosto dietro quegli spessi occhiali neri, non avrebbe rappresentato un pericolo per il suo territorio. Anzi, quella sarebbe stata l’occasione giusta per inaugurare un fresco capro espiatorio con il quale ricordare a tutti chi comandasse ad Anagni.

«Per che squadra tifi?» chiese, strappando via il pallone dalle mani di Luca. Quest’ultimo, ancora poco avvezzo alla cadenza ciociara, non aveva mai sentito questo verbo. Tifare… cosa poteva voler dire? Provò a trovare una radice comune in francese. Spesso riusciva, tramite equivalenza, a dedurre un significato passando dall’italiano al francese. Ma non trovò nessuna omofonia per smarcarsi dal blocco linguistico che aveva di fronte: la parola “tifare” proprio non somigliava a nulla che conoscesse. Aveva però a che fare con una “squadra”. Si trattava di sport. Ma di quale sport parlava Ronnie?

I secondi colavano come il suo sudore, mentre ragionava. Tutto questo giro di pensieri e parole avvenne nell’arco di un millisecondo. Luca era un essere complesso, veloce quanto fragile. «La Francia...» disse, sperando di uscirne vivo. «Tifo la Francia.» Poi osservò Ronnie che annuì con la testa, e fece un sospiro di sollievo.

«No, ma io ti stavo a dire in Italia. Per che squadra tifi in Italia?»

Niente. Luca era tornato al punto di partenza. La situazione gli stava scivolando di mano e non aveva la minima idea di cosa dire.

Il suo tentennamento aprì uno spiraglio nel quale Ronnie entrò a gamba tesa, senza nessuna remora. «Non dirmi che non sai cosa vuol dire tifare!» sbraitò con una grassa risata, includendo il gruppetto di amici che si erano avvicinati. Tutti guardarono Luca con l’aria tra il curioso e il “che cazzo ci fai qui da noi?”

Luca deglutì, ora costretto ad ammettere la terribile verità: «No, non so cosa voglia dire, mi dispiace».
Tutti scoppiarono a ridere. Luca abbassò gli occhi, conoscendo bene il fervore ardente dei coetanei pronti a odiare chi arriva da fuori, tutti desiderosi di discriminare per sentirsi più uniti. Ormai aveva capito che in ogni posto dove andasse, lui era la colla che univa tutti.

Ronnie, finita la risata, gli diede le spalle e raggiunse il gruppo, lasciando Luca solo a cuocere di vergogna sotto il sole. Il Super Tele tornò a battere contro il muro mentre Alberto scendeva le scale del municipio due gradini alla volta, sempre sorridente. «Allora,» disse dopo aver notato l’incontro tra Luca e Ronnie dalla finestra del secondo piano, «sono simpatici?»

Luca fece un timido cenno di sì, evitando del tutto il discorso. Sapeva che non aveva senso rendere partecipe il padre delle tribolazioni che affrontava a ogni nuova tappa. L’unica volta che ci aveva provato, l’intervento di Alberto aveva peggiorato tutto.

Il ragazzo cambiò discorso. «E tu? Hai trovato un elettricista?»

Alberto sorrise: «Temo di no. È tutto chiuso qui. Anagni non è Parigi».

E su questo c’erano pochi dubbi, caro lettore: Anagni non era certo Parigi.

L'Anello Di Saturno I

Ogni storia d’amore è un caos incantevole che si innalza sopra l’ordine predestinato. 

Permettimi, caro lettore, di presentarmi: sono il Destino.

In un’epoca lontana, antecedente l’esistenza di questa realtà, avevo ordinato l’universo in un regno di calma e pace. Dopo molteplici eternità, ero finalmente riuscito a organizzare gli elementi primordiali e a relegare il caos a un lontano ricordo. Tutto, nel mio mondo, era come lo desideravo: chiaro, lineare.

Esausto, ma soddisfatto per aver completato il mio compito, cedetti ‒ solo per un istante ‒ al pensiero del riposo. Fu in quel momento che l’Amore, mia eterna nemesi, fonte di disordine e imprevedibilità, colse l’opportunità per distruggere la mia impresa.

L’Amore sedusse gli elementi primordiali, imbevendoli di un magnetismo travolgente. Il loro contatto generò una scintilla che provocò l’esplosione delle esplosioni. Quello che tu, caro lettore, chiami il “Big Bang”, il ritorno al caos.

Da allora, lavoro incessantemente per restaurare l’ordine, ricucendo con fatica le trame del tempo e dello spazio, annodate e intrecciate a causa dell’Amore.

Tuttavia, devi sapere che poche storie causarono più scompiglio di quella che sto per narrarti: la storia di Luca e Anna.

Luca e Anna... due nomi che potrebbero sembrare comuni in un mondo di miliardi di altri nomi. Ma le loro anime erano imbevute della stessa essenza d’amore che sedusse gli elementi: un amore puro, l’amore dell’inizio dei tempi.

Ancora inconsapevoli, ignari l’uno dell’altra, Luca e Anna erano già inseparabili. Come due magneti carichi di eros, la loro vicenda sembrava già scritta: destinati a scatenare, nel momento in cui si sarebbero amati, un caos devastante nelle mie trame.

***

Il 13 agosto del 1995, nel quattordicesimo arrondissement di Parigi, una Citroën di colore giallo ocra era pronta a partire. Carica fino all’inverosimile, i bagagli di cuoio occupavano persino i posti posteriori. Tra le valigie, un ragazzino magro dalle spalle larghe, con gli occhiali spessi, era immerso nel suo Game Boy.

Luca Colonna, sedici anni, esperto di Tetris e di solitudine, giocava senza lanciare nemmeno uno sguardo alla città che fino a poco prima aveva chiamato “casa”. Le strade di Parigi erano ancora fresche di mattino, e fuori dall’abitacolo regnava un’allegra confusione, in netto contrasto con la sua anima spenta. Non era una vacanza, quella che l’attendeva, bensì un viaggio senza ritorno, l’ennesimo addio a tutto ciò che conosceva, il tredicesimo, per l’esattezza. Luca si sentiva come una pianta sradicata troppe volte, costretta a rifugiarsi nella solitudine per trovare un po’ di pace.

Alberto, il padre, quarantotto anni, era alto e robusto, con un folto baffo e capelli ricci. Quando parlava emanava un entusiasmo contagioso. Depositò l’ultima valigia, contenente il suo telescopio, sul tetto della Citroën e assicurò le robuste cinghie elastiche. «Si parte!» esclamò dando un colpo al camion dei traslochi parcheggiato davanti.

«Luca, hai preso tutto?» chiese Jane, la madre, quarantasette anni portati con eleganza. Capelli corti, sguardo di ghiaccio, era il motore sempre attivo della famiglia. Dopo aver gettato la Camel consumata sul marciapiede, la schiacciò sotto il suo stivale di coccodrillo e attese una risposta. Luca, troppo assorto nel tentativo di incastrare il pezzo a forma di “I” per fare Tetris, non rispose.

Alberto picchiettò con l’indice sul finestrino: «Luca, quando tua mamma ti parla sei pregato di rispondere».

«Sì, mamma, ho preso tutto», rispose il ragazzo senza distogliere lo sguardo dal gioco. Non aveva molto da portare con sé, il povero Luca, così abituato a partire da aver ridotto la sua vita in uno zaino. Non aveva nemmeno salutato Julien, il suo “migliore” amico, incontrato solo sei mesi prima. Luca conosceva gli addii fin troppo bene. Le lacrime ormai gli pesavano ed era stanco di quella tristezza, stanco persino di essere stanco. Lo aveva capito al sesto trasloco: meglio andare via senza dire nulla, si soffre meno.

Alberto avviò il motore mentre Jane, accendendosi un’altra Camel, riempiva l’abitacolo di fumo.

«Mamma, puoi aprire il finestrino per favore? Non mi piace l’odore», chiese Luca.

Jane, con un gesto nervoso, girò la manopola più volte finché l’aria di Parigi non sfiorò i suoi capelli corti. Guardò con lieve tristezza i monumenti scorrere, la sua vita. In quella città aveva vissuto il ’68, le proteste, le occupazioni studentesche, guidata da quel suo insegnante di matematica poi divenuto un noto politico.

Jane era una di quelle donne che indossavano i pantaloni quando tutte le altre preferivano le minigonne e guidava motociclette mentre le sue amiche cercavano un marito. Poi, invece, fu lei la prima a cadere vittima dell’Amore – con Alberto. E ora stava lasciando tutto per lui.

I bagagli sopra la sua testa, pieni di sogni, celavano il futuro di Alberto, talentuoso fisico teorico. Aveva ricevuto un promettente impiego al CNR di Roma, e Jane aveva accettato, non senza remore, di trasferirsi in Italia con l’uomo che aveva conquistato il suo cuore. Parlava un italiano perfetto, caratterizzato da una “erre moscia” e piccoli errori che sperava correggere presto, grazie alla lettura delle opere di Pavese.

Guardò suo figlio: era così solo, così fragile... poi posò la mano sul ginocchio di Alberto, concentrato alla guida.

Alberto le sorrise. Quanto la amava.

Jane estrasse una cassetta bianca dal portaguanti e la inserì nella radio. Pink Floyd. Propose poi di fermarsi al McDonald’s: «Luca, ti va? Ce n’è uno sull’autostrada».

Luca, senza distogliere lo sguardo dal gioco ‒ al livello nove non ce lo si può più permettere ‒ fece un piccolo cenno di assenso con la testa, sufficiente a fargli sbagliare il posizionamento di uno dei blocchi. «Merda...» mormorò sottovoce.

***

«Dormiremo dai nonni», dichiarò Alberto, con le mani stanche sul volante, mentre la Torre di Pisa iniziava a delinearsi all’orizzonte.

Luca, perennemente immerso nel suo mondo di pixel, aveva già esaurito due dei tre pacchetti di batterie che Jane gli aveva comprato. Non desiderava altro che giocare, per dimenticare ricordi troppo dolorosi, zeppi di amici di cui possedeva solo nomi e indirizzi per mandare loro la solita cartolina che sarebbe stata, come sempre, presto scordata.

Man mano che il tempo passava, Luca sperava che, in questo modo, potesse ritrovare quella felicità perduta. A volte si chiedeva se la sua vita fosse reale o solo frutto dell’immaginazione, come le storie nei libri che leggeva.

***

La casa dei nonni era intrisa di tipicità italiana: una villetta bifamiliare sul litorale toscano, che emanava un profumo antico. Il nonno era falegname, ristoratore, inventore e pittore: un uomo dalle mille risorse. La nonna, una donna paziente e gentile, era sarta e confezionava confetti per i matrimoni. Entrambi erano sopravvissuti alla guerra e avevano contribuito a ricostruire il paese con fatica e sudore.

Luca salì le scale di graniglia e, arrivato nel corridoio buio del secondo piano, notò vicino alla cornetta del telefono, sul mobiletto, il disegno che aveva realizzato l’ultima volta che era stato lì in vacanza. Era tra quelle mura che aveva perfezionato il suo italiano, immerso tra pinete e castagnaccio.

Prese la piccola cornice dorata in cui era stato inserito il suo disegno. Si distinguevano chiaramente gli occhi della nonna, di colore diverso: uno verde, l’altro marrone. Sopra, appeso al muro bianco, c’era un quadro che Luca aveva sempre interpretato come un animale fantastico: una strana figura rosa avvolta in un fondo nero.

Ma in quel momento, un evento straordinario accadde: la sua percezione del mondo si ribaltò. Per la prima volta, si rese conto che il quadro non raffigurava un animale magico ma una rosa e i suoi petali. Per anni aveva creduto che il nonno avesse dipinto una creatura fantastica, avvolta nelle tenebre e sorridente come la Gioconda, ma in realtà era solo una rosa, ordinaria e splendida.

Spesso, caro lettore, la forma delle cose inganna gli occhi di chi osserva. Ed è solo quando il caos si fa ordine che finalmente emerge la verità, e si è un passo più vicini alla pace.

«Ho preparato le lasagne, sei contento?» chiese il nonno a Luca, dando un colpetto al divano scamosciato del salone. «Siediti, devo dirti una cosa.»

Luca, ragazzo tanto intelligente quanto educato, ebbe la premura di spegnere il suo Game Boy, non solo per rispetto verso il nonno ma anche perché le batterie stavano esaurendosi e non poteva permettersi di rimanere senza. Così, ascoltò.

Il nonno parlò piano, con calore e accento toscano: «Devi essere buono con la nonna. Ha avuto un’operazione, le hanno tolto il seno. Non è una cosa facile per una donna, sai?». Questo era il nonno, un uomo d’altri tempi, sì, ma sensibile e moderno, sempre attento agli altri.

La mattina seguente, Luca e i suoi genitori ripresero la macchina. Si sarebbero rivisti a Natale, tra regali e presepi, durante una cena luculliana a base di pane sciocco, crostini ai funghi, lasagne, agnello con patate, tiramisù, caffè e ammazzacaffè.

Si sarebbero rivisti, caro lettore, se non fossi stato costretto a far succedere quello che successe.

***

L’autostrada era deserta, in quel giorno di Ferragosto, quando in Italia le strade rimangono spesso vuote.

«Manca poco», commentò Alberto, innestando la quinta. «Siamo quasi arrivati.» E, accendendo la freccia destra, si diresse verso Anagni.

Luca non notò il cartello blu con scritta bianca, era troppo immerso nel suo Game Boy, doveva finire prima che la spia rossa della batteria si spegnesse definitivamente. Sapeva che Tetris aveva una fine e, sebbene non conoscesse nessuno che fosse riuscito a raggiungerla, sperava di essere lui quello fortunato.

La spia del Game Boy si spense e Luca alzò gli occhi. Il sole picchiava sulla terra brulla delle verdi colline ciociare mentre la Citroën giallo ocra entrava nel viale alberato che conduceva ad Anagni.

Erano le 12:23 di giovedì 15 agosto 1995 quando Luca Colonna, finalmente, arrivò nella sua nuova città.

Trova il tuo maestro

Quando facevo l'assistente alla regia, ho avuto la fortuna di assistere, ed è il caso di dirlo, al processo creativo di uomini che avevano dedicato la loro vita allo sviluppo artistico. Ognuno di loro possedeva una propria visione dell'arte, un arsenale di trucchi e segreti, frutto di intuizioni che avevano forgiato il loro percorso artistico. Matthias Langhoff, Maurizio Nichetti, Marco Sciaccaluga: tre registi dai quali ho imparato molto, in diverse dimensioni dell'arte, da come comportarsi (Marco), a come concepire una visione (Matthias), fino a come strutturare la produzione artistica (Maurizio). Ma poi c'è stato anche Massimo Mesciulam, che mi ha trasmesso la sua visione della recitazione e le sue tecniche. Marco, Maurizio, Matthias, Massimo. I miei M. I miei maestri d'arte.

Vi racconterò come ho scelto Matthias. Ero assistente alla regia di Marco e, un giorno, durante l'allestimento di "Madre Courage e i suoi figli", vidi Matthias infuriarsi per quella che considerava una mancanza di rispetto verso il poeta, Bertold Brecht, autore dell'opera.
In un impeto di passione, Matthias salì sul palcoscenico, animato da un dolore autentico, perché sentiva che la messa in scena non rendeva giustizia all'intento originale del poeta. Personalmente, ritengo che ogni regista abbia la libertà di interpretare l'opera, come vuole poiché in quel momento è lui l'artista. Tuttavia, fu la passione e la sensibilità di Matthias a catturarmi come un magnete. Quando scese dal palco, mi avvicinai a lui e gli dissi: "Matthias, voglio essere tuo allievo. Voglio assisterti." E così fu. Matthias mi insegnò moltissimo, perché ero stato io a sceglierlo.

Se ho avuto un talento, è stato quello di riconoscere i maestri. Nel secondo anno della scuola di teatro stabile, ebbi l'opportunità di essere selezionato tra i migliori allievi per uno stage intensivo di quasi un mese con allievi di altre scuole europee e maestri proveniente da tutto il mondo. La prima settimana fu un tour de force di mini-lezioni sulla drammaturgia inglese, commedia dell'arte, danza messicana, butoh giapponese e tecniche di canto e allenamento indiani: insomma un'esperienza straordinaria. Spinto dalla mia inesauribile curiosità, decisi di immergermi nel Butoh, riconoscendo nel maestro Katsura Kan una fonte di sapere e ispirazione.

E così mi immersi in una dimensione completamente diversa dalla mia abituale realtà teatrale. Questa esperienza non solo mi ha aperto la mente, ma anche il corpo!

Individuare i propri maestri è un talento. Quando comprendiamo che esistono uomini e donne nel mondo con un bagaglio di conoscenza e arte vasto come il tempo che hanno vissuto, allora capiamo quante inesauribili fonti di conoscenza, esperienza e formazione siano a nostra disposizione.

Non esistono scuole che possano creare artisti: perché sono gli allievi a scegliere i propri maestri, non il contrario. È il valore dell'individuo artista, che si riflette e plasma l'opera, a renderla magica. Questo avviene spesso quando l'artista, finalmente sicuro di sé e consapevole del territorio in cui si muove, decide, con esperienza ed estro, di andare oltre i confini tracciati dai maestri, alla ricerca di nuovi orizzonti sconosciuti.

Alla prossima pagina.

La coerenza nell'arte

Nel cinema esiste la figura della segretaria di edizione, credo che sia l'unico mestiere che abbia una connotazione femminile fin dalla sua origine. Nella mia carriera d'attore non ho mai incontrato un segretario di edizione, incredibile, vero?

La segretaria di edizione si occupa della coerenza filmica, nota anche come "continuità". Poiché le scene non vengono girate in ordine cronologico, ma a blocchi, spesso in base al luogo di ripresa, può capitare di girare le scene 2, 45 e 115 in successione. Tuttavia, tra una scena e l'altra possono verificarsi cambiamenti, sia fisici (cicatrici, tagli di capelli) sia emotivi. La segretaria di edizione è qui per risolvere tutti i dubbi. Durante le riprese de Il Paradiso delle Signore, mi avvicino spesso alla cabina di regia chiedendo: "Da dove vengo?". In pochi minuti, mi viene fornita una sintesi degli avvenimenti pertinenti al personaggio di Tancredi, così da potermi immedesimare meglio nello stato emotivo del personaggio.

Anche nelle altre forme d'arte, la coerenza è fondamentale. Ad esempio, nella scrittura, se un personaggio viene descritto con gli occhi azzurri, non può averli neri quattro capitoli più tardi. La stesura de La Saga dell'Anello di Saturno è stata una sfida sotto questo aspetto. I personaggi sono numerosi, gli anni trascorrono e accade di tutto. E allora, come si fa? Io utilizzo un software di cronologia che mi permette di catalogare l'intera narrazione in sequenze, blocchi distinti per luoghi, personaggi e date. In questo modo, posso capire a colpo d'occhio, da autore, "da dove vengo". Sono la mia propria segretaria di edizione!

Oggi, però, voglio raccontarvi un aneddoto del quale sono il fortunato detentore. Durante un piccolo tour di presentazione di "Goltzius and the Pelican Company", ho avuto l'opportunità di trascorrere ore di viaggio insieme al regista Peter Greenaway. Abbiamo parlato di molte cose: cinema, recitazione e della famigerata coerenza.

Greenaway, come altri maestri, non crede nella coerenza; anzi, la detesta. Il motivo? I sogni non hanno coerenza e, per estensione, nemmeno la vita. Quindi, perché dovrebbe averla l'arte? In un mondo didascalico, dove tutto deve essere spiegato, trovo questa visione dell'arte assolutamente rivoluzionaria e, devo ammettere, affascinante.

Molti illustri registi hanno combattuto contro la continuità: David Lynch e il sommo Stanley Kubrick, che ha reso l'architettura dell'Overlook Hotel in "The Shining" un labirinto di impossibilità. L'incoerenza è vita, e se non è eccessiva tanto da farci pensare "ma no, no, questo è impossibile!", allora genera nel fruitore una sensazione di disagio, di incertezza. Rivela la possibilità che l'opera non sia stata del tutto compresa, il che è oro. Credo che neanche l'autore possa essere pienamente consapevole della sua opera, figuriamoci lo spettatore.

Questo effetto sfiora la pareidolia, la tendenza umana a vedere volti dappertutto, tra le rocce, nelle nuvole. L'uomo attribuisce naturalmente un significato a ciò che vede, la sua dimensione razionale cerca di dare senso a tutto ciò che percepisce. Questo avviene anche nell'arte.

Quindi, non bisogna temere l'incoerenza, anzi! E cosa significa questo per la scrittura, la recitazione, l'arte? Significa accettare un grado di libertà, una volontà esterna che ci guida. L'artista, non più condotto dalla propria forza di volontà, diventa, per un istante, veicolo di altro, di altri.

E qui inizia la magia.

Alla prossima pagina.

Come sviluppare la creatività?

Sono un creativo e mi piace immaginare. A volte, mi viene chiesto: «Ma come ti è venuta in mente quest'idea?» e non so rispondere. Non conosco le dinamiche che mi portano all'ideazione. È difficile anche tracciarle, poiché ritengo che l'idea sia semplicemente la manifestazione esteriore di un movimento interiore, che include molti aspetti della persona: la sua formazione, i suoi desideri, la sua indole, ma anche il momento, il meteo, l'ora, lo stato emotivo. In sintesi, la creatività è un fenomeno complesso, che non può essere affrontato come una singola disciplina, ma piuttosto come una dimensione multidisciplinare. Ed è così che voglio affrontarla oggi, cercando di capire i meccanismi che portano all'idea.

Prima di tutto, vi è la persona: l'io, la mente. Questo insieme magmatico di paure, desideri, formazione. Le voci esteriori, come quelle dei nostri genitori, dei nostri amici, della società. Questa persona non è solo mente, ma anche emozione: il battito cardiaco, la respirazione, la voce. Sensazioni di abbandono, di felicità. Tutto lo spettro delle nostre emozioni veicola, all'io, una prospettiva unica sul proprio bagaglio interiore.

Poi, oltre l'io e le emozioni, c'è il corpo: la fisiologia. Stiamo correndo, camminando, digerendo; abbiamo nicotina, caffeina, sonno, appena svegliati. La nostra biologia, i nostri muscoli, quanto sono allenati, la nostra schiena, quanto è diritta. Ma anche se vediamo bene. Io, per esempio, sono miope, e questo mi limita tantissimo nella percezione del mondo. Senza occhiali, vivo in una bolla sfuocata. (Per chi volesse saperlo, mi mancano 5.25 e 5.75, che, diciamolo, mi mette di fatto tra le talpe del mondo.)

Ma questa mente, piena di emozioni in un corpo vivo, vive nel mondo. E qui entrano le dinamiche esterne. C'è la luce del sole, il pallore della luna. La musica di Chopin o il traffico cittadino. Fa freddo, fa caldo.

Ora vi svelo un segreto: le idee, secondo me, stanno nel numeno. E se tutte queste variabili, che ho elencato, sono tarate al punto giusto, in equilibrio tra loro, allora, a volte, entriamo in contatto con il regno delle idee, il numeno. Per chi non sapesse cos'è il numeno: Il numen, nella sua origine romana, rappresentava una forza divina o presenza spirituale che permeava il mondo naturale, guidando e influenzando la vita quotidiana attraverso entità o aspetti sacri della realtà. Questo concetto, trasposto nella filosofia moderna, trova un parallelo nella nozione kantiana di "noumenon" o "cosa in sé", che si riferisce alla realtà ultima che sta al di là della percezione umana e delle esperienze sensoriali. Cioè qualcosa che non possiamo conoscere.

Come fare, quindi, a ottenere questo allineamento? Metodo e disciplina. Cibarsi con cibi sani, sia per l'anima che per il corpo, che del mondo e circondandoci di bellezza, bellezza architettonica, bellezza artistica, musicale. Cercare arricchimento classico e curiosità. Approfondire le sfumature della realtà, infilarsi nelle pieghe del creato alla ricerca di ciò che non conosciamo. Camminare ad occhi aperti, grati dell'esperienza che ci è stata data di vivere questa Divina Avventura che è la vita.

Alla prossima pagina.

I limiti della perfezione

Nella "Divina Avventura" ho affrontato il tema della perfezione: del raggiungimento di quell'idea che abbiamo nel cuore, nella mente, ma che, in un certo senso, continua a spostarsi incessantemente. Il processo di ricerca che ci porta verso l'idea è la bellezza dell'arte, la sua natura più profonda. Per esempio, oltre a scrivere, gestisco questo sito sul quale, ogni lunedì e giovedì, pubblico il diario d'artista. Si tratta di un sistema complesso, che non starò a spiegare nel dettaglio, ma che coinvolge molteplici applicazioni e che può essere continuamente migliorato e ottimizzato.

Ho il terribile vizio di voler sempre migliorare anche ciò che funziona. Ripulire, ottimizzare, alleggerire sono cose che amo fare, come se risolvessi dei puzzle. Il problema è che spesso, nel farlo, rompo tutto. E, anzi, più rompo, più sprofondo nelle sabbie mobili della ricerca della perfezione. Non vi è mai capitato di rovinare tutto pur di migliorare qualcosa che non era nemmeno utile fare? Ecco, mi è successo la notte scorsa. Ho voluto pulire il database del sito da cose inutili – un lavoro che non era necessario, poiché non avrebbe cambiato nulla – e, nel farlo, ho rotto il sito. Ho passato tre ore, fino alle due di notte, a recuperare il salvataggio del giorno precedente e a rimettere tutto a posto com'era. Risultato? Quattro ore perse. Come potete vedere, il desiderio di perfezionare può essere deleterio.

Quante volte, mentre scrivo, mi rendo conto che il testo non è sufficientemente buono, che manca di umanità, di dettaglio, di vibrante emozione. E il primo istinto – fare editing – prende il sopravvento e sento l'irrefrenabile bisogno di mettere le mani sul testo, non a mente fredda, bensì a mente calda.

Per fortuna, ho imparato a tenere a bada questa pulsione, soprattutto grazie a Stephen King e al suo "On Writing", che non smetterò di consigliare a chi vuole scrivere. Uno dei principi fondamentali di King, in linea di massima, è quello di compartimentalizzare e far riposare il lavoro creativo. Questo significa, per esempio, non fare editing mentre si scrive. E ha ragione: sono due fasi completamente diverse. Una, la scrittura, è puramente creativa, esplorativa, un tuffo nell'ignoto. L'altra, l'editing, è razionalizzante, tendente all'ordine e alla comprensibilità. Certo, vi sono momenti in cui l'editing è creativo, così come vi sono momenti in cui la scrittura creativa è funzionale alla comprensione e non all'emozione, ma devo dire che evitando di fare le due cose insieme, si evitano disastri come quello che ho vissuto con il desiderio di migliorare qualcosa che andava già bene, perché assalito dal virus del perfezionamento.

La realtà è imperfetta, come ho spiegato in un articolo di un po' di tempo fa, la storia di una matita e della mia incapacità di non perderla. È importante saper fare i patti con il reale, abbracciare il superfluo come parte integrante della bellezza che ci circonda, accettare che la perfezione, a volte, è un passo indietro. Perché ci sarà sempre, per fortuna, qualcosa che sfugge alla mente razionale. Ed è proprio questa dimensione che dobbiamo raggiungere nell'atto creativo. E poi, dobbiamo fidarci di esso, pulirlo, limarlo, certo, ma anche inneggiarlo, difenderlo, amarlo. Insomma, come dicono gli americani: "If it ain't broke, don't fix it!". Che vuol dire "se non è rotto, non aggiustarlo."

A voi è mai capitato di perdervi in quel labirinto del perfezionamento che poi vi ha portato a rovinare tutto?

Alla prossima pagina.

Informativa sulla Privacy - Estratto

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Ultimo aggiornamento: 06 gennaio 2024

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