Sintropia

Il pensiero, affilato come lama
Taglia frontiere di cemento
Cuce distanze, come il vento
Piega i sensi e le montagne
Poi come il fumo, vola via
Lentamente, nella mente, assente,
Si dissolve in un ricordo,
In un eco, poi genetico.
Nell'erba, nella polvere, nelle stelle.

La parte più difficile

Qual è la parte più difficile di fare l’artista? Di fare il regista, l’attore, lo scrittore?

Io penso che potrei aprire una sezione del Diario d’artista dedicata solo a questa frase: «La parte più difficile.»

È difficile dare una risposta, perché affrontare questa domanda significa affrontare le nostre debolezze, i nostri pregiudizi.

A volte nascondiamo la parte più difficile a noi stessi. Siamo i primi a illuderci. Spesso, ci si ritrova davanti alla difficoltà e, invece di sormontarla, cambiamo rotta.

Quante volte abbiamo fatto scelte dettate dalla paura? E quante volte dettate dal desiderio?

Forse è lì che sta la parte più difficile per me: quando viene meno il desiderio. Sono vittima della fascinazione che desidero imprimere con l’arte. Voglio vivere affascinato, sono nel mio personalissimo labirinto della speranza.

Molti anni fa, un regista mio maestro mi insegnò che:

«Quando pensi ‘è troppo’, è proprio in quel momento che il lavoro inizia.»

Di questa filosofia ho fatto un mantra, spingendo la mia forza di volontà ben al di là di dove stava quando avevo vent’anni.

Appena uscito dalla scuola di recitazione, avevo recuperato qualcosa di me. Si era accesa una passione che mi ha messo in moto.

Eppure percepisco ancora la tendenza a mollare. Ma badate, non è vista come una resa, anzi. Più come un:

«È tempo di trovare altre erbe più verdi.»

Una sfida non raccolta mascherata da noia. Una fuga superba.

Sì, è proprio questo il mio punto debole: sono una farfalla, un’ape che vola di fiore in fiore.

Molti non lo sanno, ma nel corso della mia carriera d’attore ho fatto mille lavori: assistente alla regia, regista, tecnico attrezzista, produttore, montatore.

Tutto per poter continuare il mio sogno.

Ho cominciato per caso, se vogliamo, questa carriera. Uno spettacolo in TV mi ha attirato l’occhio. Gente che improvvisava. E da lì, scuola di recitazione, teatro, cinema, tv. Tutto liscio.

Ma forse proprio per questo ho continuato a coltivare il desiderio di altro. I miei “veri” sogni.

Dopo aver risparmiato con Distretto di Polizia e Un medico in famiglia, non ho comprato una macchina, né una casa. Ho investito in un sogno: quello di realizzare un videogioco per poter andare lì dove sognavo di andare da bambino. A Los Angeles, all’E3.

E lì ho avuto la gran fortuna di riuscirci e di aver trovato le persone giuste per quel viaggio.

La parte difficile è la fortuna, forse.

E ora sono nell’impresa delle imprese: produrre mondi, storie, sogni, pensieri, ragionamento attraverso delle saghe, dei romanzi lunghi. Dialogare con le anime degli altri, al di là del tempo presente.

Insomma,

Ho fatto tante cose, ma in realtà mi sento come se non avessi ancora fatto nulla.

È una strana sensazione, questa, no? Non vi capita mai?

Forse la parte più difficile è essere felici di quello che abbiamo.

Kato, nel finale de La Divina Avventura, si chiede cosa vorrebbe provare prima di morire, sapendo che quella sensazione lo accompagnerà per l’eternità.

Pensa alla gratitudine. Ma poi, quando si trova davanti alla morte, in quel momento decisivo, il suo pensiero tace, ed emerge la natura. Implacabile: il desiderio di vivere ancora un po'.

Andare avanti.

La parte più difficile è andare avanti.

Ma è anche quella più divertente.

Mai Abbastanza

Sono entrato alla Scuola del Teatro Stabile di Genova nel 2001.

Ho avuto la fortuna, nel saggio di fine triennio, di interpretare un personaggio storico realmente esistito: Évariste Galois, uno dei fondatori della matematica moderna, genio ribelle che partecipò ai movimenti rivoluzionari, alle barricate, agli amori e alle tragedie.

Se ne è andato troppo presto, eppure, nella sua breve vita, ha lasciato un segno indelebile nella conoscenza umana.

L’autore, Luca Viganò, aveva dato al personaggio una sfumatura tragica, quella del genio ribelle e incompreso, che contribuì al successo dello spettacolo.

Interpretare un personaggio lascia sempre qualcosa all’attore che lo incarna. Da una parte, regaliamo il nostro corpo alla poesia; dall’altra, arricchiamo la nostra anima di quella poesia, ce la portiamo dietro, oltre lo spettacolo, nella vita.

Di quel personaggio mi sono portato dietro l’urgenza.

La sensazione che la vita sia breve e che le cose da fare siano tante. Troppe.

Mi conoscete, non mi fermo mai. Finisco una cosa e sto già facendo la prossima.

In questo momento, per esempio, mentre faccio l’editing dell’ultimo volume de L’Anello di Saturno – eh già… ci siamo, sta per finire – sto già ragionando sul secondo volume della prossima saga.

La prima stesura del primo volume è già andata ai beta reader, un test per capire se la narrazione, i personaggi, i luoghie gli avvenimenti siano “a livello” per affrontare una saga in cinque volumi.

So già che riscriverò questi volumi, perché scrivendo la storia i personaggi diventeranno sempre più chiari, e questo mi costringerà a riscrivere battute, commenti e pensieri di ognuno di loro.

Tra l’altro, tra pochi mesi riprenderò Il Paradiso delle Signore, e il tempo a disposizione per scrivere si restringerà.

Devo quindi avere una mappa chiara e completa di come procedere nella scrittura durante le riprese. Devo occuparmi delle pagine, e meno della storia.

Non mi fermo mai, da quando ho cominciato a recitare, non mi fermo mai.

Perché? Non lo so.

Forse per paura della morte.

Per quella battuta, che Galois ripeteva così spesso:

“Non ho tempo.”

Ammetto che ancora ora, più di vent’anni dopo, sento di non avere tempo.

Vivo come se non mi rimanesse molto, nella speranza di incidere con la mia anima il tempo.

Una visione, tutto sommato, tragica della mia realtà, che allo stesso tempo mi spinge a realizzare, a fare, anche a scapito, ahimè, di salute e società.

Questo pensiero di voler “fare”, “realizzare” mi ossessiona a tal punto che preferisco scrivere piuttosto che uscire con gli amici.

L’arte è una passione, ma anche un’ossessione, che mi spinge, mi muove e, a volte, mi consuma.

Ormai sono grande, non so quanto riuscirò a mitigare questo mio motore.

Se ripenso al passato, a quando ho realizzato Sogno Farfalle Quantiche (© e prima o poi lo rimetterò nel sito), mi dico che il Flavio che ha ritoccato a mano 160.000 fotogrammi ora è un po’ più sano, solido, stabile.

Ma il fuoco è sempre lì, e se non lo curo, se non lo alimento, in me cresce la paura di scomparire senza aver lasciato un segno.

Chissà se un giorno supererò questo mio desiderio e mi assopirò sotto un salice, a godere del presente, del rumore del mare e degli uccellini.

Chissà.

Il seno della donna

Qualcuno mi ha chiesto come mai Anna copre il suo seno nella copertina del volume 4. Ne approfitto per fare un pensiero.

Il seno della donna e non dell’uomo… Infatti, c’è una disuguaglianza, ma è sensata? Perché esiste?

O piuttosto, a monte di una visione maschilista del mondo, ci sono ragioni logiche per cui il seno della donna è, se vogliamo, tabù? (Soprattutto nella società americana che, comunque, comanda le linee guida.)

Nella maggior parte delle società occidentali, il seno femminile è stato associato alla sessualità, mentre in molte altre culture è visto principalmente come simbolo di maternità e nutrimento. Questa sessualizzazione ha portato a considerare il seno femminile un aspetto privato o proibito, da nascondere in pubblico.

Le tradizioni religiose di molte culture hanno contribuito a normare il corpo femminile in modo più restrittivo rispetto a quello maschile. Ad esempio, in alcune interpretazioni di religioni abramitiche (cristianesimo, ebraismo, islam), il corpo femminile è stato percepito come un potenziale “strumento di tentazione”, e quindi soggetto a maggiore controllo.

La nostra società ha vissuto e sta vivendo una grande rivoluzione sessuale. L’Occidente, per quanto possa sembrare retrogrado a certi, è comunque il luogo dell’avanguardia su questo aspetto. Questo è un tema caldo, politico. E io non bazzico tali lande. A me piace la fantasia, la bellezza, le storie.

Poi, come Giuliana mi ha scritto, sono un artista-manager: ho due cappelli, quello del poeta e quello del commerciante. Quindi questa domanda, prima di tutto, va risposta con la concretezza inopinabile dei fatti.

La saga è una saga per ragazzi, 14+.

E mi direte: “Eh, vabbè, con tutto quello che vedono in TV o sul web”.

Sì, rispondo io. Ma non potrebbero. Lo fanno, ma non potrebbero. Ed è responsabilità mia, come genitore, tenere sotto controllo, dialogare e comprendere mia figlia, per evitare questo tipo di comportamento. Quindi, “tutto quello che vedono in TV e sul web” non è un argomento.

Per essere ancora più fattuale e mettere non solo il cappello del manager, ma proprio tutta la giacca e cravatta: Amazon è una società americana, e negli Stati Uniti il capezzolo femminile è tabù. Posizionarlo sulla copertina del libro avrebbe portato con sé il rischio di dover rifare la copertina, perdere il lancio e ritardare le vendite. Nulla di drammatico, per carità, ma sarebbe stato un peccato.

Quindi, davanti alla scelta se essere elegante e non esibire il seno direttamente sulla copertina, e farlo manifestando una libertà creativa che non era necessaria per me, ho preferito la prima.

Un giorno, forse persino per la prossima saga, potrei trovarmi di nuovo davanti al dilemma, e questa volta scegliere di mostrarlo. Perché quello che conta non è il gesto politico in se, ma quanto quella scelta sia in sintonia con la storia, con i lettori che desidero toccare.

Non sono le idee a comandarmi, a decidere per me. Sono io, con le mie idee, certo, ma non solo. Voglio raccontare storie, voglio farlo nel modo più ricco, fantasioso e semplice possibile. Il mio scopo è raggiungere il cuore dei più, perché nei testi che scrivo ci metto anche un messaggio. Un messaggio profondo, quella che chiamo “l’idea guida”, che porta con sé temi universali, umani. Temi che colpiscono la gente, perché cambiano una prospettiva e poi anni dopo, si ripercuotono nella politica, fatta da uomini, per gli uomini.

Un messaggio che viene svelato solo alla fine delle mie storie.

Qualità o quantità?

Cosa vuol dire fare arte? Cosa significa esprimersi? Perché?

Sono così tante le domande che mi pongo, domande esistenziali, certo, ma concrete. Cosa ci faccio qui? A cosa serve davvero fare arte? Forse dovrei occuparmi di cose più utili. Anche se ormai direi che è troppo tardi per laurearmi in medicina.

Ma no.

C'è qualcosa che mi spinge, ancora, a cercare di essere sentito, ascoltato, capito. A tentare con la forza delle parole, di toccare i cuori, le menti e le anime di chi ha la gentilezza di regalarmi il suo tempo.

Sapete cos'è lo Zeitgeist? È lo spirito dei tempi. Ieri leggevo un'intervista a Quentin Tarantino che dice che le serie e i film che escono sulle piattaforme di streaming (Netflix) non appartengono allo Zeitgeist. Sono come gocce nell'oceano della cultura, in quel fiume di parole e dati che ogni giorno sgorgano dai motori dell'umanità, dalle macchine e dai cuori di milioni di altri come me.

Penso che uno dei sommi desideri dell'artista sia proprio quello di appartenere allo Zeitgeist, di attraversare, anche per un solo momento, lo spirito dei tempi.

Il mio sarebbe di forgiarlo, di imprimere un pezzo di me nella coscienza collettiva. È un sogno grande, forse irraggiungibile in una società così veloce, che tanto facilmente sorvola o dimentica ciò che di profondo o sentito può essere scritto, detto, ripreso.

La contemporaneità è fatta di velocità. Di clip di pochi secondi che si rifanno alla cultura popolare, che non hanno autonomia, e per le poche che l'hanno, si tratta di un'autonomia tautologica. Parlano a sé stessi, di sé stessi.

Per chi mi conosce, tutto questo che racconto può essere trovato nelle mie poesie: "Reti sociali", "Sincronia". Le mie poesie sono l'espressione di questo desiderio, che a volte si fa disagio, quel tormento di essere straniero, alieno allo Zeitgeist.

Eppure, voglio farne parte. Da piccolo mi bullizzavano. Davvero. E uno dei ricordi più dolorosi per me è quello di ricordare con terribile precisione il desiderio che aveva quel piccolo Flavio di essere accettato da quelle persone che tanto gli facevano male. Non ho l'Anello di Saturno, non posso tornare indietro e dirgli che andrà tutto bene. Posso però guardarmi allo specchio, da uomo di 45 anni, e chiedermi come fare a crescere ancora.

Vi starete chiedendo perché del titolo. Qualità o quantità, che c'entra con lo spirito dei tempi, con l'arte, con il desiderio di appartenere?

C'entra eccome.

L'artista deve, in ogni secondo della sua creazione, decidere la soglia di compromesso che è disposto a fare per far parte del mondo che lo circonda. Spesso, si isola, e spera segretamente che qualcuno lo scopra e lo porti con il palmo della mano sotto la luce dei riflettori. Altre volte, abbandona la strada per strade meno burrascose, altre volte ancora, trova quell'equilibrio che gli permette di fissare la sua impronta.

Io credo nella teoria dell'evoluzionismo. E credo che valga anche per le opere d'arte. Perché un'opera possa superare il tempo, deve avere più di una qualità: deve rappresentare lo spirito del tempo, certo, per espandere il suo raggio d'azione, per toccare più cuori possibili, ma deve anche avere in suo seno la classicità dei temi e una profondità filosofica che le permetta di rimanere potente anche dopo che i tempi sono cambiati.

"Scrivi per i vivi, pensando che ti leggeranno da morto."

In una società connessa come questa, sembra che l'impronta si possa lasciare solo con la quantità. Moltiplicare i post, moltiplicare i video, moltiplicare! Di più è meglio! Ma non è sempre così, come dico in "Little Bang": è solo dopo lo zero che nasce quel che conta.

Quindi cosa dovrebbe fare un artista? Moltiplicare le sue creazioni a discapito dell'originalità, oppure aspettare e fare in modo che ogni singola creazione possa raggiungere il massimo numero di persone possibili?

Dipende. Dipende da molte cose. Io vedo la scrittura, la poesia, i miei libri, come il cuore pulsante della mia anima. In loro vi è tutto me stesso, il mio pensiero, il mio cuore, anche il mio sudore. Non posso moltiplicare ciò che è prezioso senza svalutarne il valore. Quindi propendo per la seconda opzione: approfondire e fare in modo che ognuna lasci un'impronta nello Zeitgeist. Come faccio? Con il marketing, con l'utilizzo dei social network, anche con questo Diario, che mi permette di avvicinarmi a voi in maniera diversa e chissà, incuriosirvi a leggermi in qualcosa di più profondo che un articolo su un blog.

Questo diario è la testimonianza del mio viaggio, un antro complesso di sistemi e desideri, di recitazione, scrittura, imprenditoria, nel quale, piano piano, cerco di trovare una quadra.

Elogio alla gentilezza

La gentilezza è una qualità rara, delicata e timida, che però, quando emerge, rende il presente un momento di piacere e comunione. È una forma di intelligenza inclusiva, che include, all'interno del pensiero, anche l'altro.

I miei genitori sono persone gentili e, di rimando, lo sono anche io. Spesso penso all'altro, a come reagirebbe se dicessi questa o quell'altra frase. Spesso taccio se capisco che in quel momento è l'altro ad aver bisogno di essere ascoltato.

Mi chiedo se la gentilezza non nasca da un velato senso di colpa, da un pensiero che di sfuggita ci ricorda che non facciamo abbastanza per gli altri. Forse, ma anche se fosse, non cambierebbe l'effetto benefico che può avere sia sugli altri, ma soprattutto, e qui entra l'artista che c'è in me, su di noi e sulla nostra capacità di crescere e affrontare le crisi.

Essere gentili significa ascoltare. E nella carriera di un artista, l'ascolto è importantissimo. Se in una prima fase, "chiamiamola scolastica", l'artista è costretto ad ascoltare i propri maestri imposti dalla strada che ha scelto, poi dovrà trovare i suoi maestri e sceglierli lui. Questo non è possibile se non vi è un buon grado di ascolto di ciò che ci circonda. È l'allievo che sceglie il maestro e, perché questo succeda, ci deve essere, in entrambi, maestro e allievo, gentilezza.

Badate, in questo caso la gentilezza non significa dolcezza o servizievolezza, al contrario. Un maestro può toccare punte di severità incredibili quando trova un allievo pronto ad assorbire veramente la sua arte, a rinnovarla per la sua generazione. Ma lo fa con gentilezza, ascoltandolo.

Si può dunque essere severi e gentili, duri e gentili, ma non cattivi e gentili. Dove sta la differenza? Nel rispetto della persona. E l'unico modo per rispettare una persona è ascoltarla.

La gentilezza dunque, nell'arte, è ascolto. Questo vale sia per quanto riguarda l'esecuzione, come ad esempio nella recitazione: un fattore fondamentale che determina quanto è bravo un attore a recitare è la sua capacità di ascoltare il proprio partner. Ma vale anche per un'altra forma di gentilezza, spesso sottovalutata o persino ignorata, la gentilezza verso noi stessi.

Spesso si parla di obiettivi, di raggiungere il successo, che sia ricchezza, fama, una famiglia, non importa. Ogni obiettivo che nasce dalla gentilezza è da rispettare. Ma dobbiamo anche rispettare la persona che siamo. Ascoltarci, ricordare da dove veniamo, cosa ci rende forti, cosa ci mette in difficoltà. Crescere è importante, ma va fatto con amore per se stessi. Con gentilezza.

E questa ultima frase la dedico a me. Purtroppo lì sono abbastanza carente. Penso spesso che il tempo che dedico a tutto ciò che non è "nel mio mirino" sia tempo perso. È un pensiero sbagliato, ne sono ampiamente consapevole, eppure quel senso di colpa che mi attanaglia ogni volta che non "sto sul pezzo" oppure che non "faccio la mia quota" è difficile da debellare.

Insomma, siamo quello che siamo, luci e ombre, forza e difetti.

L'importante, come diceva qualcuno, è essere gentili. Sempre.

Il momento giusto

Quando è il momento giusto?

Il mio lavoro, l'attore, è in parte l'arte del momento giusto. Un bravo attore riesce a sembrare al posto giusto al momento giusto. Questo lo rende sia credibile che emozionante. Mi piace comparare l'arte della recitazione con quella sportiva, perché nel recitare vi è una componente di performance tipica dello sport, ma in una dimensione più umana, più empatica. L'arte dell'empatia.

Per esempio, per un calciatore, quando è il momento giusto di calciare la palla? Poco prima? Poco dopo? Diciamo che sono tutti bravi con il senno di poi… ma quello che conta è il momento. Quell'istante in mezzo ad altri mille istanti nel quale, se viene eseguita l'idea, l'emozione, il calcio al pallone, la realtà si trasforma, e un gesto diventa una lacrima nell'occhio di chi lo guarda, un urlo liberatorio, uno stupore indimenticabile.

Questo è vero anche nel processo creativo. Io sono un grande fan di Socrate. Per me, lui è stato superiore a tutti i filosofi dopo di lui, perché Socrate aveva chiaro quanto fosse pericolosa la parola scritta. Quanto fosse pericoloso definire i pensieri, forgiarli nell'eternità di una parola. La vita è mutevole, cambia come le maree, e anche i pensieri, persino le parole. In un certo senso, il vano tentativo di rimanere immortali con le parole si scontra con la realtà del creato, che si fa piuttosto beffa di tutto ciò che lasciamo ai posteri.

Dicevo di Socrate. Il pensiero. Il processo creativo. Io provo, almeno all'inizio della genesi di un'idea, a non scrivere nulla, proprio per non perdere il momento giusto. C'è un momento per fissare i pensieri, per forgiarli in modo inequivocabile, che non permette poi di tornare indietro. Ma fino a che il pensiero rimane dentro di noi, nella nostra mente, nel nostro cuore, non ha una vera e propria forma, siamo noi la forma di quel pensiero, ed esso muta e si conforma al nostro sentire. È vivo.

E quando si decide di mettere su carta un'idea, in un certo senso, la si uccide. Come le farfalle che diventano oggetti di collezione, le idee appuntate alla carta sono la forma primordiale di un oggetto destinato all'esibizione, più che alla personale ricerca.

E quindi grande Socrate, che è riuscito, in tutta la sua carriera di filosofo, a non scrivere nulla, almeno non ci è arrivato nulla, ma solo a plasmare la mente di coloro i quali hanno definito il modo di pensare occidentale per migliaia di anni a venire.

Ho uno strano rapporto con il mio inconscio. Mi fido di lui, e spero che lui si fidi di me. Quando ho un'idea, non la fisso, non la metto in un taccuino, la lascio riposare nel calderone dell'inconscio, conscio (si fa per dire) che sarà lui a restituirmi qualcosa di più morbido, più impastato e amalgamato, nel tempo.

L'arte è come la cucina: spesso, una cottura lenta produce sfumature di profumo e di gusto assolutamente uniche.

Come essere felici

La felicità, bel mistero.

In un film che girai ormai più di dieci anni fa, chiamato "Io sono l'amore", il personaggio di mia sorella, interpretata dalla bravissima Alba Rohrwacher, alla mia domanda "Sei felice?" rispondeva con: "Felice non si dice, è una parola che immalinconisce."

Non sono d'accordo. "Felice" si dice eccome!

Chi conosce il film sa che questa frase proveniva dall'ambiente borghese Milanese del nord, un po' freddo, lasciatemelo dire, persino per me che vengo da Parigi. "Felice" si dice. Anzi, la felicità dovrebbe essere un faro che ci guida quotidianamente nelle nostre scelte. Certo, tutto deve essere mediato da equilibrio: prima di tutto la nostra felicità non può diventare causa dell'infelicità altrui.

Inoltre, è importante ricordare che la spinta alla gioia, all'entusiasmo, al lato bello delle cose, deve essere coltivata ogni giorno, proprio per non farla scemare in quel grigiore che si porta via il sole.

Ma come si fa ad essere felici? Mi viene in mente un aneddoto divertente che mio padre mi disse un giorno in macchina: "Vuoi controllare la tua felicità? Fai come quel monaco tibetano, che passava tutto il giorno a frustarsi i cosiddetti. Viveva tutte le sue giornate in un dolore inenarrabile, e non si fermava mai." "Vabbè ma così mica era felice" dissi. "Certo che no. Ma quando smetteva, lo era. Se davvero vuoi controllare la tua felicità, ti tocca fare così: controlla la tua infelicità, ma non ne vale la pena." Quanta saggezza. È proprio così, non si può controllare la felicità, essa viene e va.

Però, sotto sotto, sono convinto che ognuno di noi sappia ciò che lo rende triste o malcontento, e anche ciò che lo rende una persona migliore. Forse essere felici vuol dire proprio questo: Fare qualcosa che ci rende una persona migliore di quella che eravamo prima. Non intendo in maniera etica o morale. Non voglio dire di fare beneficenza o occuparsi dei più deboli (che comunque ben venga), intendo che dobbiamo stimolare quell'agente interno che ci fa sorridere. Perché quando facciamo qualcosa che ci fa sorridere, lo facciamo meglio e più a lungo. É il sorriso a renderci migliori.

Così, ora mi chiedo: cosa mi fa sorridere? Quale è il pensiero che mi riempie di felicità e speranza e mi regala un sorriso? Penso che in questo frangente della mia vita, oltre a mia figlia, (ma li vabbè, gioco facile) forse è scrivere. Scrivere produce in me reazioni ambivalenti: a volte mi intimorisce, certo, ma il più delle volte provo un vero entusiasmo nel perdermi nelle storie, nel cercare di stupirmi raccontando, scoprendomi a mia volta.

Mi fa sorridere persino scegliere la forma giusta, le parole giuste, il punto e il capoverso giusto. È proprio il processo nella sua interezza che mi entusiasma. Addirittura, mi entusiasma anche l'idea di farlo diventare un lavoro, un'impresa. A proposito, come avete visto, ho rifatto il sito internet, che è la casa dal quale parte un po' tutta questa mia avventura da scrittore ma anche da attore, regista produttore.

Se lo spulciate un po', se leggete le mie poesie, che interpreto, oppure date un occhio alla mia biografia, capirete che questa avventura creativa non è certo nata ieri. Anzi, ha radici molto profonde che risalgono persino a tempi antecedenti il mio percorso di attore.

E a voi? Cosa vi fa sorridere? Vi aspetto nei commenti.

Tempo di cambiamenti

Il tempo è un'illusione, eppure il suo effetto su tutti noi è manifesto e inarrestabile. Cosa rappresenta una data, se non un punto immaginario in uno spazio immaginario? Tuttavia, ci ritroviamo qui, pronti a celebrare ogni volta che possiamo quella frontiera costituita da minuti, anni e secondi.

Devo ammettere che i compleanni non mi piacciono. Mi vergogno di festeggiarmi, almeno non pubblicamente. Preferisco gratificarmi personalmente, magari concedendomi una deliziosa cena di coppia in un ristorante romantico, o un viaggio verso località inesplorate.

E se non mi piacciono i compleanni, potete immaginare il mio pensiero sul Capodanno. Abbiamo stabilito che in quel momento, tutto cambia. Che "da ora in poi, sarò finalmente la migliore versione di me stesso." Ma, diciamolo francamente, è solo un pretesto. Un modo per nascondere sotto il tappeto tutta la polvere accumulata durante l'anno, sperando che scompaia magicamente.

Le nuove risoluzioni sono una iniezione di fiducia, ma anche una forma di autoinganno. Il cambiamento avviene gradualmente, passo dopo passo. Esiste una regola non scritta nella realtà: ciò che si costruisce lentamente, si dissolve con la stessa lentezza. Più accurata e organica è la costruzione di una trasformazione, più solido e duraturo sarà il risultato. È come nella cucina: una cottura lenta, priva di fiamme violente, fa emergere sapori intensi, che rimangono impressi non solo al palato, ma anche nella memoria.

Il tempo... è una costante mutevole, che varia a seconda del nostro stato d'animo. Scorre velocemente quando siamo felici e sembra eterno nei momenti di apatia o tristezza. Il tempo è un concetto così affascinante che ne ho fatto il tema centrale della saga dell'Anello di Saturno. Benché sia stato esplorato in mille modi, sono convinto di poter offrire una prospettiva unica e originale. E questo 2024, si sa, sarà l'anno di Saturno!

Insomma, il nuovo anno è arrivato. Ma non solo il nuovo anno, anche il nuovo mese, il nuovo giorno, anzi, la nuova ora, il nuovo minuto! Tante avventure quante le stelle nel cielo!

Buon anno a tutti. Vi auguro una continua e graduale trasformazione verso l'apice dei vostri desideri.

Una giornata particolare

Oggi non ho voglia di scrivere, non ho voglia di parlare. Ci sono giorni in cui il silenzio è il miglior amico del pensiero. Ma poi, ripenso ad Eminem, che ogni giorno scrive chilometri di testo. E alla domanda "Ma poi cosa fai con tutti questi brani?" lui risponde "Questi non andranno mai in registrazione, questi li scrivo per non perdere la penna."

Non perdere la penna. Mi piace come espressione, non voglio perderla nemmeno io. E poi, questo spazio è anche un luogo dove, attraverso la scrittura, scavo dentro di me, mi cerco, provo persino a parlarmi, a chiedermi come sto.

La vita è complessa, più si va avanti e più i pezzi in gioco sono tanti, e ogni scelta diventa una ragnatela di conseguenze che sembrano andare aldilà della nostra capacità di comprensione. E quindi come fare? Come agire? D'istinto? Oppure scrivendo tutto su un pezzo di carta e poi rileggersi per capire dove siamo?

Non lo so.

Una cosa che mi aiuta, quando sono perso, è proprio questo scrivere. Questo dedicarmi a qualcosa che produco, che realizzo e che poi vi regalo. É un piccolo obiettivo, un mattoncino in quello che poi, un giorno, sarà la raccolta di un mio periodo.

Mio padre, un giorno, mi disse che il segreto della felicità è riuscire a fare una cosa al giorno. Farla, finirla. Io per quello che riguarda i miei obiettivi, che siano quotidiani o a lungo termine, uso una applicazione che si chiama "ToDo". Ho suddiviso i miei obiettivi in varie categorie. Ci sono le attività da fare a breve, e poi ci sono i miei progetti, il diario d'artista, l'Anello di Saturno, il paradiso delle signore, e poi ci sono categorie selvagge, come "idee di scrittura" oppure "libri e film da guardare e leggere".

Ne ho anche una che è "La casa perfetta" in cui metto ogni cosa/idea che trovo e che mi ispira per una casa dei sogni. Dentro ci sono cose assurde come "un pianoforte a coda che suona da solo in salone" oppure "Accanto ad un mercato" e molte altre chicche che disegnano una parte di sogno che un giorno, chissà, forse realizzerò.

La settimana è stata complessa, ho girato il paradiso delle signore, poche scene, il mio personaggio, Tancredi di Sant'Erasmo, attraversa, in questo momento di set (che è traslato di circa tre mesi con la messa in onda) una fase simile a quella che sto vivendo io: è in una bolla, in attesa di.

Ho scritto molto, sono arrivato quasi alla fine del terzo volume dell'Anello di Saturno. Il primo volume è addirittura pronto per la stampa. Voglio arrivare a giugno che tutto è pronto per voi. Ho scelto di pubblicare i cinque volumi a tre mesi di distanza. Ascoltando le vostre risposte, mi è sembrato un buon compromesso tra attesa e desiderio.

E poi c'è la mia vita, quella semplice, fatta di Elettra, di famiglia, di portarla a scuola, vederla crescere ogni giorno. I suoi pensieri sono sempre più raffinati, la sua proprietà di linguaggio anche. Ha un entusiasmo che le invidio, e che, lo ammetto, mi contagia.

Che fortuna averla vicino.

A volte ha anche delle idee bellissime, e quando le racconto delle storie, me ne suggerisce delle migliori. Vorrei essere di più con lei, essere più capace di dedicarle il mio tempo. Ma poi ecco che ricasco nel mio desiderio di produrre, che fagocita tutto. E non riesco a fermarmi, non riesco ad abbandonare questo fuoco.

Per fortuna, il mio lavoro ha anche molte bolle di tempo libero, e penso di essere un padre presente, seppur folle, che le trasmette questa sua passione per l'espressione, per il gioco, le storie, la magia.

Cosicché un giorno, come un "eco genetico", sarò vivo nella sua voce, oltre che nel suo cuore.

Ecco, poi emoziono troppo.

Voglio un luogo comune

Il luogo comune... prima di tutto cos'è?

Un luogo comune, noto anche come cliché o banalità, è un'idea, espressione, opinione o elemento narrativo che, a causa del suo uso eccessivo, ha perso di originalità, impatto ed efficacia. Si tratta di un pensiero o un concetto che è diventato così familiare e ripetitivo che non suscita più interesse o riflessione critica. I luoghi comuni possono essere trovati in vari contesti, dalla letteratura alla conversazione quotidiana, e spesso servono come scorciatoie per esprimere pensieri complessi in modo semplice, anche se a volte superficiali.

Una definizione tutto sommato negativa, che induce a pensare che il luogo comune sia tanto banale da dover essere bandito dal discorso collettivo.

Eppure, ieri, ragionando, mi sono reso conto che se non ci fossero i luoghi comuni, luoghi che per tutti noi vogliono dire la stessa cosa, non potremo discutere. Il luogo comune è un ponte che possiamo attraversare insieme, un luogo in cui non serve discutere, perché siamo già d'accordo. É un luogo di pace.

Persino la parola è luogo comune. I nomi delle cose non sono forse luoghi comuni? Se ognuno di noi chiamasse la rosa per un altro nome, potremmo davvero discutere della sua bellezza senza incappare in complicati malintesi?

In un momento così teso della società, in cui muoiono persone per volontà altrui, dove le bombe sono giustificate dall'odio, e l'odio è giustificato dalla fede, come si può non amare il luogo comune? Perchè alla fine, è proprio di questo che abbiamo bisogno.

Di un luogo comune.

E ce lo abbiamo, è qui. É attorno a noi. É un ragionamento utopico, idealista, ne sono consapevole, ma lasciatemi almeno una volta sognare il desiderio di un'umanità unita, che accetti che la terra sia la terra di tutti, che possa vivere insieme, in pace, collaborando, senza che individui pretendano ciò che è di altri come se fosse loro. Un'umanità che non eserciti più violenza, ma provi sempre, in ogni momento, a cercare un dialogo, un punto d'incontro: un unico luogo comune.

Forse un giorno ci arriveremo, grazie alla tecnologia, grazie ad un rinnovato umanesimo che, confrontato con i suoi limiti, porterà l'uomo alla consapevolezza di ciò che è: un piccolo granello di sabbia tra le ruote del cosmo, insignificante, periferico, fragile come una scintilla nei fondi del mare. E in quel momento, chissà, forse un granello si alzerà, aprirà le braccia e chiederà all'altro granello accanto a lui di prendergli la mano.

E tutti rimarranno a guardarsi, ad abbracciarsi, e a godere di quel poco di fortuna che ci è stata data.

I bambini non hanno colpe.

Che cos'è l'originalità?

Ricorderò sempre le parole di Anna Laura Messeri, che fu la direttrice della scuola del teatro stabile di Genova, nella quale ho avuto la mia prima vera infarinatura artistica.

Ognuno dei miei maestri aveva una cultura teatrale, artistica - e attoriale - davvero vasta. Aver potuto frequentare queste persone, ascoltarle, il tutto gratuitamente, è stato per me una fonte inesauribile di creatività per gli anni a seguire. Ogni volta che mi sento perso, oppure che non so quale scelta fare, tendo a ritornare a quei momenti, a quelle discussione che avevo con ognuno di loro, e ricordo i consigli fantastici che ricevevo.

Insomma, un giorno la direttrice, notando la mia ossessiva ricerca di originalità, mi disse una cosa che mi colpì davvero molto: "Flavio, essere originali non vuol dire non copiare. Essere originali vuol dire non essere copiabile!"

Una frase che sembrò un tuono per quanto scosse le mie certezze. Ma come, l'originalità quindi non è un rifugiarsi in luoghi dove nessuno è andato? Non è tentare nuove strade che nessuno hai mai osato?

Ero confuso. Avevo sempre visto l'originalità nell'arte come un segno di distinzione, di ricerca. Poi, compresi meglio cosa intendeva con quella frase. Rimuginando per giorni, cercando di spiegarmi meglio cosa intendeva, compresi: l'originalità è nella capacità dell'artista di far emergere la propria essenza, poiché essa non può essere copiata, in quanto perfettamente allineata con l'anima e la tecnica dell'artista.

L'originalità non è nel gesto tecnico e nemmeno nel concetto espresso e neanche nella potenza - o qualità - interpretativa, ma è in tutte queste sfaccettature insieme. Solo un approccio olistico può essere così complesso e originale da non essere "copiabile". L'artista diventa unico quando la sua espressione tecnica è naturale come il suo respiro, quando la sua immaginazione è libera - proprio grazie alla tecnica - di farsi comprendere da coloro che sono "fuori" dalla sua anima.

Ecco cos'è l'originalità. Non è una moda, non è una ricerca ossessiva del diverso. No. Siamo noi e tanto olio di gomito. Così tanto che finisce per sparire e fa emergere il diamante che ognuno di noi ha dentro.

Se davvero vogliamo essere originali, dobbiamo essere fedeli ai nostri desideri, a quello che sognavamo di essere a 5 anni, ma non è sufficiente. Poi dobbiamo studiare, studiare così tanto che non ce la facciamo più, e poi ancora e ancora. Fino a che lo studio diventa la forma naturale del nostro procedere, fino a che non siamo, noi stessi, l'espressione della tecnica che abbiamo fatto nostra. Solo in quel momento, potremmo, forse, ambiare all'originalità.

Questo pensiero sembra in una posizione quasi diametralmente opposta con un'altra famosa, attribuita a Picasso (sebbene la provenienza sia oggetti di dibattito): "Il bravi artisti copiano. Il grandi artisti rubano".

Cosa vuol dire? Che il grande artista deve avare una sensibilità capace di cogliere l'unicum di ciò che ha di fronte. Questo non vuol dire però che, fatto questo "furto" (se davvero possiamo chiamarlo così), allora l'artista produce arte originale. No. Quello che intende dire la frase è che il processo di imitazione è sì, alla base della creatività, ma non è la punta.

Si parte dall'imitazione, proprio per un giorno farla così tanto nostra da reinventarla, da produrre qualcosa di originale, proprio perchè intrisa della nostra essenza, della nostra anima.

E invece per voi, che cosa è l'originalità? Vi aspetto nei commenti.

Quanto conta la disciplina nell'arte?

Spesso, quando si parla di disciplina, si pensa ai militari, alle righe perfette, ai movimenti sincronizzati dell'armata rossa, alle severe bacchettate dei maestri degli anni 50.

Pochi, credo, quando sentono la parola "disciplina" pensano all'arte.

Eppure, l'arte richiede una grande disciplina. E non solo formale, ma anche mentale, emotiva. Ci vuole tempra per scavare dentro sé stessi e mostrare quello che abbiamo trovato agli altri. Quel "folle coraggio" di cui parlo spesso. Ogni arte ha la sua specifica disciplina. Per esempio, i cantanti fanno le scale, i ballerini la barra, gli attori leggono, parlano, allenano la parola.

E gli scrittori?

Gli scrittori scrivono. La disciplina dello scrittore è relativamente semplice. Ogni giorno, bisogna scrivere. Non importa se scrive un libro, oppure un diario o una poesia, l'importante è che le dita volino sulla tastiera! L'immaginazione è come un cavallo selvaggio, come Spirit nelle colline statunitensi. La libertà di viaggiare, di cavalcare l'erba, l'affrancamento dalla paura di esprimersi, si ottiene perdurando nell'esercizio.

Alcuni giorni fa mi chiedevo se valesse davvero la pena continuare a produrre due episodi a settimana del Diario. Ognuno di essi mi richiede un grande lavoro. Sia di scrittura che poi di registrazione, montaggio, etc…

Ne parlai con una ragazza scrittrice conosciuta su Instagram. E Le espressi questa mia incertezza. Lei mi disse che per lei il diario era diventato un appuntamento importante. Che lo aspettava con ansia. E che quando riceveva l'email con l'articolo, si ritagliava un momento speciale durante la giornata, si faceva una tisana e mi ascoltava in cuffia.

Devo ammettere che questo suo messaggio mi ha scaldato il cuore. Scrivere non è come essere a teatro, non ci sono gli applausi a fine spettacolo. Però ci sono i commenti, e grazie ai Social, a volte, quando la disciplina cede, il sostegno arriva da voi. E questo è davvero bello.

Insomma, continuerò, con disciplina, a scrivere il diario. Ma soprattutto sono arrivato alla conclusione che in fondo io non scrivo questo diario solo per voi. Ma pure per me stesso. Il diario serve, quasi come in una terapia, a scoprirmi, a sublimare le mie paure insieme a voi, attraverso un processo creativo, artistico.

Ogni pagina è una fotografia del mio spirito, che poi condivido con voi, provando a renderla il più interessante possibile, affinando la mia tecnica di scrittore e di attore.

In una società dominata dai video di 15 secondi, da messaggi fatti di emoji, da una comunicazione tanto dura quanto superficiale, penso che sia importante ritagliarsi un momento per andare a fondo, per racchiudersi in un pensiero, in un'emozione che non sia solo fatta di dopamina, di paura o di sesso.

Esistono le sfumature, e sono meravigliose. Dobbiamo accarezzare l'anima e mostrare a coloro che si sono dimenticati cosa significa, che è bello, che farlo ci permette di conoscerci e di diventare più forti.

Un articolo che ho letto alcuni mesi fa mi ha scioccato. Vi lascio il link se parlate l'inglese. In sostanza dice che circa 5-7 persone su 10 NON hanno un dialogo interiore.

Non ci potevo credere. Faccio ancora fatica a crederci. Possibile che così tante persone abbiano dentro solo il silenzio? Possibile che mentre camminano per strada siano assorti dal mondo e non dai loro pensieri? Non so se augurarmelo o no. Io non riesco a fermare i miei  pensieri, le idee. Non penso nemmeno di volerlo. Ma chissà, forse il silenzio è il segreto della felicità…

Voi che ne pensate? Ci credete a questa teoria che la maggioranza delle persone non ha un dialogo interiore?

Interpretare "La Principessa sul Pisello"

Oggi desidero discutere sul senso delle cose. È giusto voler attribuire un significato a tutto? È corretto desiderare di trasmettere un messaggio chiaro, oppure è preferibile raccontare una storia nel migliore dei modi e lasciare che sia lo spettatore a interpretare la morale? È un dilemma interessante, ricco di sorprese inaspettate.

Ricordo una volta in cui scoppiò un acceso dibattito tra i miei genitori riguardo alla favola "La principessa sul pisello". Molti di voi la ricorderanno. In sostanza, la storia racconta di un principe che, dopo aver cercato invano una principessa adatta, si lamenta una sera di temporale che non esistono donne abbastanza sensibili, belle e delicate per lui. La madre, che ha respinto tutte le pretendenti con la fermezza tipica di una suocera, concorda con lui. Durante quella notte tempestosa, una giovane ragazza, fradicia dalla testa ai piedi, bussa alla porta del castello. Ha un volto splendido e modi garbati, e afferma di essere una principessa proveniente da un regno lontano, venuta per incontrare il principe. La regina, molto scettica, decide di mettere alla prova la delicatezza della presunta principessa. Ordina alla servitù di preparare un letto con ben sette materassi, e sotto il primo materasso - quello in fondo alla pila - pone di nascosto alcuni piselli secchi. La ragazza ringrazia per l'ospitalità e si ritira a dormire.

La mattina seguente, con un bel sole a illuminare il cielo, la giovane esce dalla stanza. La regina le chiede subito: "Come hai dormito, cara?" "Terribilmente", risponde la ragazza. "È come se avessi dormito sulla roccia. Questi materassi sono davvero scomodi, non so come riusciate a dormirci sopra!" In quel momento, la regina capisce di avere a che fare con una vera principessa. Non passa molto tempo prima che il principe e la giovane si sposino e, come si suol dire, vivano felici e contenti. (Anche se ho qualche dubbio, e ora vi spiego il perché.)

Ero nel grande salone di casa a Milano e non ricordo come, ma io e i miei genitori finimmo a parlare di questa favola. La cosa più stupefacente furono le due diverse interpretazioni che emersero dalla storia. Uno dei due sostenne che "La principessa era così sensibile, con una pelle così fine e un'anima così delicata, da sentire persino i piselli sotto sette materassi". L'altro invece affermò: "Ma no, è evidente che non è possibile sentire tre piselli sotto sette materassi. Il fatto stesso che la principessa si sia lamentata di sette materassi dimostra che è una principessa! La regina ha capito che era una principessa perché, nonostante avesse tutto per dormire alla perfezione, si è lamentata comunque!"

Come è possibile che due interpretazioni così diverse possano emergere dalla stessa storia? Questo è, come ho già accennato, il potere dell'attribuzione. Ma è anche il potere della lettura. La lettura è un atto creativo, che genera in chi legge idee, visioni e morali singolari, specchi del nostro io. Nel processo di lettura non c'è "imposizione" del pensiero, ma piuttosto "creazione" del pensiero. Leggere significa libertà, crescita, autonomia. È l'esperienza più vicina che abbiamo al vivere qualcosa, senza i rischi annessi.

Quindi leggete! Leggete! Leggete! Chissà, forse una storia già letta potrebbe rivelarsi, dopo una rilettura, una storia completamente diversa.

Come la recitazione mi ha aiutato ad affrontare la timidezza

Quando ero un ragazzino, un giorno mio padre mi disse qualcosa che sconvolse la prospettiva sul mondo. Mentre mi parlava, stavo a braccia incrociate con un'espressione accigliata sul volto. Dovevo avere circa 13, 14 anni. Mi chiese se lo stavo ascoltando. Risposi di sì, ma lui replicò: "Se una persona ha le braccia incrociate, significa che non è aperta al dialogo, quindi non mi stai ascoltando davvero."

Dopo questa rivelazione, il mondo intorno a me cambiò. Cominciai a osservare i comportamenti degli altri: il modo in cui si comportavano, le braccia incrociate, le gambe incrociate, lo sguardo distante piuttosto che intensamente impegnato nell'interazione con me. Fu come se avessi scoperto una nuova dimensione della comunicazione, ed in effetti era così.

Questo percorso continuò, anni dopo, nei miei studi di recitazione. Dopotutto, quale altro mestiere costringe a una profonda comprensione dei comportamenti umani, con l'obiettivo di riprodurli o addirittura di assimilarli? Grotowski, in un celebre aneddoto, pose questa domanda: "Immaginate di essere in una foresta e di trovarvi davanti a un gigantesco grizzly. Cominciate a correre, quasi istintivamente. La mia domanda è: avete paura e quindi correte, oppure correte, e correndo diventate paurosi?"

Questa domanda racchiude uno dei grandi paradossi della recitazione: si giunge a un'emozione dall'esterno (la corsa) o dall'interno (la paura)? Da questa premessa nascono vari metodi di recitazione che cercano di favorire un approccio piuttosto che l'altro. La recitazione moderna, da Stanislavski all'Actor's Studio, propende per una ricerca interiore, per stabilire nel proprio io un'analogia personale con ciò che il personaggio prova, al fine di essere autentici. Ma è veramente così? Un altro famoso aneddoto coinvolge Laurence Olivier e Dustin Hoffman sul set de Il Maratoneta. Quest'ultimo amava correre per chilometri per entrare nel ruolo e un giorno Olivier gli disse: "Perché fai tutto questo? Devi solo recitare."

Io mi allineo più alla scuola di pensiero di Olivier, credo nella recitazione come un atto sincero e immediato, privo di psicologismi, che permette al personaggio di emergere, non nascosto dietro le rughe dell'attore, ma tra le righe del poeta.

Quindi, grazie alla consapevolezza acquisita attraverso la recitazione, a 20 anni decisi di non incrociare mai più le braccia. Ho trascorso i successivi 20 a impormi di essere aperto, costringendomi in un certo senso a essere ricettivo verso ciò che mi circondava. Questo è stato molto utile per me, dato che il mio essere timido e introverso aveva bisogno di questo cambio per trovare vitalità e crescita.

Poi, un mio maestro mi lasciò in una lettera d'addio, queste parole: "Ricorda: è proprio quando dici 'è troppo' che il lavoro inizia..." Niente di più vero. Così vero che, a un certo punto, intorno ai quarant'anni, mi resi conto che era arrivato il momento di incrociare nuovamente le braccia. Ero così abituato a non farlo, che la mia "crisi" sarebbe stata proprio questa: ritornare dentro di me. Riscoprire quella introversione che mi aveva plasmato così profondamente. Il mio primo cuore.

E quindi eccomi qui, a scrivere libri e pagine del Diario d'Artista.

Il Segreto di Paperon De Paperoni

Una cosa alla volta.

Non ricordo chi nella mia vita mi abbia sempre ripetuto questo mantra: "una cosa alla volta". Forse mio padre. O mia madre? Fatto sta che in queste quattro parole si cela un segreto tanto semplice da passare quasi inosservato. Se esiste un ingrediente segreto che permette di portare a termine ciò che si inizia, è proprio questo: procedere un passo alla volta. Nella scrittura, significa una parola alla volta. Un'idea alla volta.

Un personaggio della Disney, Paperon De Paperoni, solitamente afferma che si diventa ricchi un centesimo alla volta. Forse è da lui che ho preso questo motto, e la mia mente, nel tempo, l'ha sottratto al capitalismo imperante che trasuda da quelle parole, per conferirgli un significato più spirituale, più filosofico.

Si accumula conoscenza un pensiero alla volta. Si crea un'opera d'arte un gesto alla volta. Se questo è vero, e io penso che lo sia, allora la disciplina diventa un altro elemento fondamentale. Alzarsi e correre. Alzarsi e scrivere. Alzarsi e fare. Sempre una cosa alla volta. Come affermavo in una pagina precedente del diario, l'ispirazione nasce dall'azione. Ma non solo l'ispirazione. Anche la cura nasce dal fare. Sembra che, indirizzando le nostre energie verso un obiettivo, un desiderio di realizzazione, possiamo lenire i nostri mali, dando alla nostra vita un senso, una direzione: completare qualcosa.

Sabato, mentre ero al mare a bere una birra, seduto al tavolino di legno eroso dal tempo, con il vento del tramonto sulle spalle bruciate dal sole, io e alcuni dei miei amici abbiamo incontrato per caso un'amica di scuola di uno dei commensali. Avendo con me La Divina Avventura e sapendo da uno dei miei amici che questa ragazza era un'assidua lettrice, ho colto l'occasione per mostrarle il libro (non bisogna mai perdere un'occasione!). Dopo aver ascoltato la mia ormai rodata presentazione: "È una sorta di Siddhartha e La Storia Infinita insieme", mi guarda e dice: "C'era un filosofo giapponese, non ricordo il nome, che sosteneva che nella vita bisogna fare tre cose: avere un figlio, piantare un albero e scrivere un libro". Ho risposto che a piantare un albero ci metterei un attimo.

Detto questo, non posso che dare ragione a quel filosofo giapponese. La creazione è vita. E creare, che sia una pianta, un libro, un monumento, o un'altra vita, sembra essere non solo una fonte inesauribile di energia, ma anche di gioia e di senso.

Quindi, domani, quando mi alzerò, come oggi ripeterò a mia figlia: "Elettra, una cosa alla volta. Fatta bene. E poi vai avanti". Ormai lei alza gli occhi al cielo e sbuffa. Mi sembra di sentirla dire: "Uffa, papà... ancora con questa storia?" E nei miei occhi, non c'è altro che amore incondizionato e gioia infinita.

Come ho scelto la copertina del mio libro

La copertina del libro: per molti, dopo il titolo, rappresenta il fulcro, il centro di tutto, l'autentico ingresso nel mondo immaginario dell'autore. Una copertina è un biglietto da visita. Durante le mie ricerche per prepararmi al lancio del libro, ho scoperto che una persona guarda la copertina per soli due secondi prima di decidere se è interessata o meno. Due secondi!

Il tempo di un saluto e la scelta è già stata fatta.

In molti aspetti della vita, pur dando importanza alla ragione e al pensiero elaborato, spesso le nostre decisioni avvengono in un istante, quasi istintivamente. Le nostre scelte sono il risultato di chi siamo e non richiedono ulteriore elaborazione, poiché in fondo "già sappiamo" cosa scegliere ancor prima di farlo. Siamo pre-programmati dalle nostre esperienze, dalla nostra vita e dalla nostra storia. Così si formano i giudizi e i pregiudizi.

Per questo è fondamentale nutrire il proprio inconscio con "cibi" sani. In questo modo, quando non sarà possibile affidarsi completamente alla ragione, la disciplina con cui avete coltivato il vostro sapere vi sosterrà. Detto in altre parole, se continuate a consumare contenuti superficiali e vuoti, come i social media, i reality e altri contenuti basati sulla banalità, non solo state perdendo tempo, ma vi state danneggiando. State nutrendo il vostro inconscio con materiale povero, e quando arriverà il momento di fare quella fatidica scelta, non sarà Platone a guidarvi, ma un qualunque influencer e i suoi selfie in spiaggia.

Tornando alla copertina, vi racconto come ho incontrato il mio copertinista. Forse non tutti sanno che ho fondato, dieci anni fa, un'azienda di videogiochi (http://www.untoldgames.com) che dà lavoro a molte persone e prospera nella splendida città di Genova. Per il primo gioco che sviluppammo, "Loading Human", abbiamo collaborato con un artista per creare gli "artwork" che avrebbero ispirato i grafici del gioco. Questi artwork sono stati realizzati dal grande Massimo Porcella, artista rinomato e di fama internazionale. La sua formazione nella concept art proviene da master di concept art con la CGSociety, poi diventata CGMA nel corso degli anni. Potete ammirare i suoi lavori qui: https://www.artstation.com/max

L'ho contattato subito per chiedergli se fosse disposto a realizzare la copertina del mio libro, ed eccola qui:

La copertina de "La Divina Avventura"

A causa di quei due secondi a disposizione per catturare l'attenzione, la copertina deve trasmettere un messaggio semplice e immediato. Non potevo perdermi nei dettagli, almeno non prima di aver chiarito quale fosse l'energia da comunicare. E voi, cosa vedete? Cosa vi ispira questa copertina? Lasciate un commento e vi risponderò spiegandovi cosa volevamo esprimere noi. Vedremo se l'intento e la percezione coincidono.

La copertina del libro è un elemento fondamentale nella decisione di leggere o meno un'opera. Ecco perché è importante dedicare tempo ed energia alla sua creazione, collaborando con artisti di talento come Massimo. In un mondo in cui siamo bombardati da informazioni e stimoli visivi, avere una copertina accattivante può fare la differenza nel successo di un libro.

Alla fine, come autore, il mio obiettivo è condividere con voi la mia passione e le mie idee attraverso le parole, e la copertina è il primo passo in questo viaggio. Spero che, oltre ad essere attratti dalla copertina, possiate immergervi nel mondo che ho creato e trarre piacere, emozioni e ispirazione dalla mia storia.

Ricordi

Ti prendo,
Come un caco d'estate.
Ti mangio,
Come marmellata.
Mentre vuoi andare
Ma non puoi che restare
Col pensiero già corto
E un respiro d'amore
Tra le labbra socchiuse.

Fragile

Ho il cuore a fior di pelle
Congelato dal timore
Di sciogliersi
Con un soffio di voce tua.
Ho gli istinti che premono
Come Icaro il sole
Piume di desiderio
Cera fragile
Che si scioglie
Al tuo pensiero.

Continua

Un tuo soffio
Mi accende
Mi brucia.
Ti sfioro col pensiero
E mi travolgi
Con un niente.
Ho fisse nella mente
Voglie continue di te.
Continua.

Il Volo

Ad occhi aperti cado
Verso la mia idea.
Braccia tese verso l'impatto
Creo ali col pensiero.
E forte di gravità,
Figlio del vento,
Scivolo sulla morte
E decollo,
Come l'illuso che mai atterra.