La buona scrittura

Si dice di Shakespeare che, anche se recitato male, sia interessante.

Sto ripensando a questo proprio ora: a come la potenza di una storia, una vera storia, trascenda da come viene eseguita.

Una buona storia funziona anche se girata male, letta sul treno con le pagine ingiallite o guardata su un piccolo televisore catodico.

Una buona storia funziona perché è lo scheletro dell’intrattenimento.

Non vi può essere sospensione della credulità senza una buona storia, credibile, forte, colma di trasformazione ed emozione.

Per questo spendo così tanto tempo a strutturare le mie storie.

Le definisco e costruisco una griglia, come il ferro armato per il cemento.

La storia, intesa come una struttura di avvenimenti che definisce personaggi, emozioni e significati, è l’anima di un libro, un film, un videogioco.

Ho in mente questa mia teoria della pizza. L'evoluzione da pasta a pizza, poi a prodotto farcito e cotto, come potrebbe essere vista un’opera d’arte: prima pensata, poi prodotta, farcita dal marketing e consegnata al consumatore.

E mi dico che mi sono fregato da solo.

La mia teoria della pizza, in realtà, è la teoria della pasta madre, che altro non è che una reazione chimica tra acqua, farina e sale.

Che altro non è che la vita.

Il ruolo dell’artista è mettere vita nelle sue opere.

Dare letteralmente vita: ecco la responsabilità che mi prefiggo.

Ho avuto un primo desiderio sei mesi fa: scrivere la storia di un uomo che trovava il potere di entrare nella mente della gente.

Uno psicanalista che riusciva a curare entrando fisicamente nella mente di chi voleva aiutare.

Un primo tema della paternità era presente, ma era solo l’inizio della ricerca.

L’inizio è un po’ come andare a scoprire “quello che si vuole scoprire”.

La ricerca della ricerca, in un certo senso.

In questi mesi ho lavorato sulla storia: un agglomerato di frasi, magari trenta.

Queste trenta frasi sono il frutto di strutturazione, modellazione e trasformazione, ma a livello alto.

“No, non in Francia, in Italia.”

Oppure: “No, non un fratello, ma un amico.”

Tutto muta come in una tempesta.

Ma lentamente un pezzo casca sulla carta. Poi un altro.

Ed emerge qualcosa di sfuocato, ma reale.

Si lascia riposare, così da guardarla un paio di mesi dopo con l’occhio di chi può dire:

“Ma tu davvero vuoi investire tutto questo tempo in questa roba?”

Oppure, più ottimista:

“Hm… sì, mi piace.”

E così, tra cinquanta idee cancellate e un paio sopravvissute, si passa alla seconda stesura “dell’idea”.

Poi, stesura dopo stesura, nell’ultimo mese ho concluso la prima “definizione a larghe trame della mia nuova saga in cinque volumi”.

E da un mesetto ho cominciato a scrivere le prime pagine.

Vomito generico, sfuocato anch’esso, ma piano piano comincio a vedere i personaggi, a conoscerli, a scoprirli.

Devo ammettere: poche cose nella vita mi danno tanta soddisfazione.

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il potere della manifestazione del pensiero

La potenza del desiderio.

Mi sono avvicinato a questo pensiero durante la mia adolescenza, anzi, forse prima. Da piccolo, quando frequentavo le elementari, ricordo che riuscivo a cambiare il gusto dell’acqua con il pensiero.

Addirittura ora ricordo una discussione che ebbi con un amico della scuola elementare di viale Zara, a Milano – luogo dove ho imparato a parlare italiano. Gli dicevo che era semplice: basta convincersi che l’acqua sapeva di fragola, ed ecco che sapeva di fragola!

Una magia tutta mia. Chissà, forse avrà pensato che ero pazzo...

C’è una frase che ho letto che mi ha colpito pochi giorni fa:
"Qual è la differenza tra un visionario e un pazzo? Il successo."

Che sia così.

È possibile che il successo non sia altro che il frutto del nostro desiderio, di quella potenza irrefrenabile che emaniamo quando il nostro pensiero tenta di manifestarsi al mondo?

Il potere della manifestazione.

Sarà il tema centrale della saga che sto preparando. Sta cucinando, anzi nemmeno. Ho gli ingredienti e li ho preparati. La ricetta la sto ancora pensando, ma diciamo che è stata scritta.

Si tratterà di un thriller. Psicologico. E paranormale.

Ecco quindi che la manifestazione del pensiero sembra essere il collante perfetto tra questi tre generi.

Cos’è l’ossessione se non la follia del desiderare qualcosa che la realtà ci nega?

L’incapacità di accettare la vacuità della nostra potenza. Psicologico, come la mente, come tutto ciò che dentro di noi alberga e ci guida, nonostante la nostra volontà.

Noi siamo il frutto di milioni di guide e scelte invisibili, dettate da ogni cellula del nostro organismo.

Siamo psiche.

"Psiche". Lo sapevate che è una parola davvero speciale? Psiche era una dea nell’antichità. Era manifesta. Esisteva.

E poi, piano piano, ce ne siamo appropriati. Ora la psiche è dentro di noi. Siamo diventati miliardi di deserti, ognuno con la propria psiche, ben collocata nel cervello.

E poi il paranormale. Certo, perché in fondo questa cosa che il nostro potere è capace di modellare la realtà non è forse del regno del paranormale?

Le mie letture, più avanti, mi hanno portato a scoprire che molti avevano prima di me pensato che la mente fosse un oggetto capace di plasmare il creato.

Persino Einstein disse che:
"La teoria determina ciò che possiamo osservare."

La fisica quantistica non è da meno, portando avanti l’idea di indeterminazione. La realtà non esiste fino a che non viene osservata.

Insomma, per farla breve:

Una cosa funziona se ci si crede, altrimenti no.

È come se dentro di noi ci fosse un agente che tende a realizzare le nostre profezie, che siano buone o cattive.

Se penseremo che tutti gli uomini sono traditori, tenderemo a circondarci di persone che potranno riaffermare la correttezza di tale teoria. Perché in fondo, a chi non piace avere ragione? Anche su qualcosa di doloroso?

È per questo che è così difficile liberarsi dai nostri credo.

Perché ci crediamo.

Se invece riuscissimo a mantenere un equilibrio equidistante, tra i nostri credo e quelli degli altri, chissà cosa succederebbe? Andremmo ai matti.

Esiste una teoria che dice che questo nostro "bloccarci" su un’idea e portarla fino in fondo, anche se non è corretta, provenga da un tratto evoluzionistico sociale dell’uomo.

In sostanza, questa "piccola follia" permette al genere umano di produrre, attraverso il pensiero, una selezione dei pensieri più forti, una specie di legge di sopravvivenza del pensiero.

E chi vince? Vince chi ci crede di più? Vince chi riesce a dimostrare qualcosa?

Ma quante volte il dimostrato si dimostra errato? E quante volte la convinzione si rivela un atto di mera follia?

Il titolo provvisorio di questa saga, sempre in cinque volumi, sarebbe "Il labirinto della speranza".

Vi piace?

Superare il blocco dello scrittore

Superare il blocco dello scrittore

Il blocco dello scrittore è una delle esperienze più frustranti che un creativo possa vivere. Ti siedi davanti al foglio, o allo schermo, e le parole semplicemente non arrivano. La paura della pagina bianca diventa soffocante, mentre il vuoto creativo sembra insormontabile. Nel corso degli anni, ho affrontato questa paura più volte, e ho imparato che non esiste una soluzione unica. Tuttavia, ci sono strategie pratiche che mi hanno aiutato a superare questi momenti di stallo e a ritrovare il flusso creativo.

Accettare il vuoto: è parte del processo creativo

La prima cosa che ho capito è che il vuoto non è nemico della creatività. Al contrario, fa parte del processo. Spesso ci sentiamo bloccati perché siamo terrorizzati dall'idea di non avere nulla da dire o di non essere all'altezza delle nostre aspettative. Accettare il vuoto come una fase naturale, piuttosto che come un fallimento, è stato il primo passo per affrontarlo con serenità.

Quando mi siedo davanti alla pagina bianca e mi sento paralizzato, cerco di ricordare che il blocco fa parte del mio percorso creativo. Non devo combatterlo, ma accoglierlo. A volte, questo semplice cambio di prospettiva è sufficiente per far fluire le idee.

Riconoscere la paura della perfezione

Spesso il blocco dello scrittore nasce dalla paura di non essere perfetti. L'idea che ciò che scriviamo debba essere immediatamente impeccabile ci paralizza. Mi è capitato spesso di fermarmi prima ancora di iniziare, proprio perché volevo che le prime parole fossero perfette. Ma ho imparato a concedermi il permesso di sbagliare. Scrivere non è un atto di perfezione, ma di esplorazione. Non tutto quello che mettiamo sulla pagina deve essere buono. La prima stesura è un processo di scoperta, un modo per dare forma alle idee grezze.

Questo tema della perfezione è qualcosa che ho esplorato profondamente anche nel mio libro, "La Divina Avventura". Il desiderio di perfezione può portare alla dannazione, e il personaggio di Kato paga le estreme conseguenze della sua ossessione. La ricerca di un ideale irraggiungibile finisce per diventare un fardello insopportabile. Allo stesso modo, nella scrittura, la paura di non essere perfetti può bloccarci, mentre la vera creatività emerge solo quando ci concediamo la libertà di sbagliare.

Routine e rituali: la chiave per sbloccare la creatività

Come ho già esplorato in precedenza, la routine e i rituali hanno un ruolo fondamentale nel mio processo creativo. Quando mi trovo bloccato, tornare alla mia routine è uno strumento potente per rompere il blocco. La ripetizione dei gesti, la disciplina di sedermi alla scrivania anche quando non ho voglia, mi aiuta a creare uno spazio mentale in cui le parole possono emergere.

Un rituale che mi ha aiutato particolarmente nei momenti di blocco è la scrittura libera. Prendo il quaderno e scrivo qualsiasi cosa mi venga in mente, senza giudizio. Spesso, dopo alcuni minuti di scrittura senza senso, inizio a trovare un filo conduttore che mi porta verso nuove idee. Questa tecnica mi permette di aggirare il blocco mentale e di entrare in uno stato più fluido e creativo.

Cambiare prospettiva: il potere della camminata

Camminare è uno dei miei alleati più preziosi contro il blocco creativo. C'è qualcosa nel movimento fisico che libera la mente. Quando mi sento bloccato, esco di casa e faccio una passeggiata. Il semplice atto di camminare, osservare il mondo intorno a me, ascoltare i suoni e lasciare che la mente vaghi, spesso mi aiuta a sbloccare nuove idee.

Credo molto nel potere della camminata, non solo come esercizio fisico, ma come pratica creativa. Come i pensatori greci, camminare mi permette di riflettere senza pressione, di lasciare che le idee emergano spontaneamente. È un momento in cui posso staccare dal lavoro e al tempo stesso avvicinarmi ad esso in maniera più intuitiva.

Spezzare il blocco con la struttura

Uno degli strumenti che uso per superare il blocco è la tecnica e la strutturazione. Lavoro con una scrittura ricorsiva, strutturata su un ciclo di cinque movimenti narrativi che si possono isolare a livello di paragrafo, di scena, di capitolo, di volume, o addirittura di saga. Il concetto di frammentare un grande problema in una serie di piccoli problemi permette di superare ogni blocco. Un tragitto di 10 chilometri può sembrare infinito, ma se lo spezziamo in 100 tragitti da 100 metri, diventa qualcosa di tangibile, realizzabile. Questo mi permette di affrontare progetti ambiziosi senza farmi paralizzare dalla loro vastità.

Ricordare il "perché"

Quando tutto sembra bloccato e la frustrazione prende il sopravvento, cerco di ricordare il motivo per cui scrivo. Scrivere non è solo un mestiere, ma una vocazione, un atto di amore verso le storie che voglio raccontare. Ricordare il mio "perché" mi aiuta a ritrovare la motivazione quando il blocco sembra insuperabile.

Mi chiedo: "Perché questa storia merita di essere raccontata?" "Perché ho iniziato questo progetto?" Spesso, riflettere su queste domande riaccende la scintilla creativa e mi spinge a continuare anche quando la strada sembra difficile.

Trovare un faro nella notte

Una delle migliori strategie per non restare bloccati è avere un faro, una luce da seguire. Per questo è importante sapere di cosa parla il libro. Avere una singola frase che lo riassuma, un concetto chiave. Quella frase diventa la tua ancora di salvezza quando ti perdi nel buio della foresta creativa. Quando mi sento sopraffatto o confuso, torno a quella frase, a quella essenza della storia, e ritrovo la direzione. Il blocco non è altro che una deviazione, ma con un faro chiaro davanti a me, posso sempre ritrovare la strada giusta.

La potenza dei rituali

La potenza dei rituali

Nella vita creativa, la disciplina sembra spesso in contraddizione con l’ispirazione, eppure, più cresce la mia esperienza come scrittore, più mi accorgo di quanto sia essenziale costruire delle abitudini precise per alimentare il processo creativo. Oggi voglio parlarvi del valore dei rituali, quei momenti che, ripetuti giorno dopo giorno, diventano una bussola per la mente e il cuore, e mi aiutano a mantenere la rotta verso l'obiettivo.

La routine come alleata della creatività

C’è un’idea romantica della creatività, secondo cui l’ispirazione arriva come un lampo improvviso, dal nulla. E' così, ma l'ispirazione ha bisogno del terreno giusto su cui crescere. La creatività prospera quando viene coltivata quotidianamente, attraverso riti, routine. La disciplina, paradossalmente, libera la mente e crea lo spazio in cui l’ispirazione può fiorire.

Molti scrittori e artisti di successo hanno riconosciuto l’importanza di questo legame. Murakami, per esempio, inizia ogni giornata con un rituale immutabile: si sveglia all’alba, corre, e poi scrive per diverse ore. Stephen King ha una routine altrettanto rigida: scrive ogni giorno alla stessa ora, indipendentemente dall’ispirazione del momento. Questo mi ha fatto riflettere su quanto sia fondamentale costruire una routine che non dipenda dall’umore o dalle circostanze.

Nel mio caso, ho tante routine.

Camminare per risvegliare mente, cuore e anima

Uno dei momenti centrali della mia giornata creativa è la camminata. Cammino molto, come facevano i pensatori greci, convinto che il movimento del corpo risvegli non solo la mente, ma anche il cuore e l’anima. C’è qualcosa di potente nell’atto del camminare: è un modo per allontanarmi fisicamente dalla scrivania, ma soprattutto per liberare la mente dai pensieri che mi opprimono. Le migliori intuizioni spesso arrivano proprio in questi momenti di movimento, quando il respiro si fa regolare e la mente si lascia andare.

Dopo la camminata, il ritmo della giornata varia a seconda della fase di scrittura in cui mi trovo. Se sono in fase produttiva, quando c’è bisogno di macinare parole, il mio momento migliore è la mattina, dalle 9 alle 12. In queste ore, con la mente fresca e il corpo energizzato, mi siedo e lavoro senza interruzioni, lasciando che il flusso creativo prenda il sopravvento.

Quando invece sono nella fase di ricerca di idee, il mio orologio creativo cambia completamente. Le notti diventano il mio rifugio. Dalle 23 alle 2, nel silenzio della casa, mi immergo nel processo di strutturazione, di riflessione, lasciando che le idee emergano da quel terreno fertile che si crea solo quando tutto il resto del mondo dorme. È un momento quasi mistico, in cui la mente si distende e si apre a nuove possibilità.

Questa routine, però, non è nata da un giorno all’altro. Ricordo ancora quando scrissi il mio primo romanzo, "La rovina dell'anima" (mai pubblicato), a Parigi, all'Île Saint-Louis. Ogni mattina, alle 10:00, mi sedevo in un piccolo bar e ordinavo un caffè americano da 8 euro (prezzi folli, lo so!). Il caffè fumante accanto a me diventava parte del mio rituale quotidiano, e lì, seduto per due ore, cercavo di scrivere. Alcuni giorni non riuscivo a mettere giù nemmeno una parola, altri invece le idee fluivano senza sforzo. Ma più eseguivo quella routine, più mi rendevo conto che le parole sgorgavano con maggior facilità. La costanza era la chiave.

Il potere della costanza

Ricordo che durante la scrittura de "La rovina dell'anima", la mia prima opera, la costanza era tutto. Era una scrittura esplorativa, in cui non avevo una chiara direzione, né sapevo dove la storia sarebbe andata a parare. Ogni giorno mi sedevo a quel tavolo nell'Île Saint-Louis con la speranza che le parole venissero a galla. Alcuni giorni ero bloccato, altri sembrava che le idee nascessero da sole, ma quella routine mi spingeva ad andare avanti, nonostante l'incertezza.

Quella esperienza è stata diversa rispetto alla scrittura dei miei volumi più recenti, come "La Divina Avventura" o "L'Anello di Saturno", dove ho iniziato con una struttura ben definita e una visione chiara della direzione narrativa. In quei giorni parigini, la scrittura era più un atto di scoperta: un viaggio nelle profondità della mia mente senza una mappa. Eppure, anche in quell'incertezza, la costanza del rituale ha avuto un ruolo cruciale. La disciplina quotidiana di sedermi a scrivere, indipendentemente dal risultato, mi ha insegnato che il vero progresso creativo non dipende sempre dall'ispirazione momentanea, ma dalla perseveranza.

Questo insegnamento è rimasto con me anche oggi. Sebbene il mio processo creativo sia più strutturato, continuo a credere che la costanza sia la chiave per superare i momenti di blocco o scarsa ispirazione. Siediti, comincia, e le parole alla fine arriveranno.

Il rito della recitazione

Oltre che scrittore, sono prima di tutto un attore, e la recitazione, a suo modo, è un rituale. Quando salgo sul set, mi immergo in un rito preciso, fatto di gesti, parole e movimenti, che si ripetono ad ogni ciak. Ma ho imparato a non essere vittima del rito. La recitazione non è un atto passivo; richiede uno sforzo continuo di libertà creativa. Mi impegno a spezzare e rompere quelle che sono le mie stesse idee, i miei schemi, perché quello che conta, alla fine, è l'osservazione del reale. Non importa quanto rigido sia il rito, se non riesci a vedere, ad ascoltare ciò che ti circonda, allora rischi di perdere l’essenza stessa della tua arte.

La vera sfida è trovare un equilibrio tra rito e azione, tra disciplina e creatività. È in questo bilanciamento che si riesce a fare dell'arte un mestiere produttivo. Non si tratta di scegliere tra rigore e libertà, ma di farli convivere, lasciando che il rituale guidi la mano, mentre la creatività rompe le barriere e apre nuove strade.

L'empatia

L'empatia. A volte mi chiedo se averne sia una qualità oppure un difetto. "Il giusto" ecco quanto uno dovrebbe averne: la giusta empatia per non soffrire troppo e per non essere ciechi davanti alle ingiustizie della vita, del destino.

Quando ero piccolo, ricordo che soffrivo tantissimo nel vedere persone martoriate dalla vita: i portatori di handicap, le sedie a rotelle: ingiustizie che non riuscivo proprio ad accettare. Le trovavo - e lo trovo tuttora - così ingiuste.

Perché loro sì e io no? Perché sono stati puniti? Esiste davvero un giusto e uno sbagliato in questa vita? Tutte domande, mi pare ovvio, che si fa chi prova empatia per coloro che lo circondano. Ma l'empatia non è solo emotiva, esiste anche quella cognitiva.

L'empatia cognitiva è la capacità di riconoscere i punti di vista altrui, di essere aperti davanti alle differenze che ci distinguono e che fanno dell'umanità la barriera corallina delle idee. E in questa società, che sembra - a suo dire - così volta alla diversità e all'inclusione, ne vedo poca, di empatia.

Le differenze vere non sono quelle che ci piace vedere negli altri. Le differenze vere sono quelle che non sopportiamo, che troviamo orribili, inaccettabili. Ed è su quelle differenze che dovremmo arricchirci, parafrasando Paul Valery. E in tutto questo marasma di inclusività, mi sembra a volte che si perda la nozione che tutti - anche quelli davvero diversi - hanno il diritto di esprimersi. Io amo la libertà.

E nella creatività? L'empatia è uno strumento che permette di crescere per osmosi, che ci da la possiblità didi nutrirci di ciò che ci circonda in un modo costruttivo, aperto e libero. L'empatia artistica, la capacità di comprendere un poeta, un pittore, uno scrittore, è una forma più alta - se posso osare dirlo - di empatia, che fonde sia il nostro lato razionale che quello emotivo. Un'empatia olistica che rasenta, quando vissuta davvero, uno stato vitale, un'apertura totale nei confronti del mondo.

Mi ricordo di un film con John Travolta, Phenomenon, in cui lui - un uomo normale - viene diagnosticato con un tumore al cervello. Comincia a essere profondamente intelligente, a risolvere equazioni impossibili anche per i computer, e poi, alla fine, si ferma davanti alla bellezza degli alberi che respirano con il vento. Il suo punto più alto è stata l'empatia.

Mi viene in mente anche il sacchetto di plastica di "American Beauty" che vola, semplicemente, preso dalle correnti ascensionali. L'empatia è quella porta che ci dà l'occasione di intuire la bellezza che c'è nel mondo, di vedere - anche nel dolore - la possibilità di una rinascita e anche nella perdita, un nuovo inizio.

Concludo questa mia piccola parentesi con una forte sensazione che mi porto dentro: Io credo che tutti gli esseri umani siano empatici per natura - a parte, chiaramente, i casi patologici - ma purtroppo, l'empatia è come un muscolo. Se non viene allenata, si incancrenisce, si riversa dentro di noi, portandoci a dimenticarci degli altri, rendendoci schiavi di fama, gloria e potere. Di noi stessi.

E come si allena l'empatia? Con l'arte, con l'amore, con la curiosità.

Sì, nel mondo ci vorrebbe più empatia.

La gelosia nell'arte

Non sono geloso. Non lo sono né delle cose né soprattutto delle persone, perché in me vive forte un credo che difficilmente abbandonerò: siamo tutti nati liberi e il rispetto sta proprio nel donare, anche (e soprattutto) a coloro che amiamo, la libertà di fare ciò che desiderano.

La gelosia, in fondo, è quel virus che si insedia tra le pieghe del nostro ego e che vorrebbe controllare gli altri. È un desiderio di dominio sul mondo. È sete di potere. E a me, il potere, non solo non interessa, ma proprio mi ripugna. Sono un indipendente nel cuore, l'unico potere che ho è su me stesso (e anche lì, il Destino avrebbe da ridire; chi ha letto "L'anello di Saturno" può capire). Insomma, ho una repulsione naturale per la gelosia.

Ma anche essendo così, a volte, qualcosa dentro di me vibra quando scopro di aver perso un casting a favore di un altro attore, o anche in altre sfere, per esempio, quando ero al Salone di Torino, dopo aver fatto un bellissimo firmacopie. Peraltro vi lascio un piccolo video (per chi mi ascolta da Spotify, lo trovate su flavioparenti.com nella sezione "Diario D'artista", potrete vedere un po' di firme).

Insomma, dopo aver completato il firmacopie - che, a onor del vero, è stato un discreto successo, c'erano tante persone, tutte stupende - sono uscito e sono passato davanti al firmacopie di Felicia Kingsley.

Che dire, sono rimasto molto colpito da tutti coloro che aspettavano diligentemente in fila. Una fila lunga, lunghissima! Centinaia di ragazze e ragazzi che, libri in mano, aspettavano di incontrare la loro beniamina. Il mio primo pensiero è stato "mamma mia quanti…" e poi ho pensato a me. Inevitabilmente mi sono anche messo a paragone. Non è durato molto, forse mezzo minuto, anche meno. E poi la gelosia è sfumata in desiderio. Quello di riuscire, un giorno, a fare come lei, come Felicia Kingsley. A scrivere, scrivere, scrivere fino a che non venga riconosciuta la qualità e il valore della mia opera attraverso il pubblico.

Ora, a giorni di distanza, posso dire che quella fila mi ha ispirato a fare meglio, a comprendere come ha fatto quella signora a raggiungere quel livello.

Tutto questo per dire che se siete artisti, ma anche se non lo siete, non abbiate paura della gelosia, è un sentimento umano, naturale. Ma sappiate renderlo costruttivo, fate in modo che quella sensazione proiettata sull'altro si specchi in voi, e vi imponga di elevarvi. E chi, se non coloro che fanno meglio di voi, possono aiutarvi a fare meglio?

La gelosia è la bussola che vi dice dove dovreste andare. Dove la vostra curiosità darà i migliori frutti. Studiate coloro che vi rendono gelosi, cercate di capire l'origine del loro successo, cercate l'ispirazione, il mutamento, la trasformazione.

Nell'arte, la competizione non esiste. Esiste nel mercato, nelle vendite, nei numeri, ma non nell'espressione. Anzi, in quel caso, è l'unicità della voce che rende l'artista interessante. Ed ecco un sottile paradosso nel quale l'artista è costretto a rimanere in equilibrio. Autenticità della propria voce, ma anche studio e assorbimento di tecniche altrui. Come diceva Pirandello, uno e centomila. Perché Il "nessuno" lo lasciamo a Ulisse, perché nessuno è "nessuno". Persino nella più profonda delle solitudini.

E voi, avete mai subito la gelosia? Come l'avete affrontata?

Il terapeuta dell'anima

Cosa significa essere indipendenti? Io penso che l'artista, per sua natura, sia animato da quel desiderio di essere autonomo, di vivere della propria passione e arte, senza dover rendere conto a nessuno se non al proprio pubblico.

Ho una visione romantica di questo mestiere e credo che sia l'unica che possa davvero sopravvivere all'onda di trasformazione che questa società ci sta imponendo. Siamo circondati dalle macchine, dagli algoritmi, da regole invisibili che dettano gran parte della nostra vita.

Ma persino i creatori digitali, che rappresentano l'apoteosi dell'indipendenza creativa, poiché spesso sono freelance o lavorano da soli, devono comunque postare all'ora giusta, usare gli hashtag giusti e le parole chiave opportune, per esistere, per essere visti. Siamo dipendenti dall'algoritmo.

Quindi, in un certo senso, l'artista non può essere davvero indipendente. Dovrà sempre avere a che fare con gli strumenti della comunicazione per far sapere che esiste: in questo mare digitale, nessun uomo è un'isola.

Per questo motivo credo che l'aspetto più importante e necessario in un artista sarà sempre di più la sua umanità, il suo essere manifestazione della propria visione del mondo, imperfetta, fallibile, ma autentica.

La sfera digitale è nel bel mezzo di una delle più grandi rivoluzioni industriali di tutti i tempi, l'avvento degli LLM, gli algoritmi di intelligenza artificiale capaci di produrre ciò che, fino a pochi anni fa, era esclusiva dell'intelletto umano.

Cosa ci distingue, quindi, da queste macchine? Quale aspetto di noi, come esseri umani, come artisti, è unico? Questa è una domanda che mi pongo ogni giorno, che mi assilla e alla quale penso di aver trovato una risposta adatta alle mie necessità di coltivare un senso, di rimanere "alto" nella mia esposizione: l'autenticità. Solo così, mantenendo teso il filo della nostra anima con il mondo esterno, potremo sperare di raggiungere abbastanza persone, di creare collegamenti forti abbastanza da superare i maremoti digitali. Chi segue l'artista deve sapere che le sue parole, seppur fatte di pixel, sono umane.

Come avrete intuito, è quello che cerco di fare con questo Diario. Creare un collegamento più profondo di un post sui social, questo luogo è il mio ponte, il mio giardino di autenticità. Ci provo, non sempre ci riesco; a volte sono stanco, oppure ho dei pensieri, e le mie pagine ne risentono. A volte mi perdo in meandri tecnici, filosofici, ma quelli sono parte di me, di come vedo il mondo, l'arte.

Cerco indipendenza da quando sono piccolo. Sono nato bastian contrario, come mia madre. Ho una naturale avversione nei confronti del potere e non amo che mi si dica cosa devo fare. Faccio quello che voglio, al meglio che posso. Questo comportamento, è facile immaginarlo, mi ha restituito pochi amici, ma buoni. Poi la vita ci separa, e ci si ritrova per una telefonata leggera, in cui si parla degli anni vissuti insieme. Ho 44 anni e sono ancora alla ricerca di questa indipendenza, che sembra spostarsi ogni volta che credo di afferrarla.

L'indipendenza è un desiderio di libertà, insito nell'uomo, ma siamo anche animali sociali e dobbiamo trovare un posto utile in questa società. Quindi, qual è il ruolo dell'artista in questa società? In cosa è utile un artista?

A sognare? A pensare? A ricordare agli altri quello che conta? Ad evidenziare i difetti dell'uomo, le sue qualità? A esorcizzare le paure?

Io penso che sia un po' tutto questo messo insieme: l'artista è il terapeuta dell'anima.

Il potere della memoria

La memoria... questa magica e inafferrabile realtà che vive dentro di noi, è stata fonte di ispirazione per centinaia, migliaia di autori. Proust, con la sua Madeleine, ne fece il tassello fondamentale dell'anima. Noi siamo la nostra memoria. E senza memoria, cosa saremmo?

Personalmente, ho sempre vissuto con un occhio verso il domani, piuttosto che al passato. Ho un approccio piuttosto diffidente nei confronti della mia memoria, forse perché non mi fido del tutto di essa. Ho spesso la sensazione che sia fallace. Per esempio, sono pessimo con i nomi. Non mi ricordo i nomi di nessuno, e questo mi porta a diventare molto chiuso, poiché, in un certo senso, il dubbio di non sapere con esattezza il nome della persona con la quale sto parlando mi mette in una situazione in cui preferisco non interagire. Ed ecco fatto l'introverso. Scrivendo, mi rendo conto che forse la mia introversione è proprio una questione di memoria. Forse, se mi ricordassi meglio i nomi, non sarei così timido.

Nei miei scritti, sia nelle poesie che nella prosa da romanzo, mi ritrovo spesso ad avere a che fare con il ricordo. Un ricordo che muta a seconda di chi lo ricorda. Mi viene in mente il film "Rashomon" di Akira Kurosawa, che affronta, appunto, la stessa scena ricordata da tre persone diverse. Ogni racconto differisce significativamente dagli altri, presentando versioni contrastanti degli stessi eventi, che gettano luce sulle complesse nature umane dei personaggi e sulla difficoltà di stabilire una "verità" oggettiva.

Il ricordo ha questo potere: riscrive la realtà vissuta, collocandola là dove ci viene meglio ricordarla. Il ricordo che abbiamo nella mente non è una fotografia esatta del momento vissuto, quanto piuttosto una fotografia di come stavamo noi in quel momento, della nostra - limitata - prospettiva. È una fotografia che più viene richiamata alla memoria, più muta, proprio per via della sua caratteristica fuggente e mutevole, quasi liquida. E così, quello che era una semplice giornata in spiaggia con gli amici prende nel tempo connotazioni favolesche, magiche, dalle atmosfere romantiche. Baci rubati.

Insomma, la memoria è una parte fondamentale di quello che ci rende umani. La società stessa non potrebbe esistere senza memoria. La cultura, l'arte, le scienze sono tasselli che vengono man mano registrati nella memoria collettiva e che creano, negli anni, strutture conoscitive gigantesche, che ci permettono di immaginare il nostro futuro, di diventare demiurgi della materia, di controllare la nostra vita. La memoria è conoscenza, esperienza, strumento di sopravvivenza.

Non posso esimermi dal pensare, però, che la memoria stia diventando, nel nostro mondo iper-digitalizzato, qualcosa di statico, di immobile. Le informazioni che registriamo sono così tante che non vi sembra più esserci spazio per l'attribuzione, per l'errore, per il margine di magia. I ragazzi nati ora avranno tutta la loro vita registrata, bit per bit, su internet. Foto, frasi, video, pensieri. Tutto sarà lì, a disposizione del prossimo. E così, il margine di mistero si fa sempre più sottile, sempre più inesistente, e questo mi dispiace, perché la magia del mito, sta proprio in quello spazio di ignoto.

Per questo scrivo i miei libri: per lasciare un segno marginale, indefinito, un luogo di mistero che dia al lettore la possibilità di rileggermi e di scoprire, in questo marasma di parole, qualcosa di sé stesso.

Lavoro e Passione

Chi mi conosce lo sa: ho fatto tanti lavori, soprattutto in gioventù, lavori creativi come assistente alla regia, autore, regista, montatore, ma anche lavori opposti alla direzione artistica che poi ho intrapreso.

Quando ero ventenne, ho fatto il cameriere per una stagione. Doppio turno, ristorante di pesce. L'anno successivo ho lavorato come magazziniere nella società di trasporti nella quale lavorava mia madre. Un paio di mesi difficili, ma utili. Ho anche fatto il tecnico luci in vari spettacoli teatrali, montaggio e smontaggio della scenografia. Erano lavori faticosi, che mi hanno insegnato molto sul valore che la nostra società dà alla fatica fisica: ben poco.

A scuola, non sono mai stato il migliore della classe. Anzi si, lo sono stato quando non serviva studiare, verso gli 8 anni. Mi bastava ascoltare per essere brillante. Poi, con il crescere dell'età mi sono allontanato sempre di più dalle cattedre e dall'interesse nel sistema scolastico. A parte alcuni maestri che - pur non essendo stato io il loro pupillo - mi porto nel cuore, i ricordi che ho delle aule scolastiche e del sistema nel suo insieme sono tristi: poco entusiasmo, poca passione, molta imposizione. Capisco che è nella natura dei sistemi essere così, ma non fanno per me. Ho un'avulsione naturale per il potere.

Ben presto ho capito di amare la pratica. Se posso applicare ciò che mi viene insegnato, allora ne divento ghiotto, mi entusiasmo e mi impegno molto di più. Ma se sono costretto a studiare qualcosa solo perché devo, senza ricevere un vantaggio diretto da una immediata applicabilità, allora perdo l'interesse.

È un limite, ne sono consapevole, ma sono fatto così. Non a caso ho cominciato a studiare davvero in età quasi adulta, quando le mie passioni erano emerse e stavo comprendendo cosa mi interessava approfondire. Studiare mi aiutava a precorrere la strada d'artista che sto ancora scoprendo.

Il lavoro e la passione... antagonisti che dovrebbero essere sinonimi. Il lavoro rientra nella sfera del "devo" mentre la passione in quella del "voglio". Come sarebbe bello se formassimo le nuove generazioni con l'intento di insegnargli ad unire queste due cose, invece di dividerli!

Come diceva Confucio: "Scegli il lavoro che ami e non lavorerai un giorno in tutta la tua vita." Facile da dire, ma non così facile da fare, perché la vera difficoltà è scoprire quello che ci piace. Perchè nel mondo ci sono così tante cose.

Come possiamo fare per scoprire ciò che amiamo?

Io credo curiosando tra le insenature della società, leggendo prospettive originali, camminando per le strade con il naso all'insù, guardando dove gli altri non vedono, e continuare la ricerca di cose nuove, facendo, giocando, scoprendo, cercando anche la crisi.

Perché così facendo, piano piano, seminerete piccoli segni apparentemente confusi sulla tela della vostra vita. Ma abbiate fiducia, vedrete che succederà qualcosa di magico: ad un certo punto, quei puntini si uniranno da soli e disegneranno il vostro destino.

Interpretare "La Principessa sul Pisello"

Oggi desidero discutere sul senso delle cose. È giusto voler attribuire un significato a tutto? È corretto desiderare di trasmettere un messaggio chiaro, oppure è preferibile raccontare una storia nel migliore dei modi e lasciare che sia lo spettatore a interpretare la morale? È un dilemma interessante, ricco di sorprese inaspettate.

Ricordo una volta in cui scoppiò un acceso dibattito tra i miei genitori riguardo alla favola "La principessa sul pisello". Molti di voi la ricorderanno. In sostanza, la storia racconta di un principe che, dopo aver cercato invano una principessa adatta, si lamenta una sera di temporale che non esistono donne abbastanza sensibili, belle e delicate per lui. La madre, che ha respinto tutte le pretendenti con la fermezza tipica di una suocera, concorda con lui. Durante quella notte tempestosa, una giovane ragazza, fradicia dalla testa ai piedi, bussa alla porta del castello. Ha un volto splendido e modi garbati, e afferma di essere una principessa proveniente da un regno lontano, venuta per incontrare il principe. La regina, molto scettica, decide di mettere alla prova la delicatezza della presunta principessa. Ordina alla servitù di preparare un letto con ben sette materassi, e sotto il primo materasso - quello in fondo alla pila - pone di nascosto alcuni piselli secchi. La ragazza ringrazia per l'ospitalità e si ritira a dormire.

La mattina seguente, con un bel sole a illuminare il cielo, la giovane esce dalla stanza. La regina le chiede subito: "Come hai dormito, cara?" "Terribilmente", risponde la ragazza. "È come se avessi dormito sulla roccia. Questi materassi sono davvero scomodi, non so come riusciate a dormirci sopra!" In quel momento, la regina capisce di avere a che fare con una vera principessa. Non passa molto tempo prima che il principe e la giovane si sposino e, come si suol dire, vivano felici e contenti. (Anche se ho qualche dubbio, e ora vi spiego il perché.)

Ero nel grande salone di casa a Milano e non ricordo come, ma io e i miei genitori finimmo a parlare di questa favola. La cosa più stupefacente furono le due diverse interpretazioni che emersero dalla storia. Uno dei due sostenne che "La principessa era così sensibile, con una pelle così fine e un'anima così delicata, da sentire persino i piselli sotto sette materassi". L'altro invece affermò: "Ma no, è evidente che non è possibile sentire tre piselli sotto sette materassi. Il fatto stesso che la principessa si sia lamentata di sette materassi dimostra che è una principessa! La regina ha capito che era una principessa perché, nonostante avesse tutto per dormire alla perfezione, si è lamentata comunque!"

Come è possibile che due interpretazioni così diverse possano emergere dalla stessa storia? Questo è, come ho già accennato, il potere dell'attribuzione. Ma è anche il potere della lettura. La lettura è un atto creativo, che genera in chi legge idee, visioni e morali singolari, specchi del nostro io. Nel processo di lettura non c'è "imposizione" del pensiero, ma piuttosto "creazione" del pensiero. Leggere significa libertà, crescita, autonomia. È l'esperienza più vicina che abbiamo al vivere qualcosa, senza i rischi annessi.

Quindi leggete! Leggete! Leggete! Chissà, forse una storia già letta potrebbe rivelarsi, dopo una rilettura, una storia completamente diversa.

Il potere dell'Attribuzione

Nell'arte, abbiamo due attori protagonisti: l'artista che, con la sua abilità, manifesta una opinione, un enigma, una disputa, una soluzione, una trama; e lo spettatore, che guarda, valuta, critica, adora e detesta.

Il legame tra questi due soggetti è incredibilmente avvincente. Durante il mio periodo di formazione presso la scuola del teatro di Genova, il mio mentore - uno dei migliori della sua generazione - Massimo Mesciulam, aveva l'abitudine di discorrere di "attribuzione".

Mentre mi preparavo per recitare una scena, mi ribadiva l'importanza dell'attribuzione. Per illustrarlo, faceva riferimento alla scena dell'Agamennone di Eschilo.

L'entrata in scena del protagonista, figura di immenso prestigio e carisma, doveva rispecchiare la sua potenza, pressoché divina. Ma come può un attore "mostrare una forza quasi divina" senza diventare ridicolo? Ve lo dico io: non può. Perché anche una figura imponente come "The Rock", muscoloso e coperto di tatuaggi, apparirebbe comica nello sforzarsi di mostrare potenza. Qui, l'attribuzione viene in nostro soccorso. In questo specifico contesto, significava trovare un modo per far sì che tutti attribuissero all'attore che interpretava Agamennone quella potenza divina. Così, il peso di quella presenza non risiedeva più nelle mani dell'attore, ma in quelle di tutti coloro che lo circondavano. In base al comportamento degli altri, lo spettatore avrebbe attribuito ad Agamennone tale forza. Perché se tutti evitano di guardarlo negli occhi, abbassano il capo e la voce diventa più flebile quando gli parlano, è evidente che quest'uomo, Agamennone, è un uomo da temere.

Una lezione simile l'ho appresa durante la mia esperienza come assistente alla regia con M. Langhoff, un rinomato regista tedesco. Mi illustrò che, nelle scene di combattimento, il lavoro più impegnativo non è di chi attacca, ma di chi viene colpito. Perché è la vittima a rendere la violenza "reale" nella sua finzione. Anche in questo caso, l'attribuzione della forza era nelle mani di un altro.

Ma la vera magia dell'attribuzione si verifica nella fantasia dello spettatore. L'arte è un dialogo tra l'artista e lo spettatore, dicevamo. Se l'artista espone tutto in modo esplicito, esibendo ogni piccolo dettaglio, ogni imperfezione, ogni desiderio, è come se stesse monopolizzando la conversazione. È come un monologo, un tedioso soliloquio in cui esalta se stesso... Ma se invece lascia un vuoto, un'apertura, cosa accade? Avviene quello che si verifica nei migliori libri, film e brani musicali. Lo spettatore, attraverso la propria immaginazione, utilizza questo spazio vuoto per proiettare sé stesso, per attribuire significati. In questo modo, lo spettatore si trasforma in un artista, e si innesta il meraviglioso processo dei neuroni specchio, della capacità di immedesimarsi in quel personaggio, in quelle parole, in quella melodia. È su questo confine, a mio avviso, che risiede l'arte. Siamo tutti discendenti degli stessi antenati, condividiamo molti aspetti, e al tempo stesso ne possediamo di unici e distintivi. Quando riusciamo a creare un dialogo tra anime che permette sia l'unione di ciò che ci accomuna sia l'evoluzione di ciò che ci rende unici, produciamo una conversazione che arricchisce il mondo dell'artista e quello dello spettatore.

Come affermava la mia direttrice della scuola: "la recitazione è relazione." Io andrei oltre, affermando che l'arte, nella sua essenza, è relazione. E la bellezza è un territorio misterioso, dove l'unicità si lega all'archetipo. Dove l'inconscio collettivo si manifesta nell'individuo singolo, atipico, unico, imperfetto. Proprio come tutti i suoi simili.

Come dicono gli anglossassoni: "Beauty is in the eye of the beholder".

Pensare in due lingue

Una delle domande più comuni che si pongono a chi parla due lingue è: in che lingua pensi? La risposta non è così semplice come potrebbe sembrare. In questo articolo, vi racconto la mia esperienza personale nel padroneggiare due lingue e come questa abilità ha influenzato il mio pensiero e il mio modo di essere.

Sono di madrelingua francese, e mio papà è italiano. Ho imparato il francese per primo, e poi l'italiano quando mi sono trasferito in Italia all'età di 8 anni. Il processo di apprendimento di entrambe le lingue non è stato affatto semplice, ma mi ha permesso di conoscere due culture diverse e di imparare a navigare tra di loro.

Quando ci trasferimmo in Italia, frequentai prima la scuola francese di Milano, l'istituto Stendhal. Tuttavia, non imparavo l'italiano, quindi, per risolvere il problema, i miei genitori mi iscrissero alla scuola pubblica italiana sotto casa, in Viale Zara. Questa scuola aveva la particolarità di accogliere nelle sue classi studenti con disabilità uditive o con disturbi dello spettro autistico. Gli anni trascorsi in questa scuola sono stati meravigliosi e mi hanno permesso di conoscere due maestre eccezionali, Adele e Laura, che mi hanno insegnato la meravigliosa lingua italiana.

Durante il mio tempo alla scuola pubblica italiana, ho stretto amicizia con un ragazzo con disabilità uditive di nome Giampiero. Quindici anni dopo, ricevetti una telefonata da Giampiero: riusciva a sentire e parlare al telefono! Sentirlo parlarmi di quello era successo in questi anni di distanza mi colmò di gioia e mi fece anche capire quanto sia importante la comunicazione nella nostra vita quotidiana.

Dopo aver imparato l'italiano e aver dimenticato un po' il francese, tornai allo Stendhal. Qui, iniziai a mescolare le due lingue, creando una sorta di lingua di transizione tutta mia. Alla fine, le due realtà si divisero dentro di me e anche i due aspetti psicologici. Le lingue riflettono infatti l'identità di un popolo, il suo modo di pensare e ciò a cui attribuiscono importanza. I francesi tendono ad essere radicali, razionali e logici, mentre gli italiani privilegiano il piacere, la seduzione e l'emozione. Descartes. De' core. Questa dicotomia mi ha aiutato a capire chi sono io e come le mie radici biculturali abbiano contribuito a formare la mia identità.

La domanda finale è, quindi: in che lingua penso? Nei sogni, sogno in francese o in italiano? La risposta non è semplice. Per come la vedo io, il pensiero non ha una forma precisa e non esiste se non nel linguaggio astratto della nostra mente.

Il linguaggio è uno strumento di comunicazione esterna che ci permette di esprimere i nostri pensieri agli altri in modo comprensibile. È un traduttore del pensiero. Di per sé, il pensiero, se rimane all'interno del nostro cervello, non ha una forma necessariamente legata alla lingua di chi lo produce. Solo quando dobbiamo comunicare con qualcuno, siamo costretti a esprimere i nostri pensieri in una lingua piuttosto che un'altra.

La lingua del pensiero: Se devo dare una risposta alla domanda iniziale, direi che penso in "pensese", una lingua immaginaria che simboleggia la lingua del pensiero e che ci unisce tutti come esseri umani. Il "pensese" è la lingua dell'anima, e tutti noi la parliamo fin dalla nascita.

Per concludere, essere bilingue mi ha permesso di vivere due culture diverse e di comprendere meglio il modo in cui le lingue influenzano il nostro modo di pensare e di essere. Nonostante le difficoltà nel padroneggiare Francese e Italiano, sono grato per questa opportunità e per come mi ha permesso di crescere sia come individuo che come comunicatore. La lingua in cui penso potrebbe non essere chiara o definita, ma ciò che conta è il legame che ho sviluppato con entrambe le culture che rappresento.

Alla fine, il potere del linguaggio va oltre le parole che pronunciamo; è uno strumento che ci permette di connetterci con gli altri e di esprimere la nostra identità. Che si tratti di italiano, francese o "pensese", ciò che conta è la nostra capacità di comprendere e apprezzare la diversità linguistica e culturale che ci circonda, così come la nostra capacità di utilizzare le lingue per costruire ponti e superare barriere.

Il potere del desiderio e della speranza: verità o illusione?

Il potere del desiderio e della speranza. Innumerevoli autori hanno scritto sulla forza della volontà e sulla capacità di "visualizzare" ciò che si vuole diventare per realizzarlo. Questo concetto, affine alla filosofia buddista, ha origini molto lontane. Uno dei primi libri a trattare tale argomento è il celebre "Think and Grow Rich" di Napoleon Hill, scritto nel 1937 su commissione di un filantropo curioso di scoprire il denominatore comune dei grandi magnati dell'epoca. La conclusione dell'autore è che chi ha successo vive come se lo avesse già ottenuto, come se la profonda convinzione fosse la chiave per trasformare il desiderio in realtà.

Da qui nasce il primo libro di auto-miglioramento della storia, che divenne un successo editoriale e generò numerosi seguaci di questa filosofia. Negli anni '80, il famoso "The Secret" con il suo mantra "visualizza ciò che desideri per ottenerlo", e oggi la "fisica" quantistica (tra virgolette perché di fisica ce n'è ben poco), secondo la quale la nostra volontà influisce sulla realtà.

Ma è veramente così? Sono davvero i nostri sogni il motore della nostra felicità? Personalmente, sono scettico riguardo a quest'approccio semplificato e viziato, dove tutto ciò che desideriamo può essere ottenuto. Nella Divina Avventura, questo tema viene esplorato nei suoi meandri più oscuri, proprio perché volevo comprendere e scoprire fin dove potesse condurre il desiderio ostinato.

Il grande regista Mario Monicelli sosteneva che "La speranza è una trappola". In parte, sono d'accordo con lui: la speranza può bloccare il pensiero e renderlo immobile. Il desiderio di ottenere qualcosa può intrappolarci in quello che fu chiamato, nelle scienze cognitive, "effetto gelo", ovvero la difficoltà o l'impossibilità di rimettere in discussione una scelta fatta. Questo fenomeno fu teorizzato per la prima volta in un trattato di psicologia sociale scritto da Robert-Vincent Joule, "Piccolo Trattato di Manipolazione ad Uso degli Onesti", che consiglio vivamente.

In pratica, c'è il rischio che, desiderando troppo qualcosa, perdiamo di vista le opportunità e gli imprevisti che potrebbero allontanarci dal nostro obiettivo, ma avvicinarci forse alla felicità. L'idea che bisogna seguire i propri desideri per essere felici è fuorviante, perché non è detto che una persona sappia davvero cosa la renda felice, a meno che non abbia passato la vita intera a scoprire tutto ciò che il mondo offre. Difatti, come possiamo sapere che cucinare tailandese ci piace, se non abbiamo mai cucinato o mangiato cibo tailandese?

Racconterò un aneddoto interessante riguardante la mitologia greca, il mito di Pandora. Pandora fu la moglie di Epimeteo, fratello di Prometeo (colui che rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, da lui stesso creati). Zeus, per vendicarsi, non solo condannò Prometeo a essere incatenato a una rupe, dove un'aquila gli divorava il fegato ogni giorno per poi rigenerarsi (una personcina a modo, questo Zeus), ma si vendicò anche del fratello, creando Pandora, una donna bellissima ma curiosa, e dandola in sposa a Epimeteo, che incredulo per l'opportunità datagli, la sposò con gioia.

Come dono di nozze, Zeus diede loro un vaso con la ferma regola di non aprirlo mai. Ma non appena Epimeteo lasciò la casa, Pandora, curiosa, aprì il vaso. Improvvisamente, tutti i mali del mondo uscirono dal vaso: malattie, guerra, sofferenza e altre disgrazie. Tuttavia, un elemento positivo rimase nel vaso dopo la fuga di tutti gli altri mali: la speranza. Questo simboleggia l'idea che, nonostante tutte le difficoltà e sofferenze che l'umanità affronta, la speranza persiste e ci dà la forza di continuare e superare le avversità.

Ma se il vaso conteneva davvero tutti i mali del mondo, e la speranza fu l'ultimo elemento rimasto al suo interno, non è che la speranza fosse il male peggiore di tutti? Perché, come diceva Monicelli, la speranza ci intrappola nell'accettazione.

Voi cosa ne pensate? Cos'è la speranza per voi? Quanto contano i desideri?

La bellezza delle idee: un viaggio oltre la forma

Nella nostra società, si tende spesso a concentrarsi sulla bellezza esteriore, sulla forma, come se fosse l'ultima frontiera della creatività. Ma è veramente così? Possiamo davvero affermare che solo ciò che è formalizzato manifesti un valore?

Durante la mia singolare carriera, mi sono imbattuto in persone che affermavano che "le idee non realizzate valgono poco", quasi relegando l'idea a un ruolo secondario rispetto al prodotto finito. Tuttavia, questo modo di pensare rispecchia un approccio distorto, influenzato dalla nostra cultura capitalista e materialista, in cui la realizzazione e il guadagno occupano il centro della scena. In un contesto dove il successo è tutto ciò che conta, produrre diventa l'unico obiettivo, e l'idea viene ridotta a un semplice tramite tra il fare e l'avere.

Ma la realtà è ben diversa, e in fondo lo sappiamo tutti, anche se raramente lo ammettiamo. L'idea è la genesi di ogni creazione. Nell'idea si cela la bellezza nella sua forma più pura e primitiva, ancora non manifesta, eppure già affascinante. L'idea è la prova che la bellezza non appartiene esclusivamente al mondo materiale, ma esiste su un piano superiore (o inferiore) dove l'energia dell'universo genera, concepisce e produce l'immateriale. Ed è in questo spazio che l'artista si immerge alla ricerca di Idee luminose.

Una buona idea racchiude in sé il potenziale di un albero rigoglioso, che crescerà forte e longevo grazie alla pioggia e al sole, senza bisogno di fertilizzanti o cure artificiali. Al contrario, un'idea debole, nonostante gli interventi esterni e le attenzioni ossessive, avrà difficoltà a competere con la sua sorella più brillante.

Perché condivido queste riflessioni? Perché credo che sia fondamentale dedicare tempo e attenzione all'idea, molto più di quanto si possa immaginare e più di quanto si dedichi alla realizzazione. L'idea è il vero motore, la vera genesi del processo creativo. Senza le idee, il nostro mondo sarebbe piatto e monotono, privo di scoperte e meraviglie.

Avere idee originali e stimolanti non è facile; richiede impegno e soprattutto una mente preparata, flessibile e disposta a correre rischi. L'amore per l'ignoto, la voglia di evadere, la rapidità nel passare da un concetto all'altro e la capacità di sfondare porte aperte sono tutte qualità necessarie per nutrire la creatività. E sappiate che sono pochi coloro che riescono a padroneggiarle senza farsi del male.

Perciò, anche se vi trovate circondati da materialisti convinti che la realizzazione dell'idea sia il vero valore, non lasciatevi influenzare. Lasciateli credere che il fine sia il prodotto, mentre voi continuate a sognare il cambiamento e a cercare ispirazione negli angoli più misteriosi dell'esistenza.

C'è qualcosa là fuori che vi attende e che, una volta scoperto, vi trasformerà per sempre.

Ricordate che la bellezza delle idee risiede nella loro capacità di dar vita a nuove prospettive, di sfidare lo status quo e di spingerci oltre i confini del noto. La bellezza delle idee è un invito a esplorare, a pensare in modo diverso e a creare qualcosa di veramente unico e significativo.

In questa pagina del Diario D'artista voglio celebrare questa bellezza, incoraggiandovi a nutrire la vostra creatività e a dare spazio alle vostre idee, per quanto audaci o rivoluzionarie possano essere. Il mondo è pieno di storie di successo, intuizioni e riflessioni che dimostrano il potere delle idee e la loro capacità di influenzare il futuro che ci aspetta.

Allora, non scoraggiatevi quando vi sembra che le vostre idee non ricevano il giusto riconoscimento o quando il mondo sembra preferire la forma alla sostanza. Continuate a coltivarle e a credere nella loro bellezza intrinseca. Perché, alla fine, è proprio la bellezza delle idee a plasmare il mondo e a renderlo un luogo di infinita meraviglia e possibilità.

L'importanza della scelta dei nomi dei personaggi: significati e simbolismi

Nel post di oggi, mi soffermo sulla scelta dei nomi dei miei personaggi. Un argomento che può sembrare superficiale ma che riveste una certa importanza. Come affermava Shakespeare, "Che cosa c'è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo."

Oppure, un altro testo fondamentale sostiene che "In principio era il verbo".

La parola, dunque, ha un potere antico e profondo: quello di dare vita e di manifestare qualcosa di vero agli occhi altrui. I nomi sono un tentativo di oggettivizzare la realtà e quindi sono lo strumento di comunicazione per eccellenza. Pertanto, ho dedicato particolare attenzione ai significati dei nomi dei miei personaggi, pur cercando di non attribuire un senso a tutto, poiché la vita, l'arte e la bellezza non hanno un senso preciso, ma semplicemente esistono.

In sintesi, da un lato la nomenclatura è la ragion d'essere della realtà, dall'altro è un tentativo superficiale di spiegare tutto. Fatemi sapere cos'è per voi la nomenclatura. Conta? E' importante? Oppure è solo un addobbo?

Iniziamo con Kato, un nome giapponese. Scritto come 加藤, il primo carattere, "加" (ka), significa "aumentare", mentre il secondo, "藤" (to), si riferisce al glicine. Il nome può dunque essere inteso come "glicine che cresce". In alternativa, 加東 ha lo stesso primo carattere e il secondo, "東" (to), che significa "est"; quindi, il nome potrebbe significare "aumentare verso est". Kato è quindi un albero in crescita, che si dirige verso est, alla ricerca della fonte di tutto, della luce e della verità.

Passiamo a Overton, che fa riferimento alla "finestra di Overton", un concetto usato in sociologia che descrive il range di idee o temi ritenuti accettabili nella società. Quando si sposta la finestra di Overton, ciò che era accettabile diventa inaccettabile e viceversa. Overton quindi è colui che continua a modificare la propria visione del mondo, seguendo o spostando la propria finestra di percezione.

Poi ci sono Maya e Govin, due nomi di origine indiana. Maya si riferisce al "Velo di Maya", un concetto che nella filosofia induista indica l'illusione del mondo materiale, che nasconde la vera natura spirituale della realtà. Govin, invece, è un diminutivo di Govinda, un nome sanscrito che significa "colui che porta le mucche al pascolo" e che è associato a Krishna nella mitologia induista.

A volte, un nome si impone e il personaggio si sviluppa attorno ad esso, rendendo difficile per l'autore abbandonarlo. Tuttavia, ci sono momenti in cui è necessario cambiare nomi: ad esempio, Luna, l'amore di Kato, inizialmente si chiamava "Xena", ma il nome richiamava troppo "la principessa guerriera". Allo stesso modo, Rex, l'abile marinaio che "aiuterà" Overton nella sua avventura, ora si chiama "Argo", un nome che suona meno come quello di un famoso cane poliziotto e fa riferimento a una delle più belle storie della mitologia greca, "Giasone e gli Argonauti", che salpano su una nave chiamata Argo alla ricerca del Vello d'oro.

I nomi nel romanzo, dunque, hanno una storia e chiunque voglia approfondire ognuno di essi troverà una motivazione, sia essa emotiva, concettuale, razionale o estetica.

Per concludere, vorrei ribadire che, a mio avviso, la nomenclatura è più un lavoro di studio che di pura espressione artistica. Ho sempre avuto l'impressione che "trovare i nomi giusti" sia un tentativo, vano, di fissare la realtà e dare un senso a questa vita che, come cantava il poeta Vasco Rossi, "un senso non ce l'ha".

A presto per un altro articolo!