Più volte vi ho parlato della mia tecnica della pizza.
L’ho chiamata così perché mi ricorda appunto la lievitazione della pasta madre. In generale, si può dire che un’opera d’arte è come un piatto: ha una sua ricetta, una certa dose di improvvisazione.
L’opera d’arte è lei stessa una storia.
E questo è valido anche per le storie. Ovviamente, andare a scavare su tutte le luci e ombre del processo creativo è un abisso nel quale non voglio sprofondare oggi.
Quindi, per mantenermi sano, affronterò la mia tecnica: quella cosa tangibile, limitata, che ci dà tante certezze e, a volte, ci impedisce di trovare il nostro cuore. Ma spesso ci aiuta a volare.
Per me, tutto parte da un’intuizione, un’idea, che è fermentata dentro di me. Come lo abbia fatto è un mistero, ma è un misto di fisiologia e intellettualità.
È un processo passivo, in cui la parte attiva è proprio il "come vivere": cosa leggere, cosa mangiare, chi frequentare, a cosa dare attenzione.
Tutte queste cose sono i fertilizzanti del nostro orto e, come ogni cuoco sa, un buon piatto è fatto all’80% di buoni ingredienti.
Dopo che l’idea fermentata si manifesta finalmente dentro di me, davanti a me, allora nasce un senso di responsabilità verso quell’afflato.
Mantenerlo vivo. Farne qualcosa. Usarlo. Creare.
E così me lo tengo stretto, ma lo lascio vagare dentro di me ancora libero. Non lo scrivo, non lo dico nemmeno.
Lo lascio lì. È troppo fragile per affrontare il mondo, meglio tenerlo tra le pieghe del pensiero.
Piano piano, anche a mia insaputa, cresce, diventa qualcosa di tangibile, non ancora definito, ma comincia a essere costellato di parole: parole alte.
Vecchiaia. Vendetta. Amore. Destino.
A quel punto so di avere qualcosa che devo cominciare a crescere e a formare con la mia volontà. La tecnica. L’imposizione della volontà sull’idea.
La tecnica serve a domare il caos.
Superato il Rubicone, i miei studi cominciano a venire ogni giorno a bussare:
"Che cosa vuoi dire?"
"Come lo vuoi dire?"
Ancora non lo so! urlo a me stesso, invano.
Non c’è nulla da fare, l’idea ormai è padrona del suo campo e mi urla una cosa sola:
"Scrivimi! Buttami giù da qualche parte che sennò me ne vado e non mi rivedi mai più!"
E allora ecco che scrivo la prima frase, spesso in una cartella chiamata "Idee di storie".
Dopo aver ceduto al capriccio dell’idea, aspetto. Anche perché, a volte, c’è un’altra idea pronta a bussare alla mia porta nel frattempo.
Poi, però, arriva quel giorno in cui mi capita di ripensare di più a un’idea in particolare.
Proprio quella là.
Come mai mi torna in mente?
Forse perché mi è necessaria. Perché mi parla. Perché è interessante. Sì, è lei.
Ed ecco che comincia una fase più dimensionata, in cui decido che di quel blocco di marmo ne farò un’opera.
Ora non si scherza più.
Bisogna rientrare nei cardini: primo atto, secondo, terzo, quarto, quinto. Evento scatenante. Arco del personaggio. Debolezze, desideri. Chi, dove, come, quando e perché.
Risposte! Che prontamente mutano, perché l’atto creativo non è finito, anzi, si è semplicemente spostato verso altri livelli, più "alti", se vogliamo.
L’importante è mantenere vivo il fuoco che ha animato questo processo: quell’idea iniziale.
Quando ci riesco, l’idea iniziale diventa come una frase scolpita nel marmo.
A volte, quella frase è diversa dall’idea. Non può che essere così.
Un’idea è mutevole, non ha forma. Una frase è fatta di parole. Una frase è una definizione immutabile.
Ma grazie a questa frase immutabile, trovo la forza e la disciplina per andare avanti fino alla fine.
Cercando, con tutte le mie forze, di farla diventare bellezza, motivo di vanto e di sostentamento.
Alla prossima pagina.