Perdere per Vincere

Imparare a perdere. Quanto è difficile. Accettare di non essere i migliori. Eppure, a pensarci bene, è forse la condizione sine qua non per arrivare al successo.

Pensateci. Qual è la caratteristica che unisce coloro che nella vita «ce l’hanno fatta»?
La fortuna, mi direte. Sì, probabile, ma quella non dipende da noi, quindi escludiamola dalla nostra equazione (anche se Seneca aveva dei dubbi, definendola come «il talento che incontra l’opportunità»).

Cosa rimane? Il talento, lo sforzo e il coraggio. Figli della volontà, del desiderio, dello studio, del miglioramento.

Ed ecco che emerge un tratto che potrebbe impedire a queste forze di esprimersi in piena potenza: l’arroganza.

L’arroganza, l’incapacità di perdere, di ammettere di aver sbagliato ci segna. Ci impedisce di guardarci allo specchio, di comprenderci a fondo e, soprattutto, di migliorare.
Colui che pensa di sapere già tutto, di aver fatto tutto il possibile, di essere «il massimo», si trova di fronte a un problema colossale: non può migliorare. Non può, perché il primo a credere di non doverlo fare è proprio lui.

La volontà è un motore che si nutre di desiderio, di visione. Ma se il nostro desiderio è ottenere il successo perché «è giusto» invece che «comprendere come fare per riuscire», ecco che ci troviamo in un’impasse dalla quale usciremo per forza con le ossa rotte e con la clessidra del tempo ormai rotta.

Non sprecate il vostro tempo a pensare di meritare ciò che desiderate. Piuttosto, adoperatevi a comprendere come hanno fatto gli altri a ottenerlo, studiate, informatevi, saltate di palo in frasca.
Perché il vero sintomo dell’intelligenza non è la capacità di prevedere il futuro, né la capacità di memorizzare concetti: l’intelligenza è l’abilità di unire i puntini delle infinite dimensioni che si avvolgono.

Disegnare la propria creazione all’interno della tela del reale, scoprire la propria strada mentre la si percorre.

Alcuni giorni fa ho avuto un dibattito con una persona che parlava del futuro dell’arte. Diceva che l’intelligenza artificiale sarà «la sua fine», perché ormai tutti possono produrre musica, immagini, testi con l’ausilio della macchina.

A questa persona mancava una visione fondamentale del mondo: l’arte non è un prodotto, ma un processo umano.
Ciò che ci interessa, nell’arte, è l’artista, il suo processo, la sua crescita, la testimonianza del percorso che lo porta di tappa in tappa, nei meandri del creato, alla ricerca di un senso.

Lo stesso senso che tutti cerchiamo.

Per questo sono ottimista sul futuro, perché so che questo diario, voi, i miei libri, i film, fanno tutti parte di un unico grande «calderone» che manifesta l’unicità dell’artista. Una polaroid multidimensionale, un caleidoscopio dell’anima.

E ognuno di noi è questo: un labirinto di emozioni, di scoperte ancora sconosciute, di segreti da svelare e da custodire.

Il mistero siamo noi, ed è solo tenendoci per mano che potremo andare incontro a esso con la consapevolezza di non essere soli, ma tutt’uno.

Ho letto una formula che mi ha fatto sorridere:

Successo = Talento * Sforzo²

Questo significa che conta di più lo sforzo del talento. In effetti, un detto ci ricorda che la costanza dello sforzo batte sempre il talento sporadico (la favola di Esopo della lepre e della tartaruga ne è l’esempio).
Lo sforzo è al quadrato, esponenziale, potente. Ma il talento è il suo primo moltiplicatore. L’assenza di talento porta a uno sforzo immane per un risultato troppo basso. Ergo, dobbiamo sviluppare entrambi gli aspetti del creare: il talento, attraverso la lettura, il pensiero, il coltivare l’anima, la sensibilità, la nostra umanità; e lo sforzo, attraverso la tecnica, la volontà, la disciplina.

Solo con due ali si riesce a volare.

Alla prossima pagina.

Creare Giocare Crescere

Ieri Elettra mi ha chiesto: «Papà, quali sono le cose che ti piacciono di più nella vita?»

«Che intendi?»

«Le cose da fare.»

Ho questo continuo dubbio: qualsiasi risposta io dia a mia figlia deve essere soppesata, importante, con un senso di responsabilità nei confronti delle prospettive che decido di aprire o chiudere. In fondo, è questo il ruolo di un genitore attento, no?

Dopo alcuni secondi, rispondo: «Creare.»

Lei era seduta al grande tavolo di cristallo del salone a fare i compiti, io ero sul divano, guardavo la TV e le davo le spalle. Non mi sono girato, ma aspettavo di sapere cosa avrebbe detto.

«E la seconda?»

Sorrido.

«La seconda… giocare.»

Creare e giocare. In quella risposta penso di esserci tutto io, nei miei limiti e nella mia dolce follia.

«Ma giocare in che senso?» mi chiede lei.

«Giocare… ai videogiochi, a scacchi, ai giochi. Anche recitare è un gioco. In inglese si dice ‘to play’.»

Insomma, come spesso succede, i figli ci costringono a guardarci allo specchio come fossimo estranei a noi stessi, consapevoli però del ruolo importante che ricopriamo. Non so se ho fatto bene a dirle queste cose. Avrei potuto essere più furbo, dirle «essere brava a fare i compiti» oppure «ubbidire a mamma e papà», ma non ci riesco. Sono come mia madre: per me, Elettra è una persona che merita il mio rispetto e la mia assoluta onestà. La tratto come un’adulta (non in tutto, ma con quel tipo di rispetto) perché penso che sia l’unico modo affinché lo diventi davvero. Essere responsabile delle proprie azioni, di ciò che si dice o che si fa, e anche di ciò che si desidera.

Se non lo conoscete, c’è un filosofo francese, René Girard, che parla del processo mimetico e di come l’imitazione sia il punto iniziale dell’apprendimento di ogni essere umano. Ciò che fanno i nostri figli è ciò che vedono fare a noi. Per questo la loro esistenza è una scure alla nostra coscienza: ci costringono a vedere ciò che siamo, sempre che ammettiamo di poterlo vedere. Sempre che teniamo gli occhi aperti. Io lo faccio, ci provo con tutto me stesso. Provo a insegnarle ciò che ho imparato in un’altra età.

Per esempio, stamattina, mentre la accompagnavo a scuola, mi ha chiesto: «Papà, ma tra una cosa facile e una cosa difficile, cosa è meglio scegliere?»

Chi mi conosce sa che la risposta è fin troppo ovvia. Penso lo sia per tutti. Ma la domanda non è affatto scontata. In realtà, un bambino vi dirà sempre «la facile», perché è la scelta «più facile». Ed ecco che scatta in me il paladino della scoperta, del superamento di se stessi e dei propri limiti.

«Sempre la scelta difficile, amore mio.»

«Perché?»

«Perché è quella che ti farà crescere. Sai, è proprio quando dici che una cosa è difficile che stai migliorando. Prima, non stavi facendo nulla.»

Questo insegnamento, così prezioso, mi fu donato da uno dei miei maestri di regia, Matthias Langhoff, che, dopo due anni di collaborazione, mi lasciò un biglietto che tengo nel portafoglio e nel cuore, ogni minuto della mia vita qui: «[…] È proprio quando dici ‘è troppo’ che il lavoro inizia. […]»

Un mantra che mi ha costretto a superarmi, a cercare di trovare luoghi difficili, a spingermi là dove la mia logica non mi avrebbe mai portato.

«Supera te stessa, amore mio. È questa la vita.»

Alla prossima pagina.

Cesellare l’anima

Di nuovo sul divano… è l’una di notte. Ho lavorato tutto il giorno per finalizzare la seconda stesura del terzo volume del Labirinto della Speranza. Quello che ormai chiamo il passaggio di cesellatura.

Perché è così: cesello le frasi. Le limo con delicatezza, cambio una parola, una virgola, restituisco la versione più fruibile possibile, quella che scivola meglio in gola.

Ho questo credo, che qualcosa, per essere davvero apprezzabile, debba essere semplice. Come Rimbaud. Ho sempre avuto la convinzione che il poeta bravo sia colui che, con poche parole semplici, riesce a toccare l’anima, a emozionare. Ed è questo che provo a fare con la scrittura di storie.

Ovviamente, le storie hanno differenze sostanziali rispetto alla poesia. La storia è un viaggio umano, almeno per me. È una cura dell’anima, sia di chi legge, sia dell’autore, sia del protagonista. La storia è didattica dello spirito, in forma di poesia.

Penso che la cesellatura di cui parlavo sopra sia il ludibrio di tutti coloro che amano la frase pulita, semplice ma ficcante. E lo ammetto, io sono così. Adoro la fase di cesellatura, perché mi rilassa. C’è chi si rilassa stirando, io mi rilasso pulendo il mio testo, rendendolo limpido come acqua cristallina.

C’è un silenzio incredibile in questo momento. Fino a mezzanotte, una festa, non so dove, sparava a mille decibel Raffaella Carrà per le strade della città. Ora finalmente si è spenta e non rimane che il rumore lontano della capitale. Una macchina, e quel silenzio pressante che preme sui timpani.

Provo piacere a condividere questa solitudine con le parole. Un altro strano paradosso della scrittura: una condivisione ritardata. Scrivo da solo, sapendo che mi leggerete e che mi rileggerò.

In questa fase, gli articoli del diario non sono cesellati, anzi. Sono dei mostri colmi di errori di battitura e sensi persi. Ma è giusto che sia così, perché quello che conta è l’autenticità del gesto. Per il resto c’è tempo.

L’autenticità… che parola complessa. Immagino di spiegarla a mia figlia di otto anni. «È il modo naturale di essere».

Penso che non capirebbe. L’autenticità, per lei, è l’unica realtà che conosce. Poi, con la perdita dell’innocenza, ecco che spesso svanisce anche lei.

Forse è così. L’autenticità è l’innocenza consapevole, quel legame con la nostra anima, il nostro io, fatto di luci e ombre, desideri e paure.

Per questo non bisogna smettere di frequentarsi. Per questo serve il silenzio, la scrittura, il pensiero. Per rimanere autentici e non finire sommersi dal rumore del mondo.

Un altro luogo dove possiamo recuperarla sono i sogni. Essi sono, per antonomasia, autentici. Ci parlano di noi. Sono indizi, suggerimenti.

Ieri ho sognato di essere in un terribile ritardo. Dovevo essere sul set alle 14:30 ed erano le 14:32 ed ero ancora a casa. Che brutta sensazione. Erano anni che non la percepivo. Chissà, forse mi sento in ritardo su qualcosa, sento la pressione della scrittura imprimersi sul mio cuore.

Ma non è così: il Labirinto della Speranza avrà da me tutto il tempo che merita. Devo fare meglio dell’Anello, rispecchiare la sua crescita, sia come autore sia come uomo.

Ora, a letto, che domani si riprende.

Alla prossima pagina.

Gusto e Arte

I miei nonni toscani avevano un ristorante. Mio padre, cresciuto in quell’ambiente, ha poi intrapreso una strada completamente diversa. È partito per la Francia a studiare matematica, per poi finire nell’informatica (ecco spiegato il mio lato tecnologico). Io, invece, come sapete, mi muovo nell’arte di raccontare storie.

Ma c’è una cosa che è passata di generazione in generazione senza perdere il proprio smalto: l’amore per la cucina. Quella italiana, tradizionale, che sia mio nonno o mia nonna preparavano con tanta pazienza — ore ai fornelli, sobbolliture lente, crostini toscani, agnello al forno, lasagne (li troverete tra le pagine de L’Anello di Saturno) — ma anche cucina internazionale. Mio padre, infatti, ha portato in casa il cous cous, il curry e un’infinità di piatti asiatici, proprio come Alberto nella saga.

Insomma, ho ricevuto un meraviglioso regalo genealogico: il gusto. Lo considero un elemento fondamentale della mia visione di ciò che è l’arte. Se ci pensate, la forma d’arte più profonda che abbiamo è proprio la cucina. Un’opera che viene assorbita in toto dallo spettatore, che la fa letteralmente sua. Proprio come nella buona arte, una buona pietanza richiede spesso un lungo tempo di cottura, per fare in modo che gli atomi si amalgamino, proprio come le parole e i pensieri di un libro.

E poi, anche l’occhio vuole la sua parte. Si mangia con lo sguardo, con l’olfatto, poi col palato e infine con il corpo. Raccoglie molti dei nostri sensi.

Per chi cominciasse a leggermi ora, ho una teoria per la buona scrittura, che chiamo la tecnica della pizza. Una buona storia è fatta di ingredienti semplici che insieme creano reazioni chimiche interessanti: acqua, farina, sale e poi… tempo. Serve la fermentazione, che la fa lievitare in pasta madre. E lì inizia il lavoro manuale: impastare, stendere, ornare di gusto e ingredienti, cuocere. E infine, l’impiattamento.

Spesso ritrovo in colleghi, attori e non, questo piacere per la cucina. In Italia, soprattutto, c’è un amore per la tavola, per la condivisione di un momento di comunione in cui tutti insieme assaggiamo lo stesso gusto. È una forma di catarsi che, purtroppo, è sempre meno presente in questa società che ci atomizza, ci isola.

Ieri ho fatto le lingue di gatto a mia figlia, una ricetta tanto semplice quanto buonissima: «stesso peso di farina, zucchero, albume e burro». Tutto lì. Quasi magica, si potrebbe dire. Otto-dieci minuti di cottura a 200 gradi e voilà: li fate seccare e avete biscotti che valgono dieci volte quelli del supermercato. E soprattutto un sorriso sul volto degli astanti, che non riescono a credere che un biscotto possa essere così buono. Occhio però, danno dipendenza e fanno ingrassare, quindi moderazione.

Ecco, la moderazione, questa sconosciuta! Non ci riesco. Se mi ritrovo davanti un pacchetto di biscotti, per non parlare delle mie lingue di gatto, cedo.

Come diceva Oscar Wilde nel magnifico «Ritratto di Dorian Gray», l’unico modo per resistere a una tentazione è cedervi.

Ecco, Oscar, sono bravissimo a resistere 😅. La gola potrebbe essere il mio peccato capitale, temo. A volte mi confronto con questi sette mostri, più per tentare di comprendermi, di associarmi a uno di loro, un po’ come i segni astrologici. Sarebbe divertente se, al posto di chiederci «sei toro o ariete?», chiedessimo «sei più gola o lussuria?»

Una intima confessione illuminante e affascinante.

E voi, cosa vi sentite? Superbi, avari, lussuriosi, irascibili, golosi, invidiosi, pigri?

Anche la superbia mi calza a pennello, temo.

Goloso e superbo: che combo!

Alla prossima pagina.

Crisi e Rinascita

Io sono uno scettico, di natura bastian contrario. Non credo, nemmeno se vedo con i miei occhi. Eppure, la mia profonda curiosità per la natura delle cose mi ha condotto, per la prossima saga, attraverso le correnti del paranormale, dell’astrologia, della chiromanzia, dei medium. Attraverserò oceani di manipolazioni, sette, guru e seducenti streghe.

Io, come Erik, affronto tutto questo con lo spirito di chi dubita. Ma a differenza del mio eroe, non sono nella stessa fase della vita, non sto vivendo la stessa crisi.

A volte è proprio questo che conta: quanto si è in crisi.

I migliori, persino i più intelligenti, possono cadere nelle reti di chi desidera altro che amicizia e non è animato da buone intenzioni. Lo leggiamo spesso: le vittime di un sedicente guru possono essere un dottore, uno psicanalista, persone normali, unite però da ferite complesse, da un passato fatto di segreti, delusioni e punizioni forse ingiuste.

Tutti noi abbiamo avuto a che fare con il dolore del mondo. E tutti abbiamo fatto ciò che potevamo per risalire la china, dimenticare, migliorarci, tornare a vedere il sole. Ma alcuni, invece di affrontare il dolore e sanarlo con la consapevolezza, scelgono di chiudersi in un mondo di buio. In una scatola dentro la quale non si sente più nulla, nemmeno il dolore. Un castello apparentemente indistruttibile dove vivere la quotidianità come se non ci fosse differenza tra giorno e notte, estate e inverno, piacere e dolore.

Obnubilati da qualcosa: il gioco, il lavoro, le droghe, l’alcol.

Erik, come scoprirete, ha scelto il lavoro.

Spesso, chi decide di perdersi trova un successo derivato da una follia apparente, superficiale, che però non sana davvero le ferite dell’anima.

E poi, un giorno, succede qualcosa di banale, un piccolo avvenimento, una crepa minuscola che si apre fino a diventare una voragine.

Ed è a quel punto che tutto si libera. È in quel momento che si insinua, come nebbia, la manipolazione di chi desidera ciò che Erik ha.

La domanda ora è: ce la farà il nostro eroe a sopravvivere alle intemperie di un mondo che aveva dimenticato esistesse?

Sotto le corazze più dure si nascondono i cuori più teneri. E quando la corazza si rompe, ad attendere c’è l’ombra del dolore.

Ma questo è solo l’inizio, l’incipit, o forse nemmeno quello. Forse è solo un momento, un passaggio in una storia complessa e articolata, una saga popolata da decine di persone, ognuna attratta da un desiderio, da una speranza.

Ognuna nel proprio labirinto.

Sto cominciando il quarto volume, un volume delicato, emotivo, profondo e mistico. Il momento magico, come lo chiamo. La sua struttura è complessa, molto articolata e veloce. Cinematografica: so già che sarà un aggettivo che mi verrà spesso attribuito. Ed è giusto, in fondo vengo da lì.

Trovo piacere nel provare a creare, nella mente, nel cuore e nell’anima di chi mi legge, un «film» fatto non solo di immagini, ma di pensieri, di filosofia e soprattutto di umanità.

Non vedo l’ora di condividere con voi altro di questa opera. Per dirvi quanto mi piace scrivere, sto già pensando alla prossima. Ho già il titolo, ho già la storia.

Devo solo trovare il tempo. Quel tempo che sembra non bastare mai. Forse perché mi sono imposto di non correre, di procedere passo dopo passo, nel migliore dei modi, dando il tempo alle idee di nascere, maturare, dare frutti, e scrivere sulle spalle di generazioni di intuizioni. Non una, ma cento, mille. E poi liberarmi dei fardelli, di quelle che «sono belle, ma non servono». Una danza continua di parole, matematiche, emotive, estetiche, spirituali.

Come dico spesso, scrivo per curarmi. E di rimando, curo il protagonista. E di rimando, chi mi legge cura quella parte dell’anima che condivide con entrambi.

Alla prossima pagina.

Parto per la tangente

Mi capita spesso di partire per la tangente, e devo dire che non so se sia il mio più grande difetto o una qualità intrinseca del mio processo.
Sono un ossessivo compulsivo, non mi fermo finché non sono soddisfatto totalmente, oppure talmente esausto che è il mio corpo a impormi la pace.

In queste ultime settimane, per esempio, mi sono addentrato in un territorio a me consono, ma che non frequentavo dai tempi dell’università. Sto sviluppando un app che mi aiuterà in questa impresa editoriale.
Per app intendo strumenti che mi permettono, in poco tempo, di fare analisi dei numeri, oppure servire a voi che mi leggete per trovare il volume giusto della saga giusta, o ancora farvi una domanda che mi aiuta a capire a che punto siete con la lettura (questo piccolo intermezzo che arriva a fine articolo).

Visto che negli ultimi anni mi sono dedicato anima e corpo non solo alla recitazione e alla scrittura, ma anche al marketing, ho deciso che era venuto il tempo di fare le cose sul serio, e di creare una mia suite di strumenti per «facilitarmi» il lavoro.

Mi viene da ridere, perché se forse è vero (forse) che mi faciliteranno il lavoro, è certo che ad oggi mi stanno consumando vivo. Sono almeno due settimane che passo ogni ora del giorno e della notte libera a raffinare, togliere e mettere cose che mi servono.

Da vero ossessivo compulsivo non riesco a resistere alla chiamata di introdurre una nuova cosa, sempre sperando che questa non si riveli un altro labirinto nel quale mi infilo e che mi richiederà dieci volte il tempo pensato.
E, puntualmente, è esattamente questo che mi aspetta.

Ma ora che ho immaginato cosa voglio, che ho salivato all’idea di avere questa nuova possibilità, come posso rinunciarvi?
Impossibile.

E quindi la mia personale scalata all’Everest prende un bivio ancora più rischioso, una diramazione che allunga di nuovo il viaggio.
E poi un’altra.
E un’altra ancora.

Per fortuna tengo bene a mente perché lo sto facendo. Credo che il «perché» sia l’unica domanda salvifica per l’artista. Lo costringe a una frontiera, a un limite che si allinea con la sua anima.

«Perché?»
«Perché scrivo? Perché recito? Perché?»

Perché mi piace comunicare, mi piace emozionare, mi piace vedere e sentire nell’altro un contatto che va oltre la molecola. Qualcosa che si muove nell’etere, nello spazio vuoto tra gli atomi. L’arte.

È per questo che lo faccio. Per esistere e coesistere nel presente con la recitazione e anche altrove, in voi che mi leggete.

Ho accumulato un ritardo di parecchie settimane sulla mia scaletta da scrittore. Dovrei già essere in mezzo alla scrittura del quarto volume del Labirinto della Speranza, ma non ho ancora consegnato il terzo ai beta reader.

In compenso, ho già la scaletta, quindi oso sperare che, arrivato al quarto volume, i personaggi siano ora più a fuoco e mi richiedano meno fatica. È bella, questa fase.

C’è da dire che in questa saga ho usato molto meccanismi narrativi moderni (il flashback, per esempio), che hanno la qualità di permettermi di scoprire il passato dei personaggi e capirne meglio il presente.

E ovviamente, per rendermi la vita facile (come avete capito, è la mia specialità :D), ho deciso che nell’ultimo volume avrò due linee temporali, e il flashback sarà incentrato (per la prima volta) sul protagonista.

Cosa significa?
Che il mio protagonista lo scoprirò davvero, sia nel passato che nel presente, a saga conclusa.

La seconda stesura sarà uno spasso.

Poco ma buono

Ho smesso di postare sui social.
Chi mi segue lo avrà notato: mi sono fatto silenzioso, invisibile.
Posto alcune stories, di tanto in tanto, in cui condivido momenti speciali, il set, la famiglia, la vita.

C’è un motivo dietro a tutto questo, e penso che il diario sia il luogo perfetto per spiegarlo.
A un certo punto, nella vita, bisogna fare delle scelte. Non si può fare tutto.
Il nostro tempo sulla terra è limitato, e i desideri che ci animano invece no.
(Come diceva Einstein, ci sono due cose infinite: l’universo e la stupidità umana. Non sono certo della prima.)

Insomma, io ho la tendenza a voler fare un po’ di tutto.
A essere presente sui social e anche a scrivere un blog, che è un podcast con contenuti profondi.
Ma postare quotidianamente sui social è estenuante, e soprattutto, non valorizza.

La continua esposizione non è per forza un esempio positivo.
Per mille motivi: il primo è che, a un certo punto, non hai più niente da dire.
O dici la stessa cosa in varie salse.
O dici qualcosa che hanno già detto.
O qualcosa che non aveva bisogno di essere detto.

E visto che cerco, qui, in questo nostro giardino privato, di aprire il cuore e l’anima, di mostrarmi per chi sono, con la mia voce, e fare in modo che il mio messaggio sia, per chi mi legge, un conforto, un momento di fuga, un momento anche di riflessione, ho capito che il social network non fa per me.

In realtà già lo sapevo.
Io sono uno di quelli che alle feste se ne sta con la schiena contro il muro, nell’ombra, ad aspettare di poter parlare di qualcosa di interessante con una persona.
Sono timido, schivo e taciturno.
I social non sono il mio ambiente.
La scrittura invece sì.

Per legarmi al titolo dell’articolo: amo il segnale, non il rumore.
Per segnale intendo il contenuto sottostante la forma. L’arte. Il pensiero, il motivo.
Il rumore invece è quello che si fa quando non si ha nulla da dire, ma si sente il bisogno di farlo per avere l’illusione di esistere.

E credo che sia una delle piaghe di questa sovrabbondanza di esposizione.
Ci esaurisce. Sia chi ascolta che chi scrive.

Quante volte ci ritroviamo sui social ad ascoltare le solite cose, che piano piano ci spengono invece di accenderci.
Certo, a volte si trova la perla, ed è per questo che ci torniamo.
Ma la maggior parte delle volte mi annoio.

Allora ho scelto.
Meglio poco ma buono.
Ho l’età giusta.
E soprattutto l’esposizione l’ho già vissuta come attore.

È un discorso che facevo con Paola, (che mi legge il lunedì mattina, sul treno, con un caffè).
Allora mi dico che, in questo futuro che mischia scrittura e recitazione, la relazione perfetta tra me e voi sia proprio questa: il testo, la voce.

Chi mi scrive sui social sa che rispondo spesso.
Un po’ perché sono spesso al computer, un po’ perché la scrittura è un mezzo per me naturale.
E infine perché adoro comunicare con chi mi segue.

Che strano… per uno che ha fatto della voce il suo lavoro, amare così tanto il silenzio.
Ma chi recita lo sa. È dal silenzio che nasce tutto.

Spero che questa ambivalenza continui ad arricchirmi, ad arricchirvi e a darmi la spinta di andare avanti.

Senza il blu

Ai tempi di Omero, non esisteva la parola “blu”.

Quella che può sembrare un aneddoto privo di reale interesse, invece, mi ha aperto una porta creativa.

Immaginate di dover raccontare la storia di un uomo. L’uomo più intelligente di tutti, colui che non usa la forza degli eroi, colui che non è figlio di un dio. Un uomo che, con le sue sole forze limitate e il suo ingegno, è capace di superare ciclopi, maghi e animali mitologici.

Ulisse ha viaggiato per il Mediterraneo per anni, affrontando mille peripezie. E mai una volta, nell’Odissea, viene menzionato il colore “blu”.

Provate a immaginare di raccontare una storia che si svolge in mare e non menzionare mai il suo colore. L’Odissea è questo. E lo trovo un esempio formidabile di come i limiti alla nostra creatività siano imposti da noi stessi.

Se Omero è stato capace di raccontare una storia evitando il suo colore dominante, e non una storia qualsiasi, ma la storia che dà inizio all’umanità che vede se stessa come centrale nel mondo, allora ogni limite, paura o dubbio che possiamo avere sulla nostra creazione è artificiale. Ma superabile.

Può capitare di rimanere bloccati dentro un meccanismo, vuoi per volontà — cioè non siamo disposti a mollare un’idea e forziamo la realtà per farla funzionare — vuoi per richieste esterne. Per esempio, la volte mi pongo domande sull'opera che esulano dall’estetica o dalla tecnica, ma si focalizzano sull’aspetto del mercato o della fattibilità.

Tutti abbiamo paletti e limiti, voluti o imposti.

Il fatto che siamo consapevoli di questi limiti influenza la nostra capacità di superarli. Omero non aveva la parola “blu” e questo non gli ha impedito di scrivere la storia di mare più bella di tutte.

Questo significa che qualsiasi limite vi siate imposti, qualsiasi ostacolo creativo vi troviate ad affrontare, può essere superato semplicemente dimenticandone l’esistenza.

C’è un momento in “The Matrix” in cui un ragazzino piega un cucchiaio con il pensiero. Come fa? Dimentica che è un cucchiaio.

Il primo ostacolo da superare siamo noi.

Certo... esistono ostacoli tangibili, troppo reali per essere ignorati, e questo ci richiede di continuare il nostro percorso di crescita per poterci voltare verso questi ostacoli come il gigante verso la formica.

Ricordo che da bambino certe cose mi sembravano insormontabili, ora non le prendo nemmeno in considerazione.

Ma altre lo sono ancora: il timore di parlare a qualcuno, di chiedere quello che mi spetta, di farmi valere.

Faccio fatica a farmi valere.

Spesso lascio a Eleonora l’onere di andare a “rompere” — che poi è solo chiedere ciò che spetta. Sono fatto così, mi vergogno. Ho il difetto di farmi andare bene le cose, anche quando non dovrebbero essere così.

Forse è una forma di pigrizia: mi faccio andare bene le cose per non dover affrontare quel momento in cui rischio di sembrare antipatico.

Ma non c’è antipatia nel chiedere ciò che è dovuto, no?

Faccio ancora fatica, a 45 anni, ad accettarlo.

Come posso associare il “non blu” della Grecia antica a questo pensiero?

Forse quel desiderio di essere simpatico a tutti i costi è un limite che mi sono imposto. Per superarlo, dovrei trovare il piacere di farmi valere.

Un po’ negli anni sono migliorato, ma ho tanta strada da fare e poco tempo.

Sto concludendo la prima stesura del terzo volume de Il Labirinto della Speranza, ma sono indeciso sulle copertine, sull’approccio… più concettuale o più pittorico? Ancora non lo so. Oscillo tra caldo e freddo, tra forma e sostanza.

Nel chiudere il terzo, immagino già il quarto (era già stata stesa una prima stesura, ma è stata completamente trasformata dall'evoluzione dei personaggi). Più mi avvicino alla fine, più si fa chiaro il cuore della verità, il grande segreto che ho trovato sepolto al centro del labirinto.

Dopo di esso, i miei personaggi non saranno mai più gli stessi, e questo preparerà il terreno per l’ultimo volume: l’ineluttabile scontro finale.

Dalla bozza alla prima stesura

Oggi voglio condividere con voi il mio processo di scrittura.
Come sapete, scrivo saghe. Pentalogie. Cinque volumi, ognuno dei quali rappresenta un atto della mia grande storia.
Questo richiede un profondo ed elaborato lavoro di strutturazione: atto per atto, capitolo per capitolo, scena per scena.

Oggi però voglio mostrarvi il processo che porta dalla bozza «vomito» di una scena alla prima stesura.
Quindi la pagina scritta seguendo le indicazioni della scena.

Una specie di «Prima e Dopo», come nelle pubblicità dei prodotti dimagranti.
Ho scelto, per l’occasione, una scena descrittiva. Esse sono, per quanto mi riguarda, le più difficili, perché rischiano di essere prolisse e noiose.
Il segreto? Dare una personalità a ciò che descrivo e far vivere la sensazione del protagonista al lettore.

Come sempre, l’immedesimazione è centrale.
Vi mostrerò un estratto della bozza e poi della prima stesura.

PS: La prima stesura non è definitiva. Sarà seguita, a fine saga, dalla seconda stesura.
E poi, infine, il tutto passerà all’editing esterno di Antonella Cavuoto, che mi ha seguito nell’Anello di Saturno.

BOZZA:
Erik spinge la porta, che cigola su cardini ossidati. La cucina del castello è immersa in una penombra polverosa. Al centro troneggia un enorme camino annerito, abbastanza grande da arrostire un cervo intero. Pentole e padelle di rame, opache e incrostate, pendono da ganci arrugginiti, come trofei abbandonati. Il pavimento è cosparso di cenere secca e detriti, le mattonelle spaccate dal tempo. Sul tavolo di pietra, un coltello arrugginito giace accanto a una vecchia zuppiera incrinata. Ragnatele spesse come veli pendono dagli angoli del soffitto e si allungano sui mobili. L’odore è una commistione di muffa, legno marcio e legno affumicato. Da lontano, sente gli scricchiolii del legno gonfio di umidità, che sembra spingere sulle pareti di roccia pesante. «Nessuno cucina qui da secoli.», pensa, adocchiando la porta d’ingresso. La supera, infilandosi in un piccolo corridoio stretto e soffocante, e finalmente fuoriesce davanti all’ingresso maestoso.

PRIMA STESURA:
Erik spinge la porta, che cigola sui cardini ossidati. La cucina del castello è immersa in una penombra polverosa, densa come neve. Al centro troneggia un enorme camino annerito, grande abbastanza da arrostire un cervo intero. Ora giace spento, dimenticato come la selvaggina che nei secoli vi è stata divorata. Sui muri, pentole e padelle di rame, opache e incrostate, pendono da ganci arrugginiti come trofei abbandonati. Il pavimento è cosparso di cenere secca, schegge di legno e detriti. Le mattonelle, spezzate dal tempo, sostengono un tavolo di pietra: sopra, un coltello arrugginito giace accanto a una vecchia zuppiera incrinata, come un cimelio dimenticato in un altare domestico. Dalla finestra filtrano nubi scure. In controluce, ragnatele spesse come veli si tendono tra gli infissi. L’odore è un intreccio acre di muffa, legno marcio e fumo spento. Ascolta. Scricchiolii sommessi. Forse il legno gonfio d’umidità, forse presenze invisibili che ancora abitano il luogo. «Nessuno cucina qui da secoli», pensa, fissando la porta che conduce altrove. La attraversa, infilandosi in un corridoio stretto e soffocante. Le mura spesse sembrano stringersi su di lui, come se il castello volesse strangolarlo. Cammina a lungo, finché non emerge nell’ingresso principale: un luogo maestoso, congelato nel tempo.

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Come potete notare, sono passato da una dimensione documentativa e meramente descrittiva, a una dimensione più consona al genere della saga, thriller psicologico. Quindi più simbolica e sensoriale.
Le penombre rafforzano l’immaginazione di chi legge e i dettagli non sono solo «fotografia», ma «atmosfera».

Sono curioso di sapere cosa ne pensate, quindi vi aspetto nei commenti.

Il mare

Il mare, oscuro, luminoso.

Tetro di notte, silenzioso e profondo come un abisso. Traditore, ammaliante.

Il mare che sto vedendo ora Fa mostra della sua potenza con tranquillità.

Onde dalla schiuma bianca, non troppo alte, il giusto perché i bambini possano prenderle, arrotolarsi, mangiare sabbia e sorridere allo sforzo.

Era tra le cose che più mi piacevano, da giovane, a Tellaro.

Prendere le onde. Tornare a casa la sera con la pelle graffiata dalla roccia, esausto, i capelli secchi di sale.

I giorni di mare alto erano quelli in cui ti svegliavi, sentivi gli amici e ti organizzavi per andare a prendere le onde.

Poi, nel pomeriggio uggioso, dopo poche gocce di pioggia calde, tra fiatoni e risate, un gelato.

Il Cucciolone, con le sue barzellette che non facevano ridere. Così ho scoperto il Cinquestelle. Un Cornetto al croccantino che, lo ammetto, ancora adoro.

Il mare, oggi, sulla spiaggia di Fregene ospita surfisti che aspettano onde troppo minute per le loro intenzioni. Il vento, dolce, riscaldato da un sole che sembra nascondersi dietro quel fresco solo per arrossarmi la pelle, è forte di un’energia salina e sahariana al contempo.

Le nuvole.

Illusione di forma e movimento. Immobili se le fissi, cangianti se cambi lo sguardo e torni da loro dopo un attimo. Sono altre.

Come gli uomini.

Spesso ci rendiamo conto delle differenze - del tempo e dell’età - solo quando lo spazio che ci distanzia da coloro che ci circondano aumenta.

Poi torniamo, e ci rendiamo conto di un neo, di una ruga, di una nuova parola, di un altro pensiero.

Siamo come le nuvole.

Fatti d’acqua di mare, ma privati della costanza immortale dell’oceano, perso a far l’amore con la terra. A volte dolce, a volte violento.

Una relazione che regge al tempo, la loro.

I Greci, nei miti di origine, avevano Urano e Gaia: il sole, il cielo, la terra, il mare.

Essi sono i motori della nostra esistenza. Decidono del vento, delle piogge, del nostro umore e desideri.

Cerco tra le nuvole una forma che richiami qualcosa.

Un effetto che si chiama «pareidolia».

Ma non vedo nulla.

Sono più attratto dalla pagina, dalle parole, dal desiderio di scavare attraverso il flusso, e trovare una pepita di pensiero, una nuova piuma da mettere al cappello.

Eccola!

Un volto di profilo. La bocca aperta, un naso.

Ecco che ora mi sono evidenti i movimenti delle nuvole attorno.

Perché vorrei che non cambiassero, ora che le ho fissate in qualcosa che riconosco.

Ora che tutto ha finalmente un senso.

Ma il naso, sparisce.

La bocca si è chiusa.

La nuvola è tornata nuvola.

Non importa, ne troverò un’altra.

Il paradiso degli attori

Fare l’attore… cosa vuol dire? Che strano mestiere, no?

Faccio finta di professione. Sono un esperto manipolatore dell’emozione oppure un sincero espositore della mia intimità?

Come diceva così bene Gassman: «L’attore è una via di mezzo tra un sacerdote e una puttana.»

Quando lo dissi a Greenaway, in uno dei nostri viaggi promozionali per il suo film in Italia, la citazione gli piacque molto. Scoppiò addirittura a ridere, quasi cedendo il suo aplomb inglese.

Ma c’è un fondo di verità in questa boutade.

L’attore dona il proprio corpo, come una meretrice, al prossimo personaggio, alla scena, al pubblico.

Esegue un atto, usando come mezzo il proprio corpo. A volte d’amore, a volte d’odio, a volte di semplice quotidianità.

Ma è pur sempre un atto in cui doniamo noi stessi.

Poi, la scena, la recitazione, il gesto, hanno una loro sacralità, qualcosa di profondamente umano, misterioso ed empatico.

Qualcosa che ha a che fare con il rito, con la magia dell’arte. E quindi sì, la citazione è corretta.

Ma recitare vuol dire anche tante altre cose.

Oggi mi sono svegliato alle 06:20, per poter essere sul set alle 07:00, pronto per vestirmi, farmi truccare e pettinare.

Che per un uomo è piuttosto veloce, ma essendo negli anni ’60, il mio nuovo baffo ha bisogno di essere sistemato e i miei capelli spesso tagliati quel poco che basta per mantenere una perfetta pulizia.

Poi, dopo un caffè ed essermi vestito di tutto punto, mi preparo le scene della giornata. Le rileggo.

A volte ripasso a memoria. Ma sono come quegli studenti che non studiano il giorno prima dell’esame.

Mi piace prepararmi con largo anticipo. La memoria è un tassello fondamentale della recitazione.

Essa deve essere come un muscolo: istintiva, priva di ogni passaggio razionale.

La memoria non deve essere ricordata dalla mente, ma dal corpo.

E così, con in testa tutte le scene del giorno (a volte possono anche essere 9 scene da 4 pagine l’una, quindi uno sforzo considerevole da un punto di vista mnemonico), parto per il set, per procedere all’atto della recitazione.

Sul set, si salutano il regista, la segretaria di edizione (colei che verifica che tutto sia in continuità), poi la troupe, i tecnici.

Un bicchiere d’acqua e via, si parte.

A quel punto, non bisogna perdere la concentrazione.

Io sono uno di quegli attori che, per non perderla, scherza.

Mi piace far ridere, giocare, mantenere quella leggerezza bambinesca.

Ma questo richiede di essersi ben preparati prima, e non tutti hanno lo stesso metodo.

Quindi bisogna stare all’occhio e non disturbare troppo il proprio partner.

Uno dei grandi segreti della recitazione, che poche scuole vi diranno, è che il talento di un attore si vede anche nella sua capacità di stabilire un’alchimia con gli altri attori con cui recita. Fondamentale.

E così, una scena dopo l’altra, arriva la pausa.

Io faccio il digiuno intermittente, a modo mio — in sostanza, non pranzo.

Quindi, con la mia bottiglia d’acqua, mi metto in camerino e indovinate cosa faccio… scrivo 🙂

Scrivo fino a che non viene qualcuno a bussare per dirmi che «sono pronti e mi aspettano».

Il pomeriggio si svolge con la stessa energia, lo stesso entusiasmo.

E poi, verso le 18, mi cambio, torno «l’uomo dal solito tempo» e vado a casa, dove mi aspettano spesso Eleonora ed Elettra.

Cucino io, quindi quando arrivo «mi tocca».

Ma in realtà è una buona occasione per stare con loro, per chiedere cosa vogliono, e renderle felici.

E poi, dopo cena, mi ritaglio un altro paio d’ore per scrivere o occuparmi del sito, o del marketing — insomma, di tutte le imprese a lato che affronto, come sapete, con lo stesso entusiasmo della recitazione.

Ecco, questa è una giornata nella vita di un attore.

Una di quelle che lo colmano di gratitudine.

Spoiler: Non aprite!

Da: «Il labirinto della speranza, vol.3»

L’aria di Cles è umida. Nel cielo, tracce di nuvole grigie hanno cancellato il candore degli ultimi giorni. Sembra avvicinarsi una tempesta. Un vento freddo accompagna Erik mentre avanza sulla ghiaia del cimitero, due rose in mano. Chiude il cancello alle sue spalle, quasi a ritagliarsi un momento di assoluta solitudine.
Fa un passo avanti. E guarda. Le tombe, le lapidi, le croci.
I nomi.
Sono tutti lì. «Chissà se stanno guardando.»
Alza gli occhi al cielo. Poi scende a terra e si perde nel vuoto.
«Alice…»
Un crampo gli stringe l’addome.
«Lea…»
«Quanti anni avrebbe adesso? Sarebbe già grande… Sarebbe andata via.» le lacrime gli scendono senza che nemmeno se ne accorga. «Cosa fanno le ragazze di sedici anni al giorno d’oggi?»
«Cosa fanno?» chiede con un filo di voce alla platea di anime che ascoltano in silenzio. Una lacrima scivola lungo la narice. Un’altra s’infila nell’angolo della bocca.
Il naso cola; si asciuga sulla barba ispida.
«Cosa fanno le ragazze di quindi anni al giorno d’oggi… Vorrei tanto saperlo.»
Singhiozza. Non ci riesce ad andare avanti. Gli manca l’aria.
Dovrebbe uscire, ma non vuole. Il suo posto è qui.
Respira.
Cerca un briciolo di forza per andare avanti. Si asciuga le lacrime. Sente di nuovo dolore. Una pressione nel petto. La testa gira, manca l’ossigeno. Si appoggia al muro.

Aspetta.

Fermo, immobile.

Una tirata di naso. Le ultime lacrime vengono spazzate via dal polso. Rimane il sapore di sale tra i peli.

«Dopo aver pianto si vede sempre meglio», pensa. «È come dopo la tempesta. Quando torna il sole, l’aria è cristallina, come un giorno nuovo.»

Cammina verso la tomba di Alice e Lea. Posa due rose.
Una rossa e una rosa. Una grande e una piccola.
Si trattiene.
Non riesce.
La mano sulla fronte, chiude gli occhi, piega la nuca come a nascondersi dal dolore del mondo.
Ma il dolore è dentro, e dentro non c’è via di fuga; è un labirinto chiuso, un cerchio senza uscita.
«Hey.. ciao.» sussurra un pensiero che si fa voce. «Qui è un casino… immagino lo sappiate già, con tutta la gente che vi arriva dall’altra parte. È morto anche un amico. Chissà… non capisco perché qualcuno voglia togliersi la vita. Perché? SaiJanda sembrava così a suo agio qui. Sorrideva sempre. Sorrideva anche da morto. Forse è così che si fa: si sorride fino alla fine, e poi si resta felici per sempre.»

«Dai, ciao. Ci si vede eh.»

Aspetta il solito segno che non è mai arrivato. O forse, pensa, che non ha mai realmente cercato.
Silenzio.
Solo un pò di vento e nessuno.
Erik sorride a se stesso. All’ingenuità.
S’incammina di nuovo sulla ghiaia, ma quando afferra la maniglia di ferro del cancello un tuono lontano rompe l’aria.
Erik lo guarda; nei suoi occhi, un lampo di speranza.
Il telefono vibra. Un messaggio.

«Ciao [Nome], da 3 mesi non ti vediamo in EnerGym 💪
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Erik cerca di riprendersi dall’assurdità del momento.
Nella solitudine, fisso su quello schermo paradossale, osserva il messaggio della sua palestra milanese. Non ricordava nemmeno di essere abbonato.
Sorride.
Esce dal cimitero e ne approfitta per scrivere ad Aurora.

«Tutto ok? Sto tornando.»

Nessuna risposta. Erik stringe le chiavi della macchina, guarda l’ora, è ancora in tempo per portarla in stazione, pensa.
Poi, un pensiero si libera.
Un sentore nuovo,
Un dispiacere sottile per la partenza della ragazza.
Un desiderio di rimanere,
Di stare.


Il testo è in primissima stesura, potrebbe sparire, cambiare, diventare una poesia in versi o una ricetta di cucina 🙂

Ovviamente, se vi è piaciuto, sentitevi libere e liberi di condividerlo. Magari conoscete lettori impazienti di masticare un po di parole.

Senzatetto

Ancorato al passato
Proiettato nel futuro.
Ogni volta assillato
Da una noia assassina.
"Solitudine" è il male
E la vita è medicina.
"Abitudine" il virus
Che ti porta alla follia.
Pensi troppo, vivi poco
Senti solo le parole.
Quelle sì che sono tante,
Ma la vita
È una sola.

Sintropia

Il pensiero, affilato come lama
Taglia frontiere di cemento
Cuce distanze, come il vento
Piega i sensi e le montagne
Poi come il fumo, vola via
Lentamente, nella mente, assente,
Si dissolve in un ricordo,
In un eco, poi genetico.
Nell'erba, nella polvere, nelle stelle.

Piccolo

Delle ombre passano
Sopra la mia caverna,
Che non ha pareti come confini
Ma solo paure come burroni.
E si mescola la mia mente
Traccia linee casuali
Che disegnano solo
Ciò che l'io, solo, suppone.
Mentre tra i granelli di sabbia
Tra la schiuma e la spiaggia
C'è una vita arenata
Nelle onde del mare.

Splendente

Vivi d'immediati istinti presenti,
D'espedienti di niente,
D'ardori vivi e cuore di cristallo.
E quando l'anima quieta
Il buio infine abbraccia,
Degli abissi
Sii splendida lucciola.

Nunc

Come una scintilla
Negli abissi del mare
Siamo l'attimo vivo
Tra le erbacce del tempo.
L'urlo non udito
Il pugno mai sferrato,
Che infrange gli specchi
E sfonda porte aperte.
Mai come ora,
Brucia, il presente.

Phoenix

Io, Sole, brucio.
E come una Fenice
Rinasco dalle ceneri.
Fino a che sarò
Polvere di stelle.

SenzaNord

Nel caso tornassi
Semino pensieri luminosi
Tra le mura buie
Di questo labirinto di scelte.
E sento,
Sopra arcobaleni lastricati di cemento,
Che in questo cimitero di lucciole
Non tornerò.

Felice, ma insoddisfatto

Oggi, girovagando tra le pagine dei miei libri, ho letto questa frase: «Morirai senza aver raggiunto il tuo ultimo obiettivo.»

All'inizio ho pensato «Ma anche no!» Ma poi, soffermandomi un istante, mi sono reso conto che è così, perché so che continuerò a inseguire quell’orizzonte lontano e, a ogni traguardo raggiunto, ne nascerà un altro, più distante, più importante che mi attirerà, di nuovo, come una calamita.

Sono fatto così.

Questo pensiero ha fatto riemergere in me la consapevolezza antica che spesso mi concentro troppo sull’obiettivo, sulla vetta da raggiungere, invece che sul presente. E spesso sacrifico la mia felicità, dedicandomi esclusivamente sul raggiungimento di quello scopo, invece che godere del sorriso di mia figlia, del profumo di soffritto, del calore del sole in faccia.

Crescendo, ho imparato che, più che la destinazione, conta il viaggio.

E più del viaggio, la compagnia.

È una rotta di consapevolezza la cui traiettoria punta... al presente. Perché cos’è il viaggio se non un momento di transizione tra passato e futuro? E cos’è «la compagnia» se non la somma degli istanti presenti di questo viaggio?

La felicità è uno stato dell’essere, come la solitudine. Non c'entra con la soddisfazione. Difatti, possiamo sentirci soli in mezzo alla folla e infelici in un presente in cui abbiamo tutto.

Come fare, allora, a non confondere felicità e soddisfazione?
Con la semplice consapevolezza che la felicità non risiede nel successo, ma nel presente.

Possiamo essere felici e insoddisfatti. Mi spingerei a dire che dobbiamo esserlo.

Questo creato nel quale viviamo non è un’equazione risolvibile, ma un mistero con il quale convivere, una variabile costante nel suo essere imperscrutabile. Dobbiamo prendere atto della sua irrisolvibilità, e questo ci aiuta a spostare il peso dell'esistenza sul presente

Uno dei personaggi de Il Labirinto della Speranza, il protagonista, Erik, si trova a confrontarsi con «SaiJanda», un guru indiano, proprio davanti a questa questione.
E non è la prima volta che mi succede come autore.
Kato, ne La Divina Avventura, è anche lui «affetto» da questo esistenzialismo, da questa ricerca di senso.

In realtà, chi mi conosce sa bene che amo nuotare nell’oceano aperto, alimentando il ragionamento, la discussione, il pensiero creativo. Tenere accesa la scintilla girando come una trottola.
Perché la bellezza è proprio lì, nella ricerca.

«Morì felice, ma insoddisfatto».

Si, non sarebbe poi tanto male come epitaffio.

Vedere l'invisibile

La prima volta che andai al Lucca Comics fu per il film di Genovese «Supereroi».
Non la conoscevo.

Dovevo girare una scena nel Lucca Comics, una gigantesca fiera del fumetto, del manga e ora anche dei videogiochi: I posti dove si vedono gli otaku, Naruto, Ero Sennin, Dragon Ball.

Insomma, era lì che giravo la scena.

Mentre dei veri fumettisti firmavano delle copie davanti a me, io ero dietro di loro, e ho avuto la fortuna di vedere cosa fanno mentre aspettano di firmare un’altra copia: disegnano. Hanno il loro bloc-notes, e disegnano.

La cosa incredibile è stata quando l’autore davanti a me ha aperto il suo taccuino e si è fermato su una pagina.
Era un’anatomia.
Non ricordo di che parte del corpo, ma non era in stile fumettistico. Ma classico.

Il mio occhio inesperto è rimasto a bocca aperta davanti al dettaglio del disegno. Una precisione pazzesca, con la matita. Potevo sentire la fine tessitura dei muscoli, le vene. Ma lui si è messo a disegnarci sopra.

La mia prima reazione è stata di pensare: «Ma no, cosa fai! Sei pazzo! Rischi di rovinare tutto. È l’errore classico: uno continua quando dovrebbe fermarsi!»

Ma poi... stavo girando il film. Quindi, di tanto in tanto, mi toccava vedere se in mezzo al caos totale del Lucca Comics qualcuno avesse bisogno di me.

Non ve l’ho detto, ma il set — che già di suo è un bel casino — se lo mettete in mezzo a una fiera nazionale piena di altri creativi, vengono fuori i fuochi d’artificio.

Insomma, mi guardo in giro, sono ancora libero, e torno dall’autore per vedere che disastro ha combinato.
Stava ancora disegnando sullo schizzo di prima.
Lo copriva con la spalla, non riuscivo a vedere bene.

Poi ha indietreggiato un attimo e, appoggiando la schiena sulla sedia, mi ha permesso di vedere bene il suo disegno.

Era meglio di prima. Ancora più dettaglio, ancora più verità.

E continuava.
Continuava.

L’arte, la tecnica, è una lente d’ingrandimento sulla realtà. Chi la usa, chi la pratica, vede peli nelle uova, spacca pietre col pensiero, ha un superpotere.

Quello di andare avanti.

Arriva un momento, credo per tutti, in cui scegliamo una strada. Diversa da quella che tutti hanno pensato per noi. Persino diversa da quella che noi abbiamo sempre pensato.

In quel momento, forse una bussola è la risposta a questa domanda: «Questa scelta mi permette di poter disegnare meglio la realtà?»

Proprio come quel fumettista che migliorava di tratto in tratto, avere la capacità di tornare una volta, dieci volte, mille volte su un tratto,
una parola,
un’espressione,
un tono,
una nota.

Fino a che l’intera nostra vita non è che
una nota,
un tono,
un’espressione,
una parola,
un tratto.
Un segno.

Scintilla di cristallo

Non fatevi intimidire.
Un’idea, quando nasce, ha bisogno di essere difesa.
Non si nasce sbagliati: al massimo lo si diventa.
È lo stesso per le idee: hanno bisogno di cure, di essere alimentate, come un essere vivente.

Le idee poi ci imitano.
Come ci comportiamo, così si comportano loro.
Le idee siamo noi.

La maggior parte delle volte, un’idea sarà considerata buona solo dopo aver dimostrato di funzionare nella realtà.

Ma un’idea non è la realtà, tanto quanto la mappa non è il territorio.
La sua realizzazione è quindi il naturale sviluppo dell’idea: il fare, il gestus.

E, dopo averla realizzata, bisogna pulirla e metterla al mondo.

Non possiamo sapere come andrà nella fase gestazionale; possiamo solo sentire.

Sentire che c’è qualcosa dentro di noi che freme, che brilla.

Una scintilla.

Su quella scintilla soffiate con la bellezza della conoscenza.
Fatene il riflesso della vostra anima, di voi.

Rubate ai più bravi, copiate, seguite il ritmo del momento.

Studiate ciò che vi circonda, scomponete gli atomi in parole, le parole in echi di emozioni che viaggiano dentro di voi.

L’emozione non è in un cassetto: è con voi, dentro di voi, lì.

Proprio lì.

E, come voi, la sentono milioni di altri.
Le emozioni ci uniscono sotto la stessa insegna, quella del mistero.

Tutti camminiamo verso una destinazione ignota.

Penso raramente al passato.
Ho la sensazione che non serva, che mi leghi a qualcosa che non c’è.
Eppure il fatto che io abbia sempre questa sensazione è forse la dimostrazione più evidente che c’è qualcosa che non riesco a lasciare andare.

Una parte di me si distanza sempre il giusto per evitare la sofferenza.

La paura di soffrire.

Ce l’avete anche voi?
Io non parlo del dolore di una puntura o di una caduta: parlo del sentire che, se fate un passo in più, il ritorno, se mai ci sarà, avverrà con il cuore rotto.

Nella mia vita non mi sono mai rotto niente, mai una frattura.
Ho le ossa di titanio.
Forse è per questo che ho il cuore di cristallo, perché la mia armatura è migliore di quella dei Cavalieri dello Zodiaco.

«Cuore di cristallo» è un’espressione che uso anche ne Il Labirinto della Speranza.
La cosa interessante è che non la uso per un solo personaggio, ma per diversi.

Chissà, forse per tutti.

Scrivo questo diario per scaldare i motori.
Ho finito la stesura del terzo volume.

Dopo alcuni commenti dei beta reader, ho cambiato il finale del secondo volume, ma è normale: la saga si sta scrivendo, e questo significa cambiare cose importanti: direzioni, finali, eventi.

Per fortuna, il faro che mi illumina in questo viaggio è luminoso come la luna.
O forse è proprio la luna.

La mia Jingle Bells

Ho appena letto la storia dell’uomo che ha scritto Jingle Bells: James Lord Pierpont, classe 1822.

Prima di tutto, ho scoperto che il brano non nasce come una canzone di Natale. Ma tutt’altro.

(E già lì, avrei dovuto capire che c’era qualcosa da scoprire, in quella storia.)

Quella che è una delle canzoni più famose di tutta la storia, e probabilmente la canzone di Natale più conosciuta di tutte, nasce come un brano che parla di corse di cavalli.

Ma non finisce qui: James ha avuto una vita tristissima.
Una vita all’insegna del fallimento e dell’insuccesso.

Da giovane partì per trovare l’oro verso il Klondike (la famosa corsa all’oro di Chaplin).
Poi però, al contrario di Charlot, tornò a mani vuote, senza aver trovato nulla, se non calli nelle mani e sogni infranti.

Perse presto la prima moglie, che lo lasciò solo a crescere i due figli.
Fu in quel momento che scrisse la canzone.
Quella canzone... così piena di campanellini e gioia, in realtà emerge dal lutto che l’uomo viveva al tempo.

Quanto è vero che l’arte lenisce il dolore.

Ma non è finita qui!

Lord Pierpont ebbe un rapporto terribile con il proprio fratello.
Durante la guerra, si ritrovarono su fronti opposti.
Che stupidaggine, la guerra.

E poi, ciliegina sulla torta: non ha mai guadagnato nulla da quella canzone.

Spesso, nel mondo della musica, si parla di Mariah Carey e della sua canzone di Natale, che le frutta probabilmente più di ogni altra canzone.

Pensate a Jingle Bells.
Pensate a quanto è importante quella canzone.
Come rappresenta il cuore della festa più amata da tutti, giovani e bambini.
Ma per James, niente.

Come Melville con Moby Dick, Kafka con i suoi testi, Lord Pierpont fa parte di quella infinita schiera di artisti che sono stati riconosciuti solo dopo la loro morte.

Perché questo aneddoto?

Perché mi chiedo se ne è valsa la pena.
Vale la pena fare una cosa che rimane nella cultura umana in cambio di una vita di frustrazione?

La fatica dell’impresa, la fatica dei sogni, del desiderio di lasciare un segno… fin dove ha senso?

Ora che ho scoperto questa storia, ci penserò.

Quando mi troverò davanti alla fatica dell’impresa, al momento in cui mi toccherà chiedermi:
«Ma ne vale davvero la pena?»
mi risponderò:
«Chi lo sa. Ma forse, tra vent’anni, avrai fatto la tua Jingle Bells.»

Siamo esseri multidimensionali

Il mondo, la realtà, sono dei misteri che mai si sveleranno. Come il velo di Maya: dietro al velo non vi è la verità, bensì un altro velo da svelare.
La realtà, questa realtà, è determinata dai nostri sensi.

Ma i sensi, ci limitano.

Per fortuna c’è l’immaginazione.
La creatività è la nostra chiave di trascendenza. Con lei che ci guida, possiamo volare lì dove i sensi non ci portano: nel mondo dell’intuizione, degli archetipi, dei sentimenti, delle emozioni.

Luoghi che non hanno colori, né temperature, non hanno spazio e nemmeno tempo.
Luoghi non-luoghi, in cui la parola che determina i confini è: libertà.

Questo spesso ci spinge a immaginare che la realtà attorno a noi sia solo uno strato di un grande mosaico cangiante.
Nell’Anello di Saturno, Luca parte alla ricerca di un anello magico, e questo lo porterà a scoprire la multidimensionalità della realtà, la riscrittura del destino.

Anche ne Il Labirinto della Speranza affronto questo tema, in maniera — vedrete — molto più ambigua.
Rimango sul confine liminale tra percezione e realtà.
Tra proiezione ed empirico.
Lì dove «Ciò in cui credo definisce ciò che è».

Quindi lavoro sulla multidimensionalità del reale. A volte fantastico, a volte immaginato.
Ma poi, a pensarci bene, che differenza c’è?
Una fantasia è forse meno reale di una paura? Un sogno meno reale della realtà?
E come mi piace dire: un fantasma è forse meno reale di un senso di colpa?

Siamo esseri multidimensionali perché, vivendo nel regno della percezione, creiamo — ognuno di noi — la nostra dimensione, in cui le regole condivise sono tante, ma ci sono anche regole subliminali, nascoste, non dette, che ci guidano.

Quanti non camminano sotto una scala?
Quanti salutano le pecore sul lato della strada?
Quanti ascoltano il proprio oroscopo o chiedono consiglio a veggenti?

Siamo esseri multidimensionali e non sappiamo di esserlo.

Pensate alla dimensione — ora tanto di moda — del digitale.
Abbiamo un’identità che appartiene esclusivamente a quella dimensione. Amici che frequentiamo solo in quella dimensione.
Informazioni, arte, curiosità.

Il digitale è una dimensione del reale. Isolante nei confronti della realtà «vera», ma poi, in quella realtà, tessiamo legami, ci emozioniamo, cresciamo.
Quindi, come si fa a dire che è meno vera della realtà?

È diversa.
Siamo esseri multidimensionali anche in questo.

Non sono il primo a dirlo, e non sarò l’ultimo.
E chissà che un giorno la scienza non lo dimostri in maniera empirica: che questa realtà è condivisa con altre infinite realtà, in cui ogni cosa è diversa.

A quel punto, in quell’oceano di possibilità, la mia domanda principale rimane.
La stessa domanda che mi pongo ne La Divina Avventura, ne L’Anello di Saturno, e anche ne Il Labirinto della Speranza.

In questo mosaico infinito, ricorsivo, frattale…
L’anima è forse la costante?

Continuerò a cercare una risposta.

Nel frattempo,

Quando muore l'arte

Sapete cosa dicevano gli amanuensi e i copisti quando l’invenzione di Gutenberg (la stampa) arrivò a sconquassare l’industria dei libri scritti a mano?

«Scriptores pereunt, ars moritur.»

I copisti scompaiono, l’arte muore.

Molti ritenevano che i libri stampati fossero oggetti meccanici, privi di anima o di bellezza. Filippo di Strata, ad esempio, scriveva nel XV secolo: «Libri impressi sunt meretrices; scripti sunt virgines.»

I libri stampati sono meretrici, quelli scritti a mano, vergini.

Vi ricorda qualcosa? Le parole che vengono spese nei confronti dell’IA generativa sono spesso molto simili. Il disprezzo che generano (piccolo gioco di parole) può essere ridotto a questo: è un prodotto senz’anima, che sostituirà gli artisti.

Ma in realtà la stampa ha fatto esplodere la scrittura. Mai così tanti libri furono scritti, stampati e soprattutto letti dopo l’avvento di Gutenberg. A lui dobbiamo la letteratura moderna. A lui lo sviluppo esponenziale della conoscenza, che ha portato, nei secoli successivi, alla trasformazione radicale della società, del benessere, dell’uomo.

Il dibattito sull’arte e sull’intelligenza artificiale è spesso affrontato in maniera pregiudizievole, perché mette in discussione uno dei tasselli fondamentali dell’artista (proprio come la stampa): l’esecuzione.

Si dice che l’arte sia nel gesto, e che se il gesto viene sostituito dalla macchina, allora di arte non ve n’è più traccia.

Io oso pensare qualcosa di diverso. Qualcosa che cerca di andare oltre la coltre di nebbia davanti alla quale ci troviamo tutti.

L’arte non è nell’esecuzione di uno dei blocchi fondamentali, ma nell’intento, nell'idea, nell’esecuzione, nella distribuzione e nella consegna.

Mi spiego. Se una macchina può fare in pochi secondi ciò che un uomo può fare in mesi, allora il valore di quella cosa decade immediatamente. Ed è lì che nasce la paura dei concept artist, degli scrittori, e persino degli attori. Ormai ci siamo: la tecnologia è così avanzata che si potranno sostituire anche loro (nei prodotti digitali, il teatro, per ora, è intoccato).

Quindi siamo sostituibili? No. Perché è il processo nella sua interezza a produrre vero valore, non il singolo elemento all'interno del processo di creazione.

Questo pensiero è radicale, e richiede un cambio netto di prospettiva: È quello che viene chiamato un cambio di paradigma.

L’IA è qui. È come l’elettricità, il computer, la ruota. Ormai c’è.

Il mio scopo è capire come sopravvivere e, non solo, come prosperare, ora che il terreno è cambiato così grandemente.

Da artista, sono costretto a rivalutare cosa significa essere un artista.

Fare arte non si limita più alla produzione del singolo elemento dell'esecuzione (il testo, la canzone, il disegno, ecc., qualsiasi cosa che potrebbe essere riprodotto dalla IA).
C'è molto di più.
Quell’elemento deve essere parte di un intento più grande, che parta dall’anima dell’artista (l’intento), si propaghi nella risposta umana al mondo dell'artista (l'idea), passi attraverso la realizzazione di quella risposta (l'esecuzione) ma non finisce qui. Serve che l'artista incarni l’impatto che vuole avere sul mondo (la consegna).

In sostanza, si tratta di avere un’idea, di realizzarla e poi di far sapere che esiste. E poi ripetere questo processo, migliorando ogni passo, ogni volta.

L’artista diventa quindi il fautore del proprio successo, colui che viene chiamato non solo per la produzione artigianale degli elementi, ma per l’intera filiera artistica: dall’intento, all’idea, alla realizzazione, alla distribuzione e alla consegna.

L'artista è la manifestazione umana del processo di tutta la filiera.

E lì, l’intelligenza artificiale diventa un compagno di viaggio che permette - per la prima volta da sempre, proprio come la stampa - di aprire le porte, di dare all’artista che lo desidera, le ali per volare da solo.

Non sarà facile.

Ma se prima volare da soli, per gli artisti, era un sogno irrealizzabile, questa rivoluzione restituisce a coloro che hanno intento, idee, spirito critico e anima artistica la possibilità di farcela da soli.

Lo ripeto:
1. Intento (che si alimenta con cultura, lettura, incontri, cibo dell'anima)
2. Idea (hce nasce dall’ascolto di ciò che ci circonda e di ciò che abbiamo dentro)
3. Esecuzione (la nostra risposta, come artisti. Il nostro segno: scrittura, canto, recitazione, quello che vi piace di più.)
4. Distribuzione (marketing, piattaforme digitali, strategia per far conoscere la nostra risposta, per dare impatto.)
5. Discussione con il pubblico (interazioni, social network, un sito, un diario d’artista dove scambiarsi opinioni)

L'arte non è morta. Al contrario.

Stiamo per vivere un’esplosione di artisti indipendenti che riusciranno ad essere grandi quanto (o più) delle major, poiché detentori di ciò che conta e vale davvero all'interno della filiera: l’intento. Il fuoco primigeneo, la luce.

Il Cocktail perfetto

Ieri ho parlato con una scrittrice specializzata nella narrativa erotica (grazie Raffaella!). Le ho gentilmente chiesto di darmi un ritorno riguardo a una scena «spicy» del secondo volume de Il Labirinto della Speranza.

Non essendo io un lettore della narrativa erotica moderna, non sapevo dove mi collocassi, su una scala da 1 a 10.

Sono cresciuto con Manara, e chi mi conosce sa che l’eleganza verbale è un segno distintivo della mia poetica.

Senza troppo stupore, mi sono reso conto che il calore della scena si collocava intorno a un 5-6.

Con il generoso consiglio di «osare di più».

Ma in realtà — e qui scatta la tipicità del mio profilo di scrittore — a me 5-6 va benissimo!

Lo sapete: "il labirinto della speranza" è un thriller psicologico, un dark romance, ha un sapore paranormale, ma è narrativa moderna, con filosofia, citazioni colte e personaggi che mutano e si trasformano profondamente.

E ci sono scene spinte ("poco esplicite", e mi va alla grande 🙌).

Insomma, le mie saghe, proprio come L’Anello di Saturno, sono dei cocktail di generi.

Sono dei mojito, dei daiquiri alla fragola, delle pina colada, dei gin tonic.

Non sono un purista, non verso il whisky senza ghiaccio o il rum barricato 36 mesi in un bicchiere di cristallo direttamente da una botte di Cuba.

No.

Io faccio libri per tutti, che possano piacere a una varietà di persone, ognuna con la propria chiave di lettura.

È la mia forza, e anche la mia debolezza.

Questa mia scelta — derivata sia dal mio profilo personale artistico-psicologico, sia dal mio voler fare impresa — non è senza rischi.

Il primo rischio, quello preponderante che mi aspetta al varco, è di non piacere a nessuno.

Mi spiego.

Il lettore che cerca il thriller vuole subito la scena del cadavere che viene tirato via di notte nella foresta da un uomo affannato.
Chi vuole l’erotico, pretende descrizioni più spinte.
Chi cerca la psicologia approfondita magari disdegna la storia d’amore, et cetera…

Un cocktail rischia di scontentare tutti.

Ma chi mi sceglie, lo fa perché cerca qualcosa che non trova altrove: un cocktail fatto ad arte, con sapienza, equilibrio e sensibilità, può essere qualcosa di veramente esplosivo.

E ambizioso.

Poiché è proprio fondendo i generi tra loro, unendoli in un unico grande e nuovo sapore, che si può produrre un nuovo sapore: indistinto, morbido, unico, intenso e variegato, che lascia il desiderio di volerne ancora.

"L’Anello di Saturno" ne è un primo esempio embrionale, di questa mia ricerca.

Ho fuso il romance e il fantasy, con un tocco di filosofia, archeologia, avventura e thriller.

Io penso che il futuro della narrativa sia proprio lì, in questa strada di commistioni.

Non a caso esistono già parole che fanno la crasi dei generi (il romantasy).

E perché non crearne di nuove, e andare alla ricerca di nuovi sapori?

Eccomi, sono pronto.

Mettetevi al bancone, che vi servo un nuovo cocktail.

Se non mi avete già provato, ci sono sia La Divina Avventura (fantasy, fantascienza, spirituale, avventura) sia L’Anello di Saturno (romance, fantasy, avventura, archeologia) ad aspettarvi, nell’attesa di finire nel mio labirinto.

Effimeri come farfalle

Ho visto un video di Nadal, a cui viene dato l’onore, dopo aver vinto ben 14 Roland Garros, di avere una lastra incisa su uno dei campi ufficiali del torneo.

Questo mi ha fatto capire una cosa allo stesso tempo terribile e leggera, tragica ed effimera.

Nadal, tennista senza precedenti, me lo ricordo con i capelli lunghi e il braccio teso. La gamba lunga, il polsino giallo. Un gladiatore del campo, contro Federer, Djokovic, contro tutti.

Ora, davanti alla vista della sua impronta incisa nel marmo, sporca di terra battuta, rossa come il deserto al tramonto, davanti a una platea commossa quanto lui, scoppia a piangere. Accanto a lui, abbracci. Un momento che ha commosso anche me, ma che poi ha fatto emergere nel mio cuore una sensazione ambigua.

Siamo un battito d’ali,
e diventiamo una lastra
nel migliore dei casi.

Spesso l’artista si ritrova ad affrontare la sua mortalità. In realtà, l’arte è un piccolo sogno di immortalità, un desiderio di superare la soglia del tempo con un lascito, che anch’esso, prima o poi, diventerà, come dice tanto bene Rutger Hauer in Blade Runner: «lacrime nella pioggia».

Se non è ora, è tra cento anni. Se non sono cento saranno mille, o miliardi. Che importa il tempo, se confrontato con la nostra finitudine e l’immensità del creato?

Forse un giorno affronterò una «saga» che sia anche questo. Un procedere nel tempo, lasciando che i protagonisti di una pagina diventino un ricordo lontano pochi capitoli dopo, e infine, una statua, un’effigie, una frase, un pensiero a cui nessuno è più capace di collegare l’autore, ma che è ancora presente, che permea la coscienza.

La bellezza della vita è nel presente, nella scoperta dell’ignoto che ci circonderà sempre, sia nel tempo che nello spazio. L’arte è il simbolo della nostra finitudine: come farfalle estemporanee, voliamo d’idea in idea, verso una roccia stabile, che lanciamo tra le onde del tempo, sperando che qualcuno, dall’altra parte della soglia, continui il testimone.

Sì, un giorno affronterò questo tema con coraggio. Con una saga che avrà gli esseri umani come formiche, protagonisti di pagine nell’oceano del tempo. Non ne ho ancora i mezzi; è probabilmente qualcosa che mi richiederà tutta l’energia che ho, tutta la saggezza e la forza.

Perché, siamo onesti, affrontare «la leggerezza esistenziale» richiede un coraggio da leoni, la saggezza di Platone e una tecnica eccelsa.

Per ora, mi diletto nello strutturare il terzo volume de Il labirinto della speranza e mettere a posto il secondo volume. Che casino! Un castello intricato, pieno di trappole e illusioni, un labirinto di specchi dove vedo frammenti di me, di coloro che incontro.

Tra l’altro, mi rendo conto sempre di più che adoro ascoltare gli altri. Perché sono una continua fonte di ispirazione per i miei personaggi, le mie storie. Appena sento qualcosa di interessante, lo assorbo e lo inietto nel mio percorso.

E mi rendo conto che più tendo le orecchie e apro gli occhi, più il mondo mi regala perle da mettere alle mie collane.

La crisi interiore

La crisi arriva per tutti.
Come un appuntamento con noi stessi, arriva la ferita che non si rimargina, che ad ogni ciclo ci ricorda che abbiamo un conto in sospeso con noi stessi.

Ormai la sento, la riconosco, la vedo arrivare da lontano, eppure ancora mi coglie.
Mi coglie nelle parti più basse, più fragili del mio io. Quelle che sono aperte alla critica, che hanno un seme del dubbio che cresce insieme a loro. I miei lati fragili, se vogliamo.

Ma facendomi io sempre più acuto con l’età, sempre più consapevole di me stesso, la crisi si fa sfocata, quasi eterea.
C’è ma non si vede.
C’è ma non riesco a definirla.
E questo me la rende ancora più difficile da gestire.

Si dice che se a un problema c’è una soluzione, allora è inutile preoccuparsi.
E se a un problema la soluzione non c’è, è inutile anche in questo caso.
Insomma, è inutile preoccuparsi.

Ma se lo stato d’animo che sentiamo è nebbioso?
Se l’unica cosa che comprendiamo della nostra energia è la dimensione grigia, dominante come un cielo d’inverno?
Cosa fare? Aspettare il sole? Accettarla e basta? Oppure soffiare con tutte le forze che abbiamo per spazzarla via?

Non lo so.
Scrivo questa pagina un po’ per inerzia, un po’ perché so che scrivere i demoni li fa emergere e, in un certo senso, li scioglie sotto la luce del sole.
Oggi di sole ce n’è poco, ma chissà, magari funziona.

Ho due gatti.
Loro, devo dire, sono pazzeschi.
Sembra che tutti i giorni sia un giorno giusto per farmi le coccole, per starmi vicino.

Uno dei due, Bijou, ha un rapporto simbiotico con me.
Gli piace starmi sulla pancia.
E a me piace pensare che sia per curarmi, per assorbire energie, per essere gentile.

A volte temo che il silenzio sia una gabbia dorata.
Un luogo di ritrovo con me stesso che diventa torre d’avorio, dove mi isolo e perdo la nozione dello stare bene.
Mi crogiolo in uno stato d’animo, mi ci cullo, mi ci perdo.

Chi scrive lo sa: il rapporto con le parole è qualcosa che va oltre l’ortografia e la grammatica.
È una sfida con se stessi.
Giro, giro, ma non riesco ad acchiappare quel fantasma che s’insidia al risveglio.
Quel pensiero che «qualcosa» (cosa, chissà?) non sia esattamente al suo posto.

La vaghezza come crisi interiore, chi l’avrebbe mai detto.

A questo punto mi sorge il dubbio che, più che crisi, questa sia una manifestazione d’intento di crisi irrisolta.
Un folle desiderio che ho di stare così e, visto che non ho giustificazioni appropriate, la accetto per quello che è: indefinita.

Ed ecco che ritorno al mio eterno ritorno, fonte continua della mia poetica: la volontà.
La volontà di stare bene.
E quella di stare male.

Che sia davvero così?
Ora mi faccio una bella camminata e sono certo che, al ritorno, qualcosa sarà diverso.
Chissà, magari continuo la pagina dopo il ritorno.

La vita ha bussato proprio quando stavo per uscire di casa.
Elettra ha mal di pancia, devo andarla a prendere a scuola.
Sta bene ma deve riposare, quindi a letto.

Come sempre, lo stupore è dietro l’angolo.
A quanto pare basta aspettare per riprendere a correre…

Oggi non ho scritto

Oggi mi sono svegliato sul divano.
Ero così stanco, ieri, che non ho retto al film sul grande televisore del salone.
Ho sentito soltanto, verso notte inoltrata, una dolce coperta avvolgermi e una voce sussurrarmi la buonanotte con un bacio.

Mi sono svegliato verso le sette del mattino, la giornata era bella, già soleggiata di primo mattino.
In questi giorni mi sento più stanco del solito. Sarà per la cataratta.
Pensa te: ho 45 anni e ho la cataratta.
Non è rarissimo, ma normalmente arriva dopo i 60.
Che dire, mi piace essere in anticipo.
I miei occhi sono un macello, ci vedo molto poco.
Forse è per questo che ho così tanta immaginazione: il mondo, senza lenti, per me è tutto da immaginare (mi manca -5,25 e ora -7).

Insomma, dopo il risveglio e un caffè, ho passato una giornata splendida con amici e compagna, al lago di Bracciano.
Bello, vivo, con quel leggero ponentino che calma l’anima e la accende al contempo.
Abbiamo mangiato in riva al lago, tra risate, secondi di pesce (per me no, a me il pesce non piace) e contorni, crostata fatta in casa e un caffè.

Ho guidato anche al ritorno. Mi ha affaticato parecchio.
Con le mani sul volante pensavo al fatto che «oggi è uno di quei rari giorni in cui non ho acceso il computer».
Avevo bisogno di riposo.
Di tranquillità.
E quindi mi ero detto: «Oggi, non scrivo».

A fine pomeriggio siamo tornati verso Roma, con i finestrini aperti, tra le stradine statali, alberi, colline verdi e un miliardo di persone che avevano avuto la nostra stessa idea.

Arrivati tra le mura del focolaio domestico, la nonna ci ha riportato la bimba, e la famiglia si è riunita in un abbraccio, una serata, un dessert.
Che fortuna che ho, penso.
Che fortuna.

Ora sono le dieci di sera e già dormono tutti.
C’è silenzio in salotto.
Questa pagina la sto scrivendo seduto su una poltroncina, dal telefonino.
La aggiusterò domani sul computer.

Un flusso sincero, un getto di ricordi che voglio imprimere in parole.
Uno specchio che mi ricorda che, in fondo, sono un gran bugiardo.
Oggi, in realtà, ho scritto questo diario.

La scrittura erotica

Nella prossima saga, affronterò molti lati oscuri della nostra realtà.
Come mi piace pensare, se L’Anello di Saturno è il sole, Il Labirinto della Speranza sarà la luna.
Esoterismo, thriller psicologico, manipolazione, sette e anche erotismo.
Una faccenda a dir poco delicata!

Non ho paura di affrontare questo lato della scrittura e della narrazione, anzi.
Mi piace, mi diverte e, soprattutto, mi libera.

Voglio che questa prossima saga sia un’effige della libertà di espressione al servizio della storia.
Ieri guardavo una bella intervista a Tarantino, in cui spiegava che il problema delle storie moderne del cinema di Hollywood è che sono prevedibili.

In realtà, gli devo proprio dare ragione: una buona storia si svela man mano che vai avanti, imprevedibile, come un labirinto.

Questa saga, nella quale ormai sono dentro con piedi e gambe, è prima di tutto un grande viaggio, proprio come L’Anello di Saturno.

Un viaggio dentro la psiche di Erik, il protagonista, ma anche nella mia.

Mi rendo conto che la scrittura, al servizio della storia, a volte rispecchia stati d’animo che sto vivendo inconsciamente: il desiderio di controllo, di decidere la cadenza dell’esistenza.

Problemi che, guarda caso, affronta anche Erik.
Insomma, questa avventura si sta rivelando molto più profonda del previsto.

E pian piano, scendendo nei meandri del mio inconscio, affronto i luoghi tetri, oscuri e affascinanti che circondano la notte.

L’erotismo, appunto, è uno di essi.

Non voglio censurarmi, né essere volgare. Chi mi conosce lo sa: non scrivo a caso e di certo non sono volgare. Anzi, trovo che l’erotismo sia l’apice dell’eleganza.

È un contraltare alla pornografia, in cui tutto viene esposto.

L’erotismo, al contrario, è un’allusione, un lago di ambiguità nel quale far sognare il lettore.

Un’altra cosa molto importante: non deve essere gratuito. L’erotismo gratuito è volgare, povero. L’erotismo usato come una lama sottile, che delinea i confini dei rapporti tra i sessi, delle manipolazioni e dei non detti, è colmo di fascino e psicologia.

L’ambiguità. Torna sempre questa parola, e tornerà ancora per molto, in questo mio viaggio.

Un giorno mi hanno chiesto cosa mi sono portato dietro da Tancredi. Credo che l’ambiguità narrativa sia una di queste. Ho sempre lottato per darle un lato umano forte, un’empatia che la rendesse diversa dal solito cattivo. Un uomo con delle ferite, un cuore, ma capace di cose terribili. Questo lo ha reso ambiguo.

Sono rimasto affascinato dal contrasto che porta con sé. Così tanto da aver deciso di scrivere una storia che, come vorrebbe Tarantino, si svelerà nella sua ambiguità, tra corpi, seduzioni, illusioni e paure profonde.

A voi fa paura l’erotismo?

E l’esoterismo?

Spero di non “shockare” troppo coloro che mi leggeranno. Anzi, no. Spero proprio di farlo.

La parte più difficile

Qual è la parte più difficile di fare l’artista? Di fare il regista, l’attore, lo scrittore?

Io penso che potrei aprire una sezione del Diario d’artista dedicata solo a questa frase: «La parte più difficile.»

È difficile dare una risposta, perché affrontare questa domanda significa affrontare le nostre debolezze, i nostri pregiudizi.

A volte nascondiamo la parte più difficile a noi stessi. Siamo i primi a illuderci. Spesso, ci si ritrova davanti alla difficoltà e, invece di sormontarla, cambiamo rotta.

Quante volte abbiamo fatto scelte dettate dalla paura? E quante volte dettate dal desiderio?

Forse è lì che sta la parte più difficile per me: quando viene meno il desiderio. Sono vittima della fascinazione che desidero imprimere con l’arte. Voglio vivere affascinato, sono nel mio personalissimo labirinto della speranza.

Molti anni fa, un regista mio maestro mi insegnò che:

«Quando pensi ‘è troppo’, è proprio in quel momento che il lavoro inizia.»

Di questa filosofia ho fatto un mantra, spingendo la mia forza di volontà ben al di là di dove stava quando avevo vent’anni.

Appena uscito dalla scuola di recitazione, avevo recuperato qualcosa di me. Si era accesa una passione che mi ha messo in moto.

Eppure percepisco ancora la tendenza a mollare. Ma badate, non è vista come una resa, anzi. Più come un:

«È tempo di trovare altre erbe più verdi.»

Una sfida non raccolta mascherata da noia. Una fuga superba.

Sì, è proprio questo il mio punto debole: sono una farfalla, un’ape che vola di fiore in fiore.

Molti non lo sanno, ma nel corso della mia carriera d’attore ho fatto mille lavori: assistente alla regia, regista, tecnico attrezzista, produttore, montatore.

Tutto per poter continuare il mio sogno.

Ho cominciato per caso, se vogliamo, questa carriera. Uno spettacolo in TV mi ha attirato l’occhio. Gente che improvvisava. E da lì, scuola di recitazione, teatro, cinema, tv. Tutto liscio.

Ma forse proprio per questo ho continuato a coltivare il desiderio di altro. I miei “veri” sogni.

Dopo aver risparmiato con Distretto di Polizia e Un medico in famiglia, non ho comprato una macchina, né una casa. Ho investito in un sogno: quello di realizzare un videogioco per poter andare lì dove sognavo di andare da bambino. A Los Angeles, all’E3.

E lì ho avuto la gran fortuna di riuscirci e di aver trovato le persone giuste per quel viaggio.

La parte difficile è la fortuna, forse.

E ora sono nell’impresa delle imprese: produrre mondi, storie, sogni, pensieri, ragionamento attraverso delle saghe, dei romanzi lunghi. Dialogare con le anime degli altri, al di là del tempo presente.

Insomma,

Ho fatto tante cose, ma in realtà mi sento come se non avessi ancora fatto nulla.

È una strana sensazione, questa, no? Non vi capita mai?

Forse la parte più difficile è essere felici di quello che abbiamo.

Kato, nel finale de La Divina Avventura, si chiede cosa vorrebbe provare prima di morire, sapendo che quella sensazione lo accompagnerà per l’eternità.

Pensa alla gratitudine. Ma poi, quando si trova davanti alla morte, in quel momento decisivo, il suo pensiero tace, ed emerge la natura. Implacabile: il desiderio di vivere ancora un po'.

Andare avanti.

La parte più difficile è andare avanti.

Ma è anche quella più divertente.

La fatica dell'impresa

Oggi attraverso un momento di oscurità, sono stremato dalle mie avventure.

L’idea di scrivere un’altra saga mi pesa più degli altri giorni.

Capita, lo so, fa parte del gioco.

Gli americani lo chiamano “il grind”, quella cosa per cui ogni giorno, un sassolino dopo l’altro, si costruisce il grattacielo.

Con sudore, fatica e forza di volontà.

Lo diceva anche Paperon de’ Paperoni:

“Si diventa ricchi un centesimo alla volta.”

Ma che fatica.

Scrivere L’Anello è stata un’impresa mica da ridere.

In tutto, se dovessimo vedere la storia come un unico libro, parliamo di circa 280.000 parole, indicativamente 1.100-1.200 pagine.

E dalla scrittura alla pubblicazione sono passati circa 12 mesi.

Insomma, ho fatto uno sprint davvero intenso, e ora mi ritrovo un po’ sommerso da fatica, stupore e smarrimento.

Nonostante l’incredibile successo della saga, che si avvicina al traguardo ragguardevole di 10.000 copie vendute, non sono soddisfatto.

Chi mi conosce non penso si stupisca, ma in questo caso è una sensazione difficile da mandare giù.

Vorrei esserlo, davvero.

Ma l’impresa editoriale che sto costruendo, e che piano piano sta dando frutti, ancora non genera un raccolto sostenibile.

Vuoi perché ho appena iniziato, o perché ho scritto “solo” una saga, ma il cammino verso la famosa redditività è ancora lungo.

Potrei mollare tutto e accontentarmi.

Scrivere senza pretese, senza fretta, e lasciare che i miei testi vaghino liberamente, nelle mani di un editore terzo che ne possiede i diritti.

Ma non fa per me.

Ho raggiunto un’età in cui ho bisogno di sentire che lo sforzo che sto facendo elevi il mio operato.

Ho bisogno di sentire l’impresa scorrere nelle vene.

Chissà perché. Forse perché mio papà è un imprenditore.

E per osmosi, nonostante il mio percorso artistico, questo agente interno continua a desiderare maturità e successo.

L’imprenditore che c’è in me si è adoperato, negli anni, a saltare come una farfalla sui sogni dell’artista.

Con il desiderio di renderli grandi, unici, personali.

E ora, con davanti 4 volumi da scrivere della prossima saga, qualcosa in me è stanco.

C’è un Flavio, quello insoddisfatto, con le bretelle da magnate e il sigaro in bocca, che dice:

“No no. Ora tu ti fermi e vediamo come va questa cosa. Vediamo se questa saga dell’Anello è redditizia. Sennò, chiudiamo bottega.”

E poi c’è il Flavio con la barba lunga e le mani piene di inchiostro digitale, con idee a non finire, che si gratta il capo e dice:

“Ma no, vedrai, la prossima storia è quella giusta. Dammi retta, ce la faremo!”

Ecco, sono in mezzo a una trattativa tra le mie due anime.

Strappato tra sogno e concretezza, in bilico tra soldi e sogni.

I libri sono strani.

E penso che, come imprenditore, abbia ancora molto da imparare.

Per esempio, non so quanto resista l’interesse di un libro dopo la sua uscita.

Nel cinema e in molte altre industrie, il grosso delle vendite si fa nei primi giorni, poi arriva il crollo verticale, a causa della sovrapproduzione quotidiana.

Io sogno una crescita lenta e stabile.

Un modello di business sostenibile, in cui ogni saga raggiunga il proprio punto di redditività e non lo molli più.

Una proprietà intellettuale come un valore immobile.

Un “prodotto” che si autoalimenta, che resiste al tempo sia nei contenuti che nel modello imprenditoriale.

Questa è la più grande sfida che potessi accettare con me stesso.

Ancora non l’ho raggiunta, ma sono più vicino di quando ho cominciato.

E come diceva un tale:

“Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,

ripresi via per la piaggia diserta,

sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.”

La forza della vulnerabilità

Spesso la sensibilità, intesa come rimanere aperti — con il cuore di carne viva in mano — al mondo, viene fraintesa come debolezza.

Come se l’atto di darsi all’altro, di mostrarsi per ciò che si è, fosse un segno di instabilità emotiva.

Ovviamente non è così.

Ci vuole molto più coraggio ad ammettere le proprie fragilità, i propri difetti, che a nascondersi dietro una maschera, puntando il dito contro chi invece ha il coraggio di esporsi.

Nell’arte della recitazione, per esempio, ho imparato che ciò che dona al personaggio una dimensione empatica sono proprio le sue fragilità. Le sue crepe.

Nulla è più noioso di un personaggio onnipotente, onnisciente, privo di dubbi.

Sono proprio i dubbi a portarci verso il miglioramento. A elevarci.

In molti testi spirituali si ritrova l’idea che la forza stia nel donarsi, nel “porgere l’altra guancia”. Non tanto per spirito di sacrificio, quanto per una reale forza interiore.

Solo così ci mettiamo davvero davanti a noi stessi, e ci conosciamo.

La vera forza arriva dalla conoscenza e dall’accettazione di sé. Ma non solo.

Anche dalla consapevolezza che questo non è un percorso che finisce con un premio, perché “ce l’hai fatta”.

È un cammino. Uno di quelli che ci accompagna fino alla fine di questa vita.

E forse anche dopo. Chissà.

Qualche tempo fa, in un articolo, ho ricevuto un commento al vetriolo, mascherato da “onestà”, ma intriso di giudizi gratuiti, proiezioni e una certa superiorità morale.

Quella persona si arrogava il diritto di valutare il mio aspetto fisico e la mia carriera — senza alcun reale contesto — come se stesse elargendo una lezione di vita.

In realtà, la sua “franchezza” era solo una scusa per colpire.

Sono un attore.

E se c’è una cosa che gli attori imparano presto, è a incassare critiche che sembrano rivolte non al lavoro, ma alla persona.

Perché il nostro lavoro è la nostra persona.

L’attore incarna letteralmente l’arte che fa.

Ogni parola, ogni gesto, ogni espressione parte da dentro. E quindi ogni critica è difficilmente separabile dall’identità.

Per anni ho preso le critiche sul personale.

Magari rovinandomi un momento di pace solo perché Tizio o Caio aveva detto qualcosa di brutto su di me.

Poi, con gli anni, ho capito una cosa meravigliosa.

Siamo piccoli esseri umani, su un granello di sabbia, tra miliardi di galassie, anch’esse granelli di sabbia nello spazio infinito.

Non importa.

Non importa cosa dicono — nel bene o nel male.

Importa cosa sento.

Importa quanto mi adopero per elevarmi, migliorarmi, superarmi, conoscermi.

Questa vita che abbiamo è un percorso di conoscenza.

E non dovremmo mai permettere che la cattiveria altrui interferisca con questo cammino.

Come diceva la scritta sopra il tempio di Delfi:

“Conosci te stesso.”

La gabbia del genere

Il genere, questo mostro a sette teste.

Ogni autore deve affrontarlo. Bisogna nascere già categorizzati. Bisogna produrre con in mente un genere.

Roba tosta.

Soprattutto per chi ama viaggiare con la fantasia, per chi ama l’ignoto. Per chi non sa, all’inizio del cammino, come sarà il luogo di destinazione.

Si dice che il genere riguardi gli editori, il marketing.

Eppure, come sapete, io porto due cappelli: quello dello scrittore e quello di chi promuove l’opera. Ho quindi l’assurdo ruolo di far combaciare due elementi che dovrebbero essere scissi: la creazione e la vendita.

Così capita, a volte, di chiedermi:

"Ma questa mia creazione, che genere è?”

E capita di chiedermelo durante il processo creativo, come se, man mano che scrivo, cercassi una forma commerciale. Un intreccio di creatività e strategia. Un po’ quello che sono io.

Il Labirinto della Speranza: il dilemma del genere

Ho concluso la prima stesura del primo volume de Il Labirinto della Speranza. La seconda avverrà solo alla fine della saga, quando avrò completato tutti i volumi.

Ho ricevuto i primi commenti dei Beta Reader.

Uno su tutti mi ha messo in difficoltà: il genere.

Come sapete, io scrivo saghe evolutive, che mutano da volume a volume, non solo nella storia, ma addirittura nei generi.

Ne L’Anello di Saturno, si passa da un amore giovane a un amore drammatico, poi al thriller, fino al fantasy.

Anche Il Labirinto della Speranza segue questo principio. Dentro ci sono tanti generi:

• thriller psicologico,

• noir,

• dark romance,

• mystery.

Tutti i “lati oscuri” dell’animo umano.

Se L’Anello di Saturno era il sole, Il Labirinto sarà la luna.

Una delle critiche ricevute riguarda il primo volume: non è abbastanza “thriller”.

Gli amanti del thriller cercano pericolo, azione, urgenza.

Io, invece, in questo primo volume, gioco con un’angoscia sottile, con ferite profonde, ambiguità morali, risvolti psicologici e drammatici.

Dovrei quindi definirlo Dark Romance invece che Thriller Psicologico?

Oppure un Dramma Mystery?

Ma poi c’è anche l’ambiguità del paranormale… quindi?

“Un thriller psicologico mystery/noir drammatico, con uno slow burn dark romance.”

Si fa prima a leggere il libro che il genere

Come avrete capito, incasellare un’opera in un singolo genere non mi piace.

Esiste un solo genere autentico: Narrativa Contemporanea.

Il resto sono etichette per algoritmi e editori, strumenti per facilitare la ricerca del prossimo titolo, basati sull’assunto:

“Visto che ti piace il thriller, ecco altri 1000 thriller per te.”

Ma se fosse l’autore a piacerti?

Se vedessimo lo scrittore non come un mero esecutore di genere, ma come un esploratore dell’umanità?

Le storie contengono romanticismo, pericolo, poesia, crudezza.

Tutti noi abbiamo vissuto i generi, nella vita.

Dipende dal momento.

Il genere non è altro che il sapore di un momento.

È la fotografia della biodiversità delle energie che ci circondano.

Il mio compito? Esplorare l’anima, incarnarla e restituirvela, in una storia coinvolgente, entusiasmante, incalzante.

Il genere, lo lascio a voi.

La regia e la Scrittura

Chi ha letto i miei romanzi sa che dentro vi è la mia recitazione, il mio desiderio. Chi ha ascoltato gli audiolibri ancora di più, poiché do voce al mio scrivere. Dicitore e scrittore, una cosa rara tra gli autori.

Ma chi mi conosce da veramente tanto tempo sa bene che la mia passione, forse seconda solo alla scrittura, è sempre stata la regia. Ho prodotto e messo online ben tre prodotti audiovisivi. Il primo era un film di “animazione” denominato Sogno Farfalle Quantiche, in cui raccontavo con estrema creatività visiva la turbolenta estate di Matteo e Flavio. Un filmino dell’estate con funghetti allucinogeni.

Poi ci fu #bymyside, una specie di "Aspettando Godot" urbano, sempre con gli stessi attori e compagni di vita, che mi seguirono anche in quella che fu poi la mia ultima impresa audio-visiva: Days, un film interattivo in cui, come in Rashomon, era possibile per lo spettatore, scegliere “chi” seguire dei personaggi. Un’interazione in cui ciò che cambia non è la storia, bensì il punto di vista. Andò bene, ma non abbastanza.

Del perché forse ne parlerò più avanti. Ora voglio concentrarmi su ciò che queste esperienze mi hanno portato nella scrittura. 

Prima di fare questi film, dovete sapere che avevo fatto 4 anni di regia al Teatro Stabile di Genova, e altrettanti a fare da assistente alla regia di Sciaccaluga, Langhoff, Nichetti.

Insomma, ho la regia nel sangue. Ho visto tutto Kubrick più di una volta, amo l’estetica essenziale, la forma pulita.

Quando leggerete le pagine dei miei libri, ci farete caso. La regia è presente, e ha un sapore fortemente cinematografico, ne sono consapevole.

Ora sto scrivendo Il Labirinto della Speranza, e ciò che faccio, nella prosa, non è scrivere, ma descrivere. Cerco di raccontare, attraverso la parola, l’oggettività dell’azione. Per lasciare poi che il processo creativo avvenga nella mente di chi mi legge. Scrivere e leggere sono legate da un rapporto armonico. Io non sono che la scintilla che accende l’anima, il resto, il lavoro di immaginazione, lo fa il lettore. Per questo ogni lettura è diversa. Perché ogni lettore ha una sua tonalità di rosso mattone, ogni lettore vede la montagna innevata che taglia le nuvole in modo diverso.

L’uomo non è un animale pensante, ma sognante.

Il sogno emerge dalla lettura che gli dà spago.

Sempre più mi piace perdermi nella prosa, per poi, in editing, tagliarne una buona fetta per mantenere il giusto equilibrio, quello fondamentale, quello del desiderio di continuare a leggere.

Ah, giusto, la regia nella scrittura!

Ora, sopresa, come piccola anticipazione di cosa vi aspetta, vi lascio un estratto del Labirinto della Speranza, ditemi voi dove vedete la regia. Se la vedete. Poi vi rispondo nei commenti.

Piccola premessa, questa è una prima stesura, che ho cercato di formalizzare come fosse finale, in questo modo, vi darà una previsione anche di sensazione. Il contenuto potrebbe variare alla pubblicazione. Zero spoiler.


Erik arriva davanti alla porta del suo appartamento.

Gira le chiavi nella serratura.

Apre. 

L’odore di muffa lo travolge. Pesante. Umido. Vivo.

Si ferma sulla soglia.

Un respiro. Un altro. L’aria entra a fatica nei polmoni. Troppo densa di passato.

Entra e chiude la porta alle sue spalle. 

Un clic soffocato.

La polvere aleggia tra i raggi di luna che filtrano dai vetri opachi. Gli spifferi sembrano parlare, sussurrando ricordi sepolti. In quel silenzio, cantano gli echi di una vita. La risata di Alice in cucina. Il suono di un cucchiaino di plastica che batte frenetico sul tavolo. Il profumo del caffè.

Erik volge lo sguardo al corridoio.

Si avvicina.

Si ferma davanti a una porta. Ha un adesivo scolorito al suo centro. Un cuore rosso, fissato con puntine colorate. 

Una scritta.


 (Non è quello che c’è scritto)

Il fantasma della coscienza

Siamo coscienza, siamo passione e nutriamo il desiderio di trasformazione e di vita.

Viviamo costantemente tra le altalene del tempo, tra i viaggi nell’io e nel mondo.

Sto affrontando i temi dell’occulto: inizi da quelli più blandi, come l’astrologia e la lettura dei tarocchi, per giungere alla divinazione e molto altro, il tutto all’interno di un thriller psicologico.

Mi direte: allora stai scrivendo un thriller paranormale?

No, non esattamente. Voglio mettere a fuoco l’ambiguità che regna nel mondo delle percezioni, dei fantasmi e della psicologia.

Psiche, per i Greci, era una dea: aveva un corpo, esisteva in quanto tale.

Ora, per noi, la psiche ha raggiunto una forma molto più astratta eppure altrettanto concreta – se non addirittura di più – di una dea nell’Olimpo.

Noi creiamo manifestazioni della realtà e, piano piano, ne scopriamo i dettagli, contribuendo a definirne il disegno.

Sono le nostre proiezioni a dare forma alla realtà, e questo vale anche nell’occulto.

Una cosa diventa vera se ci si crede abbastanza.

E, visto il mio amore per le parabole, le metafore e le storie fantastiche – che in realtà sono molto pragmatiche e reali – ho scelto di affrontare l’ambiguità del reale nel thriller psicologico.

Cosa, se non una manipolazione della realtà attraverso l’occulto, può incarnare il folle desiderio, la passione, l’amore?

In psicologia si parla spesso della rimozione, del dimenticare un evento tragico pur di sopravvivere alla quotidianità.

In realtà, cosa differenzia questo da un fantasma che torna ad abitare la realtà perché non è pronto a lasciarla andare?

Entrambe le cose sono eteree, inafferrabili eppure trasformano profondamente l’individuo che le vive.

In questa analogia, tra il fantasma e la coscienza, tra il senso di colpa e la visione, si svolge la mia storia.

Un luogo in cui le passioni travolgenti si infiammano senza resistenza, in cui le barriere crollano, i cuori esplodono e, forse, le anime guariscono.

Un’odissea nei generi dell’ambiguità e della tensione.

Un viaggio anche nell’erotismo, nella manipolazione, nell’occulto e nella magia.

Ma, soprattutto, un viaggio nell’anima dei miei personaggi, dei quali scopro, ogni giorno, sfaccettature che non avevo colto.

Ogni giorno diventano sempre più umani, sempre più sfumati e, in un certo senso, sempre più ambigui.

Il bello di scrivere, per me, risiede proprio nell’opportunità di esplorare campi dello scibile che altrimenti non avrei conosciuto.

È come viaggiare con la mente.

Scopro così che le dimensioni che mi circondano sono tante quante le persone che vivono questa realtà.

Anzi, molte di più, perché Erik, Morgana, Euridice, Paolo, Aurora sono, per me, persone che esistono, che pensano, che hanno una visione del bene e del male e problemi da risolvere.

Ho consegnato il primo volume alle beta reader e sto ricevendo i primi riscontri, molto utili soprattutto per comprendere se lo stile, la struttura verbale e il flusso degli eventi risultano efficaci.

Questa saga è un’avventura creativa davvero ricca, che mi ha messo alle corde già a partire dal secondo volume.

Tutto fluisce in modo più sottile, subdolo.

È un labirinto anche per me, del quale conosco “più o meno” il finale, ma che mi costringe, ogni volta, a riscrivere quello che pensavo sarebbe accaduto.

Filo unico o filo multiplo

Sono a un bivio.

Ho scritto il primo volume della mia prossima saga, “Il Labirinto della Speranza”. Ora mi sono fermato un attimo per respirare e pianificare il prossimo.

E nel frattempo, mi diletto in quella che potrebbe essere lo stile delle copertine. Immagino il progetto, non solo la storia. Mi conoscete, sono un vulcano.

Ma ora, quello che conta, più di ogni altra cosa, è la storia.

Ho già in testa cosa raccontare nei volumi successivi, ma devo strutturare la narrazione.

Cosa intendo per strutturare?

Voglio dire spezzare il racconto in piccoli pezzi, frammenti sempre più piccoli: capitoli, scene, momenti, frasi, parole…

E le possibilità sono due: posso frammentare aggiungendo altre linee narrative, oppure evitare di aggiungerne e seguire un filo unico.

In quale caso conviene l’una, e in quale l’altra?

Soprattutto quando si parla di una saga, non è una risposta semplice.

Il filo multiplo permette di immergere il lettore in un mondo complesso, favorisce lo sviluppo parallelo di molti personaggi, anche secondari, e crea varietà di ritmi.

Potrei passare da un registro tragico a uno leggero con un semplice cambio di “linea narrativa”, e questo vale anche per le tematiche.

Se la linea “giovane” parla di problematiche adolescenziali, la linea “adulti” potrà affrontare temi più affini alla fascia d’età dei protagonisti.

Come potete immaginare, la linea multipla è la più usata nella scrittura moderna, per via dell’influenza della serialità televisiva.

Ma ci sono vantaggi anche nel buon vecchio filo unico.

Se il protagonista è forte e il suo percorso è ciò che conta davvero, allora passare a linee multiple è addirittura dannoso, perché non solo diluisce la storia, ma allontana dal cuore pulsante della narrazione.

Inoltre, se le azioni avvengono in modo sequenziale e progressivo, il filo unico è più potente.

La linea unica ha anche un altro vantaggio incredibile: è più semplice da seguire e rende il ritmo più veloce.

Io sono del team “filo unico”, perché amo Amleto, Otello, Don Chisciotte e i miti greci.

Mi piace la storia che diventa parabola e metafora, che imprime in pochi personaggi la nostra umanità, diventando simbolo di qualcosa di fantastico, filosofico e metafisico che ci riguarda tutti.

Fare la scelta del filo unico per una saga è la più difficile, perché non avrò l’orpello della scelta multipla, ma sono certo che se la storia è buona, sarà la scelta vincente.

In generale, io sono sempre stato amante delle linee singole, e credo che se scegliessi di usare linee multiple, rispecchierei solo la mia paura di non andare al sodo, di non essere radicale nel pensiero e nell’esecuzione. Non voglio fare giri inutili, né aggiungere ciò che non serve solo per compensare il mio timore di non essere abbastanza.

Ho scelto:

“Il Labirinto della Speranza” sarà una saga psicologica e thriller in 5 volumi, con una linea narrativa singola.

Mai Abbastanza

Sono entrato alla Scuola del Teatro Stabile di Genova nel 2001.

Ho avuto la fortuna, nel saggio di fine triennio, di interpretare un personaggio storico realmente esistito: Évariste Galois, uno dei fondatori della matematica moderna, genio ribelle che partecipò ai movimenti rivoluzionari, alle barricate, agli amori e alle tragedie.

Se ne è andato troppo presto, eppure, nella sua breve vita, ha lasciato un segno indelebile nella conoscenza umana.

L’autore, Luca Viganò, aveva dato al personaggio una sfumatura tragica, quella del genio ribelle e incompreso, che contribuì al successo dello spettacolo.

Interpretare un personaggio lascia sempre qualcosa all’attore che lo incarna. Da una parte, regaliamo il nostro corpo alla poesia; dall’altra, arricchiamo la nostra anima di quella poesia, ce la portiamo dietro, oltre lo spettacolo, nella vita.

Di quel personaggio mi sono portato dietro l’urgenza.

La sensazione che la vita sia breve e che le cose da fare siano tante. Troppe.

Mi conoscete, non mi fermo mai. Finisco una cosa e sto già facendo la prossima.

In questo momento, per esempio, mentre faccio l’editing dell’ultimo volume de L’Anello di Saturno – eh già… ci siamo, sta per finire – sto già ragionando sul secondo volume della prossima saga.

La prima stesura del primo volume è già andata ai beta reader, un test per capire se la narrazione, i personaggi, i luoghie gli avvenimenti siano “a livello” per affrontare una saga in cinque volumi.

So già che riscriverò questi volumi, perché scrivendo la storia i personaggi diventeranno sempre più chiari, e questo mi costringerà a riscrivere battute, commenti e pensieri di ognuno di loro.

Tra l’altro, tra pochi mesi riprenderò Il Paradiso delle Signore, e il tempo a disposizione per scrivere si restringerà.

Devo quindi avere una mappa chiara e completa di come procedere nella scrittura durante le riprese. Devo occuparmi delle pagine, e meno della storia.

Non mi fermo mai, da quando ho cominciato a recitare, non mi fermo mai.

Perché? Non lo so.

Forse per paura della morte.

Per quella battuta, che Galois ripeteva così spesso:

“Non ho tempo.”

Ammetto che ancora ora, più di vent’anni dopo, sento di non avere tempo.

Vivo come se non mi rimanesse molto, nella speranza di incidere con la mia anima il tempo.

Una visione, tutto sommato, tragica della mia realtà, che allo stesso tempo mi spinge a realizzare, a fare, anche a scapito, ahimè, di salute e società.

Questo pensiero di voler “fare”, “realizzare” mi ossessiona a tal punto che preferisco scrivere piuttosto che uscire con gli amici.

L’arte è una passione, ma anche un’ossessione, che mi spinge, mi muove e, a volte, mi consuma.

Ormai sono grande, non so quanto riuscirò a mitigare questo mio motore.

Se ripenso al passato, a quando ho realizzato Sogno Farfalle Quantiche (© e prima o poi lo rimetterò nel sito), mi dico che il Flavio che ha ritoccato a mano 160.000 fotogrammi ora è un po’ più sano, solido, stabile.

Ma il fuoco è sempre lì, e se non lo curo, se non lo alimento, in me cresce la paura di scomparire senza aver lasciato un segno.

Chissà se un giorno supererò questo mio desiderio e mi assopirò sotto un salice, a godere del presente, del rumore del mare e degli uccellini.

Chissà.

Successo o Prestigio?

Come dice il caro Eraclito, noi vediamo il mondo in modalità binaria. Esiste questo o quello. La luce o le tenebre. La fame o la sazietà.

Tendiamo ad andare per esclusione logica e abbiamo costruito il mondo usando queste esclusioni per creare ordinela porta, la scatola. Fuori o dentro.

Nella dimensione in cui mi sto muovendo (l’editoria), lo scrittore (io) è straziato da un’ambivalenza vecchia come il cucco:

Prestigio o successo commerciale?

A quanto sembra, uno esclude l’altro. Sia mai che i salotti intellettuali riconoscano in un’opera di successo popolare un merito letterario! E Dio non voglia che un’opera di eccelsa prosa e tematica venda centinaia di migliaia di copie.

No, non può essere. O l’uno, o l’altro.

Un esempio lampante sono i premi letterari. Lo Strega, per esempio. Ricordo un’immagine che mostrava il numero di copie vendute dei selezionati. Se ben ricordo, della dozzina, solo tre superavano le 10.000 copie.

Capirete quindi quanto sia presente nel cuore di ogni scrittore il dilemma: successo commerciale o prestigio?

A me piace pensare che uno non escluda l’altro. Non tanto perché oso immaginare uno scenario in cui un successo commerciale enorme vinca il Premio Strega – non sono così illuso – ma perché, per me, il prestigio autoriale è qualcosa che si ottiene, se si ottiene, a lavoro finito.

Il prestigio è la medaglia al valore del soldato morto tra le trincee d’inchiostro. Non la pacca sulla spalla dei suoi commilitoni.

Il prestigio sono i libri di storia.

Il successo, invece, come diceva il grande Carmelo Bene, “è già successo”, sta in un presente che è già passato.

Dovrei quindi chiedermi: cos’è il successo commerciale per me?

Quante copie? Quanto profitto?

Credo che il successo commerciale, per un artista, sia il momento in cui, con la propria arte, riesce ad essere autonomo. A camminare da solo.

Questo significa guadagnare abbastanza da dire:

“Sono felice? Mi basta?”

E rispondersi:

“Sì.”

Poi, se si eccede, è grasso che cola, ma se ho una qualità nascosta, è quella di essere grato per quello che ho.

Tornando alle mie paturnie d’autoresuccesso commerciale o prestigio?

Come spesso succede, questo diario mi permette, nel momento in cui espleto i miei pensieri, di fare chiarezza. Il testo è la fotografia di questa mia ricerca.

E la risposta la sento chiara dentro di me:

Se potessi scegliere, sceglierei il successo commerciale in vita, e il prestigio post mortem.

Ora che ho fatto chiarezza su questo punto, non mi resta che affrontare la fase successiva:

Scrittore per casa editrice media, casa editrice grande, o scrittore indipendente?

Come sapete, recito, ho poco tempo. Non riesco a dedicarmi alle faccende per le quali un autore dovrebbe investire tutto il suo tempo: incontri, salotti, presentazioni, firmacopie.

Sono tutti compiti ai quali non riesco ad adempiere come vorrei.

E quindi mi dico che forse dovrei andare al 100% da soloDiventare un autopubblicato e rinunciare a quella parte di mondo e prestigio, per dedicarmi al 100% al sito, ai libri online e al successo commerciale personale.

I vantaggi sarebbero:

• Controllo totale sulle pubblicazioni

• Guadagno maggiore per copia venduta

• Controllo a lungo termine sulle opere e sui diritti

• Possibilità di scegliere la copertina e investire in marketing

L’altra opzione è continuare con la PaV con la prossima saga (Il Labirinto della Speranzathriller psicologico), con le stesse modalità de L’Anello di Saturno.

Sembra aver funzionato. Un detto dice:

“Squadra che vince non si cambia.”

Chissà. Con la PaV mi sono trovato bene. Aurora e il suo team mi hanno appoggiato, aiutato e introdotto nel mondo della letteratura.

Abbiamo un contratto che giova a entrambi e che, se immutato, mi regala una libertà simile a quella di un indipendente “puro”.

La terza opzione sarebbe tentare con una grande casa editrice (Feltrinelli, Mondadori, Nave di Teseo).

Un altro tipo di gioco.

• Le percentuali sulle copie vendute calerebbero drasticamente

• I tempi di pubblicazione si allungherebbero

• Perderei il controllo su aspetti come copertina, impaginazione, tempistiche, diritti e persino il testo, che passerebbe sotto la lente di un editor della CE

In compenso, mi aprirebbe a un mercato più ampio, che garantirebbe volumi in grado di compensare le royalties inferiori.

Ma io chi sono?

Di queste tre scelte, quale mi rappresenta meglio?

L’ho detto in un’intervista, tempo fa, con Antonella su Instagram:

“Io non sono uno specialista di nulla. Un factotum sui generis.”

Vi lascio, e mi lascio, con un famoso proverbio inglese:

“Jack of all trades, master of none.”

(Chi sa fare un po’ di tutto non è maestro in nulla)

Ma pochi sanno che la frase continua:

“...But often times better than a master of one.”

(ma spesso è superiore di chi è maestro in una cosa sola.)

Giù le mani dal passato

Ho riletto il quinto volume de L’Anello di Saturno. La sua conclusione.

È un volume che ho scritto tempo addietro e, come sapete, ora sto lavorando su Il Labirinto della Speranza. Una saga del tutto diversa, con tempi, ritmi, personaggi e temi diametralmente opposti a quelli così morbidi de L’Anello.

Mi ritrovo quindi davanti a una vecchia fotografia di me. Non aggiornata al presente, mi rimanda a un me distante, diverso. Uno scrittore che cercava di espandere la sua prosa, di rallentare il ritmo del racconto, di indugiare nella descrizione, nella narrazione dell’umanità dei personaggi.

La tentazione di rimettere le mani sul testo per aggiornarlo al mio nuovo stile è forte, e devo resistere. Non tanto perché non sarebbe un miglioramento, quanto perché mi voglio imporre di rimanere fedele al me che ha voluto raccontare l’amore.

Rileggere il volume mi ha messo in una piccola crisi. Sono passati alcuni mesi, più di cinque, da quando l’avevo finito di scrivere, e il ricordo che avevo era diverso. Più forte, più intenso. Invece, ho trovato morbidezza, tranquillità.

In un certo senso, ne sono felice. È una piccola dimostrazione che la natura della saga de L’Anello di Saturno è autentica, genuina. Come può essere la risoluzione dell’amore vero, se non nella morbidezza tragica della nostra vita?

Come scoprirete, il quinto volume ha una sua natura particolare, intensa, autonoma quasi.

“Vive di vita propria”, si potrebbe dire.

Che bello rileggersi a distanza di tempo. Non tanto per osservare la prosa o la trama, ma per ricordare quel me che si struggeva nella scrittura delle parole. Per rivivere, in un certo senso, il Flavio d’un tempo.

La scrittura è un viaggio profondo, che non finisce con la fine del libro. Perché ogni libro è un eco di un frammento di me.

Un tuffo nel passato.

L’arte è uno specchio, davanti al quale l’artista ha l’opportunità non solo di esplorare il mondo attorno a sé o il proprio mondo interiore, ma ha la fortuna di vederne una manifestazione tangibile, reale.

Una proiezione in carne, che gli ricorda chi è, da dove viene, cosa ha fatto per arrivare al presente.

Può essere una prigione come un’opportunità.

Un mio maestro mi diceva spesso che “non bisogna affezionarsi alle proprie idee”. E questo vale anche per le parti di noi.

E rileggendomi, provo grande tenerezza per il me che ero, che sono e che, spero, sarò.

La chiave ambigua

Nella scrittura de Il Labirinto della Speranza, uno dei temi che affronto è quello dell’ambiguità. Se ci fate caso, lo affronto sempre. Per esempio, ne L’Anello, ho cercato di rimanere il più equilibrato possibile riguardo alla domanda: “Ma esiste o no?”.

Perché avevo la certezza che più fossi riuscito a mantenere questo delicato equilibrio, più avrei capitalizzato la storia, crescendo in aspettativa ed emozione.

Al contrario de L’Anello, l’ambiguità ne Il Labirinto sarà centrale, così come l’amore è centrale nella storia tra Luca e Anna. L’ambiguità in tutte le sue forme. Mi trovo quindi a confrontarmi con cosa sia per me l’ambiguità, a livello di storia, a livello psicologico, a livello di parole.

L’ambiguità è una delle grandi chiavi dell’arte, perché porta con sé il desiderio di essere compresa. Più si riesce a mantenere l’equilibrio, per esempio in relazione a un personaggio (“Ma è buono o è cattivo?”), più si potrà tenere compagnia il lettore, farlo navigare tra i dolori e le speranze del personaggio.

In un certo senso, è il lavoro che cerco di fare con Tancredi di Santerasmo. Un uomo ambiguo. Animato da amore e invidiapauradolore e fragilità.

Mi piace immaginare che tutti gli uomini siano cosìambigui. Ognuno di noi porta con sé più lati, alcuni in ombra, altri di luce. Ma siamo mille sfumature di grigio, e in base alla giornata, alle persone, ci comportiamo in un modo piuttosto che in un altro.

“Uno, nessuno, centomila”, come diceva Pirandello.

Siamo ambigui, lo siamo non solo con gli altri, ma anche con noi stessi, nascondendo persino a noi stessi segreti che non vogliamo ammettere, perché la voce dentro di noi ci dice che sono sbagliati, oppure irrilevanti.

Ma soprattutto, ed è lì che conto di esplorare a fondo l’argomento ne Il Labirinto della Speranzasiamo ambigui nei confronti della realtà.

Lo trovo un piccolo capolavoro umano, questo. La realtà, così concretapragmaticareale, è in realtà una proiezionenella nostra mente. Siamo capaci di forzarla con la nostra volontà, di scriverla, o addirittura di crearla.

La realtà stessa è ambigua. La relatività ne è un esempio lampante. In base a dove sei e a che velocità ti sposti, il tempo cambia. Cosa c’è di più ambiguo?

Eppure ci spendiamo per creare ordine, per mettere regole e righelli, per confutare questa ambiguità con tutte le nostre forze.

E più ci proviamo, più ci rendiamo conto che non importa quanto grande sia lo spazio o quanto piccolo sia un bosone, l’ambiguità ci permea da cima a fondo.

La saga sarà incentrata proprio su questo concetto, perché non mi viene idea migliore per affrontare il genere del thriller psicologico paranormale.

Ho finito il primo volume dei cinque che completeranno la storia, e mi appresto a cominciare il secondo.

Ci vuole fegato ad affrontare una saga. Finisci un volume, e non hai fatto che 1/5 del lavoro.

Argh.

Flavio

La paura di non essere speciale

Lo ammetto.

Mi rendo conto che soffro terribilmente di una paura che finalmente credo di avere il coraggio di guardare in faccia.

La paura di essere normale.

Dawkins parla, nei suoi interessantissimi testi che stanno alla base del neo-evoluzionismo, della particolare abilità di tutto ciò che è vivo di avere un differenziale di temperatura con l’ambiente circostante.

Noi, per esempio, abbiamo una temperatura spesso più alta del nostro ambiente. Per questo mangiamo, consumiamo energia. Stessa cosa con il sudore, ci raffreddiamo.

Insomma, siamo macchine che si differenziano. E lo stesso vale per quasi tutti gli elementi della vita.

Sapete che, se mostro un foglio bianco a un essere umano, gli occhi viaggeranno caoticamente da lato a lato senza fermarsi, ma se invece metto un punto nero al centro, lo sguardo si soffermerà proprio su di esso.

Sapete perché?

Perché siamo nati per notare la differenza. Siamo cacciatori. Nella foresta, vediamo ciò che si muove. Percepiamo le differenze. Questo processo non solo è salvifico, ma è proprio al principio della nostra evoluzione.

Ecco, io sento di avere una spinta atavica a essere una differenza. A essere eccezionale nel senso stretto del termine.

Un’eccezione.

Ma cosa rende eccezionale qualcuno?

Un uomo, una donna, un artista?

La marcata differenza con il suo ambiente.

Sono quindi mosso da una propulsione siderale nel desiderare fare le cose diversamente. E ovviamente, la maggior parte delle volte, questo risulta solo in una terribile perdita di tempo.

“Ci sarà un motivo se una cosa si fa così da 100 anni, no?” 

Sì, è così. Ma non riesco a farne a meno. E ora ho capito perché. Perché ho il terrore che, facendo le cose normalmente, risulterei – ai miei occhi – banale.

Farei parte dei punti bianchi del foglio.

Sarei la temperatura ambiente.

Indistinto. Felice, sì, accerchiato dal tepore del mondo. Ma non più eccezionale.

Oltre a scelte sbagliate e grandi perdite di tempo, un altro lato negativo è che si finisce per essere soli.

Perchè come può l'eccezione diventare regola?

"Perchè fare tutta questa fatica? Perché andare a sbattere lì dove mille prima di me hanno già sbattuto e trovato una soluzione funzionante?"

Perché?

Forse perché sono, come dicono a Romade coccio. Io le cose le comprendo solo quando le faccio. E c’è qualcosa nell’idea di essere un artigiano che si occupa di tutto il processo artistico che mi affascina.

Sto scrivendo questa nuova saga, e mi chiedo quale strada dovrei intraprendere.

La classica strada della casa editrice oppure quella dell’artista indipendente, solitario?

Voi mi conoscete. Io bramo l’indipendenza, l’impresa. E Non sono un animale sociale.

Vorrei andare da solo.

Ma un mio amico ieri mi ha fatto notare che “se nessuno mangia dalla tua torta, nessuno ti aiuterà.”

Quanto ha ragione.

Insomma, come avrete capito, a questo giro vige in me la confusione, la paura, l’arroganza e il timore della banalità.

Ma Piano piano cresco, imparo, miglioro.

C’è una frase di Carmelo Bene che echeggia in me e lo farà fino al mio ultimo battito.

“Non dovete fare dei capolavori. Dovete essere dei capolavori.”

E l’essere, come insegna la migliore narrativa, è nel fare, nell’agire.

La tragedia a lieto fine

L’autore deve confrontarsi con il genere. Ma perché?

Perché il genere classifica la storia, la impacchetta in modo che si possa spiegare più in fretta.

• “È un libro per bambini” (Il piccolo principe).

• “È un romance ottocentesco” (Jane Eyre).

• “È un documentario marino d’avventura” (Moby Dick).

Che piccolezza!

Ma le riduzioni sono effettivamente molto utili, perché grazie alle categorie possiamo scegliere il nostro gusto preferito, come i gelati dal gelataio. Una carta del menù.

All’epoca dei Greci, avevamo la tragedia e la commedia. Ora abbiamo il gusto puffo.

Sta di fatto che mi sono chiesto a quale genere io appartenga, come scrittore.

Chi mi conosce può capire la mia avversione all’etichettatura. La odio.

Io non voglio appartenere. Non fa per me. Figuriamoci l’auto-etichettatura. Il peggio del peggio.

Vi svelo questo piccolo segreto:

da piccolo, quando ero in Francia, dicevo di essere italiano, e viceversa in Italia, dicevo di essere francese.

Sono bastian contrario nel cuore. Un tifoso del no.

Ma visto che porto il cappello da venditore e faccio pubblicità ai miei libri, confrontandomi anche con il lato mercantile dell’arte, ho deciso di scavare, anche in maniera creativa, tra le varie specie di genere, per capire in quali mi vorrei riconoscere.

Niente nicchie.

Mi piace viaggiare. Variare nell’offerta.

Non scrivo commedie. Nemmeno tragedie, almeno, non del tutto.

Amo pensare che la mia storia abbia curato i miei personaggi, e anche i miei lettori.

Il percorso narrativo deve essere un cammino sui carboni ardenti. Un rito di passaggio.

Vorrei che ci fosse un prima e un dopo.

(Soprattutto per i miei personaggi, quindi anche per me che me li vivo, ma se fortuna vuole che riesca a farlo fare anche a chi mi legge, sarebbe bellissimo).

E vorrei che, finita l’ultima pagina del libro, il lettore stesse davvero meglio.

Meglio con sé stesso, con il mondo, con il passato, il futuro.

Meglio con le sue paure.

Della tragedia, mi piace l’intensità, la potenza, l’ineluttabilità.

Mi piace l’altezza a cui parla, l’ampiezza della sua voce, la profondità dei suoi personaggi.

Ma della commedia, mi piace il lieto fine.

Da lettore/spettatore, voglio finire più felice di quando ho cominciato.

Ma questo non vuol dire ridere, anzi.

Voglio patire le pene dei personaggi, comprenderli. Voglio vederli splendere, crollare e risalire, come fenici.

Voglio tragedie a lieto fine.

Peccato che su Amazon la categoria non ci sia. 😂

La rivoluzione in corso

In questi giorni, finito Il Paradiso delle Signore, ho approfittato per recuperare un po’ di contatti con la mia famiglia, sparsa tra Italia e Francia.
Sono andato da mia sorella. Lei fa un lavoro incredibile, è un’infermiera. Di quelle che stavano in prima linea durante il Covid, alle quali tutti inneggiavano balletti e promesse di aumento. Potete immaginare come sia andata a finire.
Ma non è questo il punto.
Parlando con lei, è venuto fuori l’argomento dell’intelligenza artificiale. Come sapete, ci lavoro da ormai più di quattro anni. Il mio approccio è prettamente artistico, cerco di comprenderne le potenzialità, i limiti.
Lei lo ha usato per organizzare il suo viaggio:
“Voglio andare lì, organizza qualcosa che sia X, Y, Z.”
E ovviamente ChatGPT ha organizzato tutto perfettamente, come un bravo assistente.
E mi sono detto:
“Pensa, il suo lavoro, che è a stretto contatto con gli esseri umani, è uno dei pochi che non ha un reale vantaggio se viene coadiuvato dall’implementazione di ChatGPT.”
Questo vuol dire che il suo settore non verrà segnato così tanto dalla rivoluzione in corso.
Non è un discorso nuovo, ma è bene ribadirlo: i lavori che richiedono il tocco umano, che sono i lavori di prossimità tra esseri umani, non saranno in crisi, anzi.
Se posso fare una previsione personale, penso che nei prossimi 5-10 anni ci sarà la fila per fare questi lavori, perché saranno meglio remunerati e più ambiti. Insomma, il panorama cambierà nettamente.
Ma per quanto riguarda i lavori intellettuali?
Quelli che richiedono conoscenza di regole, logica, insomma, quelle cose che l’IA sembra fare benissimo?
Cosa succederà a tutti questi lavori che beneficiano enormemente dell’apporto dell’IA?
Penso che in questo caso, come dice il CEO di Nvidia, non sarà l’IA a rubare il lavoro, ma le persone che la usano.
Come se, nell’arco di pochi anni, gli LLM fossero diventati qualcosa alla stregua del computer o dell’elettricità. Strumenti che ci aumentano.
Sarebbe facile pensare che il nozionismo, la conoscenza in generale siano diventati merce di poco valore, dato che si può accedere a tutto con un clic o una chat.
Ma non è così.
E vi spiego il perché.
L’IA non fa altro che restituire la risposta statisticamente più corretta alla vostra domanda, usando come bacino di informazione tutti i dati a disposizione.
Una specie di Internet in scatola.
Seguendo questo ragionamento, ciò che farà la differenza nell’output non è l’IA, ma la qualità della domanda.
Si ritorna all’uomo come cuore dell’intento.
Senza l’uomo, l’IA rimane ferma.
È l’intento umano, il desiderio di scoperta, di trasformazione, ad animarla.
E come si migliora una domanda?
Come si fa a fare domande e richieste sempre più specifiche, acute, profonde?
Studiando.
Studiando come non mai.
Filosofia, lessico, ragionamento logico.
Tutto fa brodo.
Solo così sarà l’IA a lavorare per voi.
E non il contrario.

La mia nuova saga

Sto completando la primissima stesura del primo volume della saga "Il Labirinto Della Speranza".

Parliamo di un testo non coeso, pieno di errori e strafalcioni. Ma è giusto che sia così. Prima si rigurgita un prodotto informe che poi, con arte, sapienza e pazienza, verrà cucito di bellezza e diamanti.

Sono al piano terra del mio palazzo.

Le fondamenta le ho elaborate per sei mesi: ho scritto, riscritto e riscritto mille volte la “storia”, quello che poi sapevo di dover affrontare nella scrittura della pagina.

Ogni saga, ogni libro, è prima di tutto una storia.

Una storia “grande” che può essere raccontata fuori dalle pagine del libro.

La mappa, se vogliamo. Le pagine sono il territorio nel quale lo scrittore scopre e disegna i dettagli di un mondo immaginato.

Ora sono in questa fase.

Ed è una fase incredibile, emozionante e difficile.

Incredibile, perché aperta allo stupore. Apro una porta ma non so cosa c’è dietro.

E sono io a dovermelo immaginare. È un confronto diretto con l’ignoto, una sorta di rincorsa verso qualcosa che non esiste ma che, nel momento in cui lo rincorriamo, si scrive, si crea.

Emozionante, perché mi ritrovo a rivivere pezzi della mia vita, traslati nelle vesti del protagonista, o dell’amico, o di un personaggio secondario.

Mi specchio, piango, rido, vivo la scrittura come fosse un pezzo di vita surreale, immaginato ma tangibile.

Difficile, perché la coesistenza di creatività e struttura dà adito a un dilemma che sa quasi di follia.

Vi spiego.

Ho una storia, che ha un inizio, un centro e una fine, come direbbe il buon vecchio Aristotele.

E fin qui, tutto bene. Facile. Sono in controllo. Certo, magari cambio una cosa piuttosto che un’altra, rimodello, invento.

Le idee a questo “livello” costano poco: sono cinque parole in più o in meno.

“Prende l’aereo e scappa” oppure “La bacia, rimane e si sposano”. Poche parole, un’infinita differenza.

Ma poi, arriva il momento in cui la storia è pronta ad essere distrutta dai personaggi.

Ah, i personaggi.

All’inizio sono qualcosa di ideale, che esiste appunto in quelle poche parole che definiscono la storia.

Per me, i personaggi sono definiti dalle azioni che prendono nella mia storia.

Ma poi, quando li scrivo, ecco che succede una specie di guerra tra il mio volere (la storia) e il loro volere!

Come anguille sgusciano, fuggono dalle mie redini, almeno ci provano.

E io, per non rompere il mio legame con loro, li assecondo.

Ma a volte tirano forte, fortissimo, verso un luogo in cui non possono andare!

E lì inizia un processo difficile, di compromesso tra il loro volere e il mio.

Ecco, sono lì, nella scrittura.

La saga prende forma.

Sarà molto diversa da L’Anello di Saturno.

Più oscura, più occulta, più veloce. Un labirinto nel quale spero di farvi entrare, divertire e, chissà, uscire diversi.

Il valore della vita

Ieri, come ogni sera, vagavo per la rete alla ricerca di informazioni su quello che sta succedendo.

Sono un amante della tecnologia e della modernità. La temo, e quindi la frequento: per non perderla di vista, per immaginare il mio futuro.

Cosa mi succederà?

Chi mi legge conosce il mio interesse e timore per l’intelligenza artificiale. Siamo agli albori di qualcosa che sta già rivoluzionando i processi, sia industriali che creativi.

I grandi modelli di linguaggio, macchine pensanti e presto capaci anche di agire (Agentic AI, per chi fosse interessato), stanno prendendo possesso di ogni dimensione umana.

Siamo cresciuti con l’idea che “il lavoro nobilita” e che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, ma se ciò che so fare può essere sostituito da una macchina, il mio futuro dov’è?

La macchina può scrivere, può persino recitare.

Può prendere il mio volto e metterlo su qualsiasi attore di qualsiasi film. Potrà, a breve, generare film con me, o voi, dentro. E sarà credibile.

La macchina lavora con i dati, tantissimi, e genera quello che si potrebbe definire, platonicamente, un ideale.

Se chiedete alla macchina di generare un albero, proporrà un’immagine che è la sintesi di tutte le immagini di alberi prodotte nel corso della nostra storia: fotografie, disegni, immagini di sintesi.

Se le chiederete di scrivere un libro, una serie o un film d’avventura, produrrà un prodotto perfetto, misurato al punto giusto, calibrato secondo gli archetipi che hanno colmato la nostra storia culturale.

Produrrà l’ideale.

Come posso lottare contro l’ideale? Io che sono fallibile, caduco, soggetto al tempo e alla morte?

Io che non so tutto, che non ho accesso a ogni pezzo di conoscenza umana. Io, ignorante, stupido e mortale.

Con la mia ignoranza, la mia stupidità e la mia mortalità.

Perché esse sono ciò che fanno di me un essere vivente, in continua trasformazione. Come voi.

I miei limiti, la fame di conoscenza, la consapevolezza della fine.

Sono queste imperfezioni, difetti, tratti—chiamateli come volete—a rendere la vita un percorso in divenire. Una Divina Avventura.

Perché chi “ignora”, rischia. Chi è “stupido”, sbaglia. Chi è “mortale”, corre.

Rischiare. Sbagliare. Correre.

I motori della vita.

E anche della mia arte, che spero sia la testimonianza autentica di questi miei “limiti”, dei miei sogni, della mia ambizione di comunicare e di emozionarvi.

Se c’è una cosa che la macchina non potrà mai essere, è essere umana.

Quindi abbracciamo questa nostra umanità, infiliamoci tra le pieghe della razionalità e sdraiamoci a sognare quello che non può esistere.

Ma che sicuramente esiste.

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Il seno della donna

Qualcuno mi ha chiesto come mai Anna copre il suo seno nella copertina del volume 4. Ne approfitto per fare un pensiero.

Il seno della donna e non dell’uomo… Infatti, c’è una disuguaglianza, ma è sensata? Perché esiste?

O piuttosto, a monte di una visione maschilista del mondo, ci sono ragioni logiche per cui il seno della donna è, se vogliamo, tabù? (Soprattutto nella società americana che, comunque, comanda le linee guida.)

Nella maggior parte delle società occidentali, il seno femminile è stato associato alla sessualità, mentre in molte altre culture è visto principalmente come simbolo di maternità e nutrimento. Questa sessualizzazione ha portato a considerare il seno femminile un aspetto privato o proibito, da nascondere in pubblico.

Le tradizioni religiose di molte culture hanno contribuito a normare il corpo femminile in modo più restrittivo rispetto a quello maschile. Ad esempio, in alcune interpretazioni di religioni abramitiche (cristianesimo, ebraismo, islam), il corpo femminile è stato percepito come un potenziale “strumento di tentazione”, e quindi soggetto a maggiore controllo.

La nostra società ha vissuto e sta vivendo una grande rivoluzione sessuale. L’Occidente, per quanto possa sembrare retrogrado a certi, è comunque il luogo dell’avanguardia su questo aspetto. Questo è un tema caldo, politico. E io non bazzico tali lande. A me piace la fantasia, la bellezza, le storie.

Poi, come Giuliana mi ha scritto, sono un artista-manager: ho due cappelli, quello del poeta e quello del commerciante. Quindi questa domanda, prima di tutto, va risposta con la concretezza inopinabile dei fatti.

La saga è una saga per ragazzi, 14+.

E mi direte: “Eh, vabbè, con tutto quello che vedono in TV o sul web”.

Sì, rispondo io. Ma non potrebbero. Lo fanno, ma non potrebbero. Ed è responsabilità mia, come genitore, tenere sotto controllo, dialogare e comprendere mia figlia, per evitare questo tipo di comportamento. Quindi, “tutto quello che vedono in TV e sul web” non è un argomento.

Per essere ancora più fattuale e mettere non solo il cappello del manager, ma proprio tutta la giacca e cravatta: Amazon è una società americana, e negli Stati Uniti il capezzolo femminile è tabù. Posizionarlo sulla copertina del libro avrebbe portato con sé il rischio di dover rifare la copertina, perdere il lancio e ritardare le vendite. Nulla di drammatico, per carità, ma sarebbe stato un peccato.

Quindi, davanti alla scelta se essere elegante e non esibire il seno direttamente sulla copertina, e farlo manifestando una libertà creativa che non era necessaria per me, ho preferito la prima.

Un giorno, forse persino per la prossima saga, potrei trovarmi di nuovo davanti al dilemma, e questa volta scegliere di mostrarlo. Perché quello che conta non è il gesto politico in se, ma quanto quella scelta sia in sintonia con la storia, con i lettori che desidero toccare.

Non sono le idee a comandarmi, a decidere per me. Sono io, con le mie idee, certo, ma non solo. Voglio raccontare storie, voglio farlo nel modo più ricco, fantasioso e semplice possibile. Il mio scopo è raggiungere il cuore dei più, perché nei testi che scrivo ci metto anche un messaggio. Un messaggio profondo, quella che chiamo “l’idea guida”, che porta con sé temi universali, umani. Temi che colpiscono la gente, perché cambiano una prospettiva e poi anni dopo, si ripercuotono nella politica, fatta da uomini, per gli uomini.

Un messaggio che viene svelato solo alla fine delle mie storie.

La buona scrittura

Si dice di Shakespeare che, anche se recitato male, sia interessante.

Sto ripensando a questo proprio ora: a come la potenza di una storia, una vera storia, trascenda da come viene eseguita.

Una buona storia funziona anche se girata male, letta sul treno con le pagine ingiallite o guardata su un piccolo televisore catodico.

Una buona storia funziona perché è lo scheletro dell’intrattenimento.

Non vi può essere sospensione della credulità senza una buona storia, credibile, forte, colma di trasformazione ed emozione.

Per questo spendo così tanto tempo a strutturare le mie storie.

Le definisco e costruisco una griglia, come il ferro armato per il cemento.

La storia, intesa come una struttura di avvenimenti che definisce personaggi, emozioni e significati, è l’anima di un libro, un film, un videogioco.

Ho in mente questa mia teoria della pizza. L'evoluzione da pasta a pizza, poi a prodotto farcito e cotto, come potrebbe essere vista un’opera d’arte: prima pensata, poi prodotta, farcita dal marketing e consegnata al consumatore.

E mi dico che mi sono fregato da solo.

La mia teoria della pizza, in realtà, è la teoria della pasta madre, che altro non è che una reazione chimica tra acqua, farina e sale.

Che altro non è che la vita.

Il ruolo dell’artista è mettere vita nelle sue opere.

Dare letteralmente vita: ecco la responsabilità che mi prefiggo.

Ho avuto un primo desiderio sei mesi fa: scrivere la storia di un uomo che trovava il potere di entrare nella mente della gente.

Uno psicanalista che riusciva a curare entrando fisicamente nella mente di chi voleva aiutare.

Un primo tema della paternità era presente, ma era solo l’inizio della ricerca.

L’inizio è un po’ come andare a scoprire “quello che si vuole scoprire”.

La ricerca della ricerca, in un certo senso.

In questi mesi ho lavorato sulla storia: un agglomerato di frasi, magari trenta.

Queste trenta frasi sono il frutto di strutturazione, modellazione e trasformazione, ma a livello alto.

“No, non in Francia, in Italia.”

Oppure: “No, non un fratello, ma un amico.”

Tutto muta come in una tempesta.

Ma lentamente un pezzo casca sulla carta. Poi un altro.

Ed emerge qualcosa di sfuocato, ma reale.

Si lascia riposare, così da guardarla un paio di mesi dopo con l’occhio di chi può dire:

“Ma tu davvero vuoi investire tutto questo tempo in questa roba?”

Oppure, più ottimista:

“Hm… sì, mi piace.”

E così, tra cinquanta idee cancellate e un paio sopravvissute, si passa alla seconda stesura “dell’idea”.

Poi, stesura dopo stesura, nell’ultimo mese ho concluso la prima “definizione a larghe trame della mia nuova saga in cinque volumi”.

E da un mesetto ho cominciato a scrivere le prime pagine.

Vomito generico, sfuocato anch’esso, ma piano piano comincio a vedere i personaggi, a conoscerli, a scoprirli.

Devo ammettere: poche cose nella vita mi danno tanta soddisfazione.

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Il pudore di esistere

Mi chiedo cosa mi spinga a considerare continuamente ciò che faccio inferiore a ciò che vale.

Mi spiego. Non faccio assolutamente fatica ad attribuire a qualcuno il successo che ha. Anzi, riesco a trovare argomenti che magari quella persona non aveva neanche immaginato. Riesco ad essere convincente, molto. Riesco a vendere ghiaccio agli esquimesi, quando si tratta di dimostrare una tesi.

Ma solo quando non si tratta di me.

Quando ho a che fare con il mio specchio, quando mi devo chiedere, per esempio, come mai quasi il 60% delle mie vendite viene da quello che si chiama “traffico organico”, cioè persone che hanno incontrato il libro dopo aver incontrato me, ma anche persone che non sanno nulla di me, o altri che hanno sentito parlare del libro (il famoso passaparola), ecco che il mio castello di certezze crolla.

No, non può essere perché il libro piace.

“È perché non sono abbastanza bravo a pubblicizzarlo con i canali a pagamento! Oppure è perché c’è qualcosa che non ho capito, qualcosa di sepolto e nascosto che sicuramente spiega queste vendite.”

Non può essere che qualcosa che faccio venda perché piace.

Ecco, di fondo è proprio questo che penso. E per quanto io provi ad estirpare da me stesso questa idea, a lottare contro il demonio della sindrome dell’impostore, ecco che di nuovo mi ritrovo a vedermi sotto quelle vesti.

Pensate che per anni (a volte mi capita ancora ora) una parte di me diceva che avevo fatto carriera come attore solo perché ero caruccio. Mai e poi mai possa anche balenarmi lontanamente nel cervello l’idea che io, forse, sappia recitare! Ora questa sindrome, almeno nel reparto “recitazione”, si è sedata. Ma ora ho capito perché! Perché si è accesa quella dello scrittore.

“Lascia stare, ma chi ti credi di essere? Kerouac?”

“È solo una perdita di tempo, non ci riuscirai mai.”

Lo dico a me stesso perché davvero, non ne posso più di questo mio atteggiamento.

Come posso riuscire a scacciare via questo pensiero? Come posso fare ad amarmi un po’ di più? A guardarmi nell’anima con una tenerezza sufficiente a quietare quest’agitazione che mi prende?

Sapete come faccio? Mi annullo. Fuggo da me stesso. Ecco perché recito, dirigo, scrivo, gioco a scacchi. Per dimenticarmi di me.

E il naufragar m’è dolce, in questo mar.

C’è chi pensa che mollare tutto sia la soluzione. Che forse bisogna rilassarsi un attimo, dimenticare non se stessi, ma il mondo. Ma come si fa? La mia è fame di vita, di riconoscimento, desiderio di esistere, di urlare la mia presenza, fino a che le lacrime si ghiaccino, fino a che il mio eco tocchi i confini dell’universo. Io voglio essere. Altro che non essere, caro Amleto. Essere, essere, essere!

L’erba del vicino è sempre la più verde… questo vale per il vicino, ma anche per il mondo là fuori dai nostri cuori. Ci sembra più verde e sapete perché? Perché lo vediamo con gli occhi dell’entusiasmo di chi non sa, di chi sogna solo le cose belle, e dimentica il sudore, la fatica e il lavoro che richiede ogni impresa. Persino la più poetica.

Quindi, olio di gomito, perseveranza ed entusiasmo!

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La mia voce narrante

Il narratore, "la voce", come dicono. Colui che racconta la storia.

Si dice che una storia non sia soltanto la storia dei protagonisti, ma anche la relazione tra colui che narra e colui che legge.

Da qualche giorno mi sto impegnando a definire meglio il tipo di narratore che voglio avere nella prossima saga. Chi ha letto La Divina Avventura e L’Anello di Saturno già conosce il mio amore per le prospettive originali.

Nella Divina Avventura, la storia viene narrata in una prospettiva di narratore limitato in terza persona al passato remoto, da Kato, l'antagonista.

Nell’Anello di Saturno, ancora in corso, ho invece optato per un narratore onnisciente in terza persona al passato remoto, nemmeno tanto limitato a Luca, visto che di tanto in tanto il Destino bazzica anche nelle anime di AnnaRonnieGeppoFloyd e il resto della combriccola.

Penso che ogni storia debba avere il narratore giusto. Un po’ come le lenti in fotografia. Se si fa un primo piano, bisogna usare un teleobiettivo, in modo che la prospettiva della figura non sia troppo distorta; se invece si inquadrano luoghi architettonici, meglio usare lenti larghe, addirittura grandangolari. Poi si possono anche fare esperimenti (come inquadrare un volto con un grandangolare, creando una specie di mostro), ma per una saga in cinque volumi, la scelta deve essere ponderata ed equilibrata.

Questa volta non voglio usare un personaggio per narrare la storia; voglio fondermi del tutto con il racconto, senza creare un filtro esterno. Questo mi toglierà la possibilità di filosofeggiare, ma creerà sicuramente più immediatezza. E considerando che sarà un thriller psicologico paranormale, voglio stare il più vicino possibile ai miei personaggi.

L’opzione classica sarebbe usare un narratore onnisciente in terza persona con il passato remoto:

Erik si fermò davanti alla porta. Il silenzio lo avvolse, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo. La porta portava ancora i segni di una vita che non c’era più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo. Tentò di respirare, ma l’aria gli sembrò improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna gettava riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”. Erik serrò i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fece un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posò sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormorò, mentre il respiro gli si spezzava in gola.

Questa opzione è un evergreen, che però ha il “difetto”, se vogliamo, di perdere di immediatezza, poiché la storia è “già avvenuta”.

L’altra opzione, molto in voga in questo periodo, è il narratore limitato in prima persona al presente:

Mi fermo davanti alla porta. Il silenzio mi avvolge, denso, opprimente, come una coperta troppo pesante. La porta ha ancora quel segno, quel ricordo di un tempo che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Provo a respirare, ma l’aria sembra non arrivarmi ai polmoni.
Dalla finestra, la luce fioca della luna riflette bagliori argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Stringo i pugni. Le unghie mi scavano nei palmi, ma non mollo la presa.
Faccio un passo avanti. Solo uno, e già sento il sangue gelarmi quando la mia mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», sussurro, con il respiro spezzato e la gola che brucia.

Interessante, ma ha un problema piuttosto enorme. Sono limitato ogni volta dal narratore. Non posso raccontare quello che passa nella testa di terzi se non cambiando del tutto prospettiva. Diventa molto, troppo limitante per i miei gusti.

Così, sono andato a cercare tra i miei romanzi in libreria se avessi qualcosa di ibrido. Niente… Mi metto quindi alla ricerca di una forma alternativa che mi possa dare la sensazione di immediatezza del presente, con la flessibilità della terza persona.

Ecco a voi il narratore limitato in terza persona al presente:

Erik si ferma davanti alla porta.
Il silenzio lo avvolge, denso come una coperta troppo pesante, soffocandolo.
La porta porta ancora i segni di una vita che non c’è più: un cuore di carta, rosso pennarello, consumato dal tempo.
Tenta di respirare, ma l’aria gli sembra improvvisamente irraggiungibile.
Dalla finestra, la luce fioca della luna getta riflessi argentati sulla scritta incisa nel legno ruvido: “Lea”.
Erik serra i pugni, sentendo le unghie scavargli nei palmi.
Fa un passo. Uno solo, ma sufficiente a far scorrere un brivido gelido lungo la schiena quando la mano si posa sulla maniglia.
«No, non ora, non ci riesco», mormora, mentre il respiro gli si spezza in gola.

Scrivete nei commenti quale stile vi piace di più.

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Flavio