La disciplina dell'artista

La disciplina dell'artista

Essere un artista significa vivere costantemente tra due forze opposte: la libertà creativa e la rigida disciplina. Da un lato, c’è il bisogno di spaziare, di esplorare senza limiti, di accedere a quelle idee che ci sorprendono e ci stupiscono. Dall’altro, c’è la necessità di dare una forma concreta a queste idee, di strutturare il lavoro affinché possa essere compreso, apprezzato e, alla fine, realizzato. Nel tempo, ho imparato che solo bilanciando questi due elementi è possibile trasformare la creatività in un mestiere produttivo e soddisfacente.

La libertà creativa: raggiungere il "numeno"

La libertà creativa è quel momento magico in cui l’artista riesce a trascendere il mondo fenomenico, a oltrepassare le apparenze per arrivare al "numeno", quel luogo oltre la superficie delle cose dove risiedono le idee più profonde e pure. In quello spazio, quasi mistico, si trovano le idee che possono sorprendere anche noi stessi. È un luogo in cui la mente sembra connettersi direttamente con il frutto fresco dell’albero della realtà, raccogliendolo direttamente dai suoi rami.

È in quel momento che si sperimenta la meraviglia della creazione pura, quando le idee fluiscono senza controllo, senza schemi, e siamo così addentro alla creazione che non ci rendiamo conto di essere semplicemente un canale attraverso il quale passa qualcosa di più grande. Ma quella libertà, per quanto esaltante, è solo il primo passo. L’idea pura, da sola, non è abbastanza. Come un magma incandescente che emerge dalle profondità della terra, essa ha bisogno di essere raffreddata, modellata e scolpita affinché possa prendere forma. Ed è qui che entra in gioco la disciplina.

Forgiare l’idea: la necessità della disciplina

Proprio come un fabbro deve battere il ferro finché è caldo per dargli forma, (o come Saturno che forgia il suo anello, direbbe Anna nell'Anello di Saturno) anche l’artista deve lavorare sull’idea appena nata, ancora flessibile e malleabile. La disciplina è l’attrezzo che permette di dare struttura a quel magma creativo, evitando che si disperda in un fuoco di paglia. L’idea, infatti, si raffredda rapidamente, e senza la tecnica e la costanza, rischiamo di perderne il controllo.

Lavorare con disciplina significa accettare che il momento di pura ispirazione è solo una parte del processo. Dopo quel momento iniziale, c’è il lavoro quotidiano, la fatica di dare forma a qualcosa di concreto. E non è sempre facile. Spesso mi trovo a dover recitare senza scintilla creativa, senza entusiasmo. Può succedere, la vita è complessa e piena di sfumatura. Ma è proprio in quei momenti che la disciplina si rivela fondamentale. Sapere che devo essere lì, che devo lavorare, mi permette di attraversare anche i momenti meno ispirati.

La tecnica: il ponte tra libertà e forma

La tecnica è il mezzo con cui trasformiamo l’idea - o noi stessi - in un'opera tangibile. Che sia scrivere o recitare, è un processo di crescita che richiede pazienza, ma anche una profonda conoscenza degli strumenti. Nel mio caso, lo storytelling e la recitazione. L'arte "del presente" e l'arte "della Storia". Due facce della stessa medaglia.

La tecnica non mi limita la creatività, al contrario, la fa emergere. Come ho detto spesso, la libertà creativa è meravigliosa, ma è senza confini. È solo quando riusciamo a inserirla all'interno di un quadro definito, che può davvero brillare. È come una scultura: la materia prima è necessaria, ma senza la mano esperta dello scultore, rimane solo un blocco di marmo. Conosco vari scultori, vi assicuro che è un lavoro faticoso, che usura muscoli e pelle. Eppure, solo così si arriva all'eccellenza.

L’equilibrio tra caos e ordine

Alla fine, il mestiere dell’artista è una danza continua tra il caos della creazione e l’ordine della disciplina. La libertà creativa ci trascina in luoghi inaspettati, ci permette di attingere a idee nuove e sorprendenti, ma è la disciplina a trasformare quelle idee in opere compiute. Il vero segreto è imparare a bilanciare queste due forze, senza permettere che una schiacci l’altra.

Con la libertà creativa esploriamo, con la disciplina realizziamo. Ed è in questo delicato equilibrio che si trova il mio cuore.

La potenza dei rituali

La potenza dei rituali

Nella vita creativa, la disciplina sembra spesso in contraddizione con l’ispirazione, eppure, più cresce la mia esperienza come scrittore, più mi accorgo di quanto sia essenziale costruire delle abitudini precise per alimentare il processo creativo. Oggi voglio parlarvi del valore dei rituali, quei momenti che, ripetuti giorno dopo giorno, diventano una bussola per la mente e il cuore, e mi aiutano a mantenere la rotta verso l'obiettivo.

La routine come alleata della creatività

C’è un’idea romantica della creatività, secondo cui l’ispirazione arriva come un lampo improvviso, dal nulla. E' così, ma l'ispirazione ha bisogno del terreno giusto su cui crescere. La creatività prospera quando viene coltivata quotidianamente, attraverso riti, routine. La disciplina, paradossalmente, libera la mente e crea lo spazio in cui l’ispirazione può fiorire.

Molti scrittori e artisti di successo hanno riconosciuto l’importanza di questo legame. Murakami, per esempio, inizia ogni giornata con un rituale immutabile: si sveglia all’alba, corre, e poi scrive per diverse ore. Stephen King ha una routine altrettanto rigida: scrive ogni giorno alla stessa ora, indipendentemente dall’ispirazione del momento. Questo mi ha fatto riflettere su quanto sia fondamentale costruire una routine che non dipenda dall’umore o dalle circostanze.

Nel mio caso, ho tante routine.

Camminare per risvegliare mente, cuore e anima

Uno dei momenti centrali della mia giornata creativa è la camminata. Cammino molto, come facevano i pensatori greci, convinto che il movimento del corpo risvegli non solo la mente, ma anche il cuore e l’anima. C’è qualcosa di potente nell’atto del camminare: è un modo per allontanarmi fisicamente dalla scrivania, ma soprattutto per liberare la mente dai pensieri che mi opprimono. Le migliori intuizioni spesso arrivano proprio in questi momenti di movimento, quando il respiro si fa regolare e la mente si lascia andare.

Dopo la camminata, il ritmo della giornata varia a seconda della fase di scrittura in cui mi trovo. Se sono in fase produttiva, quando c’è bisogno di macinare parole, il mio momento migliore è la mattina, dalle 9 alle 12. In queste ore, con la mente fresca e il corpo energizzato, mi siedo e lavoro senza interruzioni, lasciando che il flusso creativo prenda il sopravvento.

Quando invece sono nella fase di ricerca di idee, il mio orologio creativo cambia completamente. Le notti diventano il mio rifugio. Dalle 23 alle 2, nel silenzio della casa, mi immergo nel processo di strutturazione, di riflessione, lasciando che le idee emergano da quel terreno fertile che si crea solo quando tutto il resto del mondo dorme. È un momento quasi mistico, in cui la mente si distende e si apre a nuove possibilità.

Questa routine, però, non è nata da un giorno all’altro. Ricordo ancora quando scrissi il mio primo romanzo, "La rovina dell'anima" (mai pubblicato), a Parigi, all'Île Saint-Louis. Ogni mattina, alle 10:00, mi sedevo in un piccolo bar e ordinavo un caffè americano da 8 euro (prezzi folli, lo so!). Il caffè fumante accanto a me diventava parte del mio rituale quotidiano, e lì, seduto per due ore, cercavo di scrivere. Alcuni giorni non riuscivo a mettere giù nemmeno una parola, altri invece le idee fluivano senza sforzo. Ma più eseguivo quella routine, più mi rendevo conto che le parole sgorgavano con maggior facilità. La costanza era la chiave.

Il potere della costanza

Ricordo che durante la scrittura de "La rovina dell'anima", la mia prima opera, la costanza era tutto. Era una scrittura esplorativa, in cui non avevo una chiara direzione, né sapevo dove la storia sarebbe andata a parare. Ogni giorno mi sedevo a quel tavolo nell'Île Saint-Louis con la speranza che le parole venissero a galla. Alcuni giorni ero bloccato, altri sembrava che le idee nascessero da sole, ma quella routine mi spingeva ad andare avanti, nonostante l'incertezza.

Quella esperienza è stata diversa rispetto alla scrittura dei miei volumi più recenti, come "La Divina Avventura" o "L'Anello di Saturno", dove ho iniziato con una struttura ben definita e una visione chiara della direzione narrativa. In quei giorni parigini, la scrittura era più un atto di scoperta: un viaggio nelle profondità della mia mente senza una mappa. Eppure, anche in quell'incertezza, la costanza del rituale ha avuto un ruolo cruciale. La disciplina quotidiana di sedermi a scrivere, indipendentemente dal risultato, mi ha insegnato che il vero progresso creativo non dipende sempre dall'ispirazione momentanea, ma dalla perseveranza.

Questo insegnamento è rimasto con me anche oggi. Sebbene il mio processo creativo sia più strutturato, continuo a credere che la costanza sia la chiave per superare i momenti di blocco o scarsa ispirazione. Siediti, comincia, e le parole alla fine arriveranno.

Il rito della recitazione

Oltre che scrittore, sono prima di tutto un attore, e la recitazione, a suo modo, è un rituale. Quando salgo sul set, mi immergo in un rito preciso, fatto di gesti, parole e movimenti, che si ripetono ad ogni ciak. Ma ho imparato a non essere vittima del rito. La recitazione non è un atto passivo; richiede uno sforzo continuo di libertà creativa. Mi impegno a spezzare e rompere quelle che sono le mie stesse idee, i miei schemi, perché quello che conta, alla fine, è l'osservazione del reale. Non importa quanto rigido sia il rito, se non riesci a vedere, ad ascoltare ciò che ti circonda, allora rischi di perdere l’essenza stessa della tua arte.

La vera sfida è trovare un equilibrio tra rito e azione, tra disciplina e creatività. È in questo bilanciamento che si riesce a fare dell'arte un mestiere produttivo. Non si tratta di scegliere tra rigore e libertà, ma di farli convivere, lasciando che il rituale guidi la mano, mentre la creatività rompe le barriere e apre nuove strade.

Come nasce l'ispirazione?

Oggi è mancata la mia prima grande Maestra di Recitazione, la direttrice della scuola del Teatro Stabile, Anna Laura Messeri. Una donnina forte, ruvida, diretta, con l'energia vitale di un leone e la sagacia di una volpe. Aveva i capelli corti, l'ho conosciuta a vent'anni e, come tutti i bambini davanti ai nonni, per me Anna Laura è sempre stata una nonna. Non l'ho mai vista invecchiare, perché l'ho sempre vista vecchia. Eppure, il suo cuore era ancora giovane, sempre giovane. Dalla scuola di recitazione traeva vita, dagli alunni linfa per alzarsi un'altra volta, per urlare, di nuovo, che la voce non arrivava, che non si capiva quello che veniva detto.

Una maestra del palco che ora parla tramite le voci delle centinaia di alunni che ha educato, molti dei quali vi sono noti, poiché diventati famosi.

Uno di loro sono io.

Voglio raccontarvi come Anna Laura affrontò il concetto di ispirazione. Voglio iniziare da lì, perché è il primo ricordo che mi è venuto in mente quando mi sono chiesto come cominciare questa pagina. Ed è successo il giorno in cui ci ha lasciati.

Non può essere un caso, caro lettore.

Me ne stavo sul palco dopo aver ricevuto dalla "Mess", come la chiamavamo noi, un foglio: un estratto del Mein Kampf di A. Hitler, che parlava di sport. Di come la gioventù dovesse essere sana, forte. Un estratto che esulava dalla politica folle di Hitler, ma che ne conteneva un altro lato, meno conosciuto.

Lo scopo era affrontare questo lungo testo come un monologo. Incarnarlo con la voce e il corpo. Dargli ragione. Perché sì, quando si recita, una delle meraviglie è poter essere qualcun altro, qualcuno che non conosciamo, di cui non condividiamo le idee, ma che, nel momento in cui lo incarniamo, diventa parte di noi. L'attore è mille uomini, mille volti, mille lati di mille pensieri. Recitare, proprio come leggere, arricchisce.

Recitare è leggere con il corpo.

Toccava a me. Il palco di prova era quello del Teatro della Corte di Genova. Una piazza d'armi da duemila spettatori, un palco nero, enorme, un San Siro dei teatri. Vuoto.

Solo la Mess, seduta, che aspettava di tranciare con un commento sagace il prossimo allievo.

Toccava a me.

Entro sul palco, il foglio umido in mano, su cui era stampato il monologo. Lo avevo imparato a memoria, ma ero ancora incerto, dovevo tenerlo in mano, per accertarmi che, in caso di un vuoto di memoria, avrei potuto contare su di esso.

Arrivo in scena e mi prendo un tempo. Credo sia un primo segno di consapevolezza recitativa. Non si può cominciare qualcosa di interessante senza prepararlo con il silenzio.

E così, aspetto. Mi godo il mio momento. Il palco. "Non è mica male, poi, questo teatro…" penso.

Passa un altro secondo ed ecco che la voce della Mess spunta dagli abissi della platea, rivolgendosi a quel giovane francese in camicia e jeans, pronto a decantare la follia.

«Eeeeeeee… che fai? Aspetti l'ispirazione?!»

L'ispirazione. In effetti, era proprio questo che facevo. Aspettavo l'ispirazione, il coraggio di cominciare. La scelta di abbandonare il crogiolo nel quale mi stavo cullando, come un abusivo immeritevole, del silenzio teatrale.

«Eh sì, Mess, devo partire bene!»

«Non devi partire bene. Devi partire e basta!»

Ecco, in summa, cosa penso sia l'ispirazione. L'ispirazione, nella sua più profonda forma, è la preparazione all'ignoto.

L'opera è ignota. Nessuno può sapere come sarà l'opera d'arte nella sua forma finita, perché il processo della creazione è esso stesso l'arte. È organico, rispecchia l'anima del momento, ma anche il tutto che è l'artista.

L'ispirazione viene da "in-spiratio", inalare. L'ispirazione è il momento in cui ci si solleva da terra, ci si sublima in un vuoto teso a lasciarci in mano all'ignoto. Il momento in cui si fa entrare l'aria per poi eseguire, urlare, piangere, ridere, distruggere e creare.

Quindi, ragionandoci, cara Anna Laura, avevi colto il mio talento, l'ispirazione, e subito mi dicesti come portarlo avanti. Eseguendo. Imparando la tecnica. E facendo quel passo avanti.

E ogni giorno, da quel giorno, un passo avanti è stato fatto. E mille altri ne farò, Mess.

Come crescere come artista

Mi è stato chiesto, su Spotify, di approfondire la crescita dell'artista.

Prima di tutto dobbiamo capire cosa si intende per crescita. Il mestiere dell'artista è complesso e non è solo limitato alla sua arte, cioè alla sua tecnica, ma include la sua anima, il suo portafoglio, la sua vita sociale, la sua cultura, la sua mente, il suo corpo. Insomma, le caratteristiche che deve sviluppare un bravo artista sono tante e multidisciplinari. Così tanto che dobbiamo arrivare, per forza di cose, a una visione olistica di cosa sia un artista.

L'artista, per me, è colui che porta una nuova sfumatura di realtà a coloro che non hanno il tempo o la voglia di cercarla da soli.

Questo vuol dire che per me l'artista è prima di tutto un esploratore. Ma non esplora lo spazio, almeno, non principalmente. Esplora i suoi sentimenti, la sua anima. Per questo spesso viene confuso come un essere vanesio. È vero, molti che fanno arte lo fanno per vanità, fragilità, desiderio di essere riconosciuti. Ma non parlo di loro; parlo di quelli che hanno dentro una ferita, un desiderio irrefrenabile di comunicare, una curiosità che li porta ogni volta lontano.

L'artista deve esplorare gli altri, lo spazio e il tempo. Proprio perché, per via di questa caratteristica olistica, la sua crescita dipende da tanti fattori. Purtroppo, per ragioni di spazio e di tempo, mi focalizzerò sulla crescita del motore centrale.

Ci possono venire in aiuto alcuni detti sopravvissuti ai millenni di guerre e rivoluzioni:

"Mens sana in corpore sano."

Alimentate cuore e mente con cibo di qualità, che vi elevi, che vi predisponga al miglioramento e all'apertura.

"Più so, più so di non sapere."

Questo principio base, che obbliga coloro che hanno intrapreso un percorso di scoperta, a fare sempre un passo avanti verso l'ignoto, è la base del movimento. È il motore.

"Chi va piano, va sano e va lontano."

Per crescere, serve la resilienza della tartaruga. Non si ha successo la prima volta, nemmeno la centesima. Dicono che i primi cinque anni di qualsiasi disciplina non sono fatti per trovare il successo, ma per diventare bravi. Ci vuole tempo, dedizione e ascolto.

"Non mettere il carro davanti ai buoi."

Questo detto vuol dire molte cose insieme. Nel nostro caso, direi che prima di tutto serve una buona gestione dell'economia. Il mio suggerimento è di non indebitarsi, per evitare di essere costretti, soprattutto all'inizio della carriera, a fare rinunce per via di un debito. Ma vale anche per come ci si presenta. Umiltà, professionalità e ascolto sono competenze ignorate ma fondamentali nel mondo dell'arte.

Ultima cosa... Nel frattempo che fate questa strada, impervia, piena di buche e precipizi ad ambo i lati, spesso solitaria, avulsa dalla quotidianità, speciale poiché straniera, vi suggerisco di ricordare, di tanto in tanto, per la vostra salute mentale, un ultimo detto:

"Chi si accontenta, gode."

Perché a volte il talento non è riuscire a fare quello che amiamo, ma amare quello che facciamo.

Anni 90, I valori perduti

Nel primo volume dell'Anello di Saturno esploro anni lontani, ma vicini al mio cuore: gli anni '90. Anni di cartoni animati su Italia Uno, i Cavalieri dello Zodiaco, Ken il Guerriero su La Sette, Mimi Ayuara, Hello Spank e mille altri.

Ma non solo: erano anni in cui non c'era il telefonino, né internet. Per sapere qualcosa, si utilizzava ancora la famosa enciclopedia in 12 volumi, il dizionario, l'atlante geografico. Il sapere era in casa, letteralmente, nei libri che stavano nelle biblioteche. Un sapere poco mobile, certo, ma che obbligava chi lo cercava a fare un passo avanti, a fare quella piccola fatica necessaria per poi apprezzare il risultato.

Mi ricordo ancora quando da piccolo mia madre mi diceva di andare a guardare nell'enciclopedia dopo l'ennesima mia richiesta di "cosa vuol dire questo?" Così ho imparato a cercare per indice alfabetico e, nel frattempo che leggevo la parola misteriosa, ne scoprivo anche altre, vicine. Un giorno, non ricordo esattamente a che età, mi venne voglia di aprire il dizionario a caso e leggerlo fino a incontrare una parola a me sconosciuta. La leggevo e poi lo richiudevo.

Nella parola vi è il pensiero, la possibilità di immaginare. All'inizio - non a caso - era il verbo. La vera conoscenza parte dalla conoscenza delle parole. E questo è qualcosa che Anna, nel libro, ha ben capito. Lei, così curiosa e desiderosa di conoscere il passato, le antiche civiltà, impara le parole, le lingue, che sono la chiave della conoscenza.

Ma gli anni '90 erano anche anni in cui i valori erano diversi. Non voglio assolutamente cadere nella retorica del "ai miei tempi era meglio", perché non è così. Il mondo è meraviglioso, e il suo incedere costante, a prescindere da noi, dagli anni che passano, è la manifestazione della potenza vitale che ci anima tutti.

La società muta, si sviluppa, va avanti. Cambiano le parole, gli usi, le abitudini e anche i valori.

Gli anni '90 erano anni in cui la domenica l'Italia si fermava per ascoltare il calcio alla radio nella speranza di aver fatto 13 al totocalcio. L'aggregazione sociale era molto più forte. Le tavolate e le adunate erano qualcosa di normale. I ragazzini crescevano frequentandosi fuori dal focolaio domestico. Vi era meno timore, da parte dei genitori, a lasciarli bazzicare le piazze fino a tarda sera.

I valori cattolici e cristiani erano molto più radicati. Il matrimonio e la messa erano parte integrante della maggioranza delle famiglie. Penso lo siano ancora, ma mi pare evidente che da quel punto di vista le cose siano cambiate parecchio. La multiculturalità porta con sé trasformazioni che spesso diluiscono le tradizioni.

Amo le tradizioni, penso che rappresentino l'apice della saggezza popolare. Sono riti che hanno superato la barriera del tempo, che sono sopravvissuti fino a noi perché veri, profondi. Ma il mondo va avanti, e certe tradizioni non sono più compatibili con i valori moderni.

Di questo parlo nella Divina Avventura. Il protagonista, Overton, si chiama esattamente come "La Finestra di Overton", un principio socio-economico che definisce questa finestra come il range di cose "accettabili socialmente". Questa finestra si muove nel tempo, proprio come Overton che continua ad evolvere, a prescindere da ciò che lo circonda.

Certe cose invece penso che non siano cambiate: la natura umana, l'amore, la paura, i desideri, quella dicotomia profonda che ci obbliga a cercare la felicità personale all'interno di una società fatta di mille altri come noi, a distinguerci senza però diventare eremiti. La nostra ricerca di un equilibrio.

Non a caso, i classici, siano essi inglesi, russi, francesi, greci, latini, italiani, sono ancora attuali. Chi mi legge conosce la mia posizione riguardo alla contemporaneità e alla classicità. Io sono per i valori antropologici che non decadono. Cerco di trovare, in questa nostra contemporaneità, dei valori universali. Nella Divina Avventura, è la ricerca della perfezione, il desiderio di appartenere a un gruppo, la religione come salvezza dal nulla di cui abbiamo paura.

E nell'Anello di Saturno, è l'amore, il destino, l'onere delle nostre scelte. Per chi ha letto il primo volume, questi temi ancora non sono emersi, sono solo abbozzati, come è giusto che sia. Ma vedrete che man mano che la storia si svilupperà, questi temi diventeranno dominanti e vi porteranno, spero, a farvi domande importanti sui rimorsi e i rimpianti.

Non smetterò di cercare di affrontare i valori e temi che ci spingono ad agire, che hanno spinto molti prima di noi e che spingeranno molti dopo di noi.

Come vi avevo anticipato, per la prossima saga voglio coinvolgervi. Quindi, ancora prima di condividere con voi una storia, voglio capire quali valori potrei affrontare.

Scegliete: vendetta, fratellanza, malattia, sacrificio, disillusione, redenzione o ossessione?

Evviva l'arte!

Oggi voglio condividere un'aneddotto di tradimento che mi aprì gli occhi sulla "follia" che la recitazione - e l'arte in generale - impone a coloro che la vivono.

Prima di tutto, recitare cosa significa? È una domanda difficile, che non ha una risposta univoca, ovviamente. Recitare è parlare e agire in maniera interessante e credibile. E qui si aprono mondi, metodi, visioni su come si debba fare per essere "interessanti" o "credibili" (anche perché parlare e agire, diciamolo, sono elementi comprensibili: é sufficiente essere intellegibili e muoversi con equilibrio e destrezza, cose che si imparano piuttosto facilmente).

Dunque, rimangono due misteriose variabili: interessante e credibile. Non farò una dissertazione su come raggiungere questi due punti, perché, come ha detto Dario Fo – e con lui molti altri – i metodi per arrivarci sono tanti quante sono le strade che portano a Roma. Ma certamente una componente fondamentale del percorso è la volontà dell'artista di perseguire il desiderio di far proprio qualcosa che proprio non è: assorbire, modificarsi, trasformarsi.

L'arte richiede mutamento. E per mutare davvero, per essere davvero altro da sé, è necessario applicare la trasformazione in ogni atomo di tempo, in ogni briciola di gesto. E potete immaginare cosa comporti questo quando si parla di recitazione!

Per esempio, "parlare in dizione", cioè usare le "e" e le "o" giuste, con l'accento giusto, non è solo una questione di "sapere come si fa". Ma soprattutto di "fare come si sa". La dizione va applicata nella vita di tutti i giorni, quando si chiede il conto al ristorante, quando si chiede l'ora ad un amico, etc... E saprete di esserci riusciti quando – perso ogni controllo durante una litigata – parlerete con gli accenti giusti. Ecco cos'è l'arte: influenzarsi così tanto da non doverci più pensare. Usare la memoria del corpo e non quella della mente. La postura, la voce, la respirazione, la dizione sono tutti elementi della recitazione che vanno assorbiti nel loro profondo per essere efficaci in scena.

Perché in scena, signori, non si pensa: in scena si vola.

Il mio aneddoto - che ora arriva - vi farà comprendere a che punto ho applicato questa metodologia nella mia vita...

Un giorno di molti anni fa, quando ero ventenne, venni a scoprire da un mio amico il tradimento della mia compagna dell'epoca. Erano le tre di notte e il mio amico, forse comprendendo quanto in fondo io soffrissi pur senza sapere, decise di aprire il vaso di Pandora. Era una storia d'amore che reputavo seria, io e lei stavamo insieme da alcuni anni – che a quell'età sono decenni – e la notizia mi travolse. Fu proprio un'onda d'urto che mi prese in pieno volto. Uno schiaffo divino che mi ribaltò il cuore. Mi alzai, pensante, trascinando quella notizia verso la cucina, quando il mio corpo cedette sotto il peso. Caddi proprio in ginocchio, cercando di comprendere cosa mi succedeva. Ero davvero caduto in un piccolo baratro.

Ebbene, sapete cosa mi è successo? Una parte di me, un "agente" sempre presente, disse: "Wow, com'è drammatico questo momento. Tienilo, ricordalo, che potrebbe esserti utile." e registrò ogni cosa, ogni movimento, ogni sensazione, ogni pensiero, in modo tale da arricchire la mia valigia di emozioni.

Sono certo che questo succede a tutti gli artisti, in forme diverse: ma l'arte non ci abbandona mai, è una compagna che si colloca dentro di noi e registra emozioni, sensazioni, colori, immagini. Tutto ciò che i nostri sensi – e non – registrano. É una lente per la vita.

E poi, come per magia, nell'atto della creazione, ecco che la restituzione si fa bellezza poetica, espressione alta, illuminante che marcia sopra la polvere del tempo.

Evviva l'arte.

Prosa e Poesia

Spesso mi capita di fermarmi davanti a una frase e di passare decine di minuti a elaborarne la forma più bella. È un vizio della poesia, quello di voler creare un costrutto di parole che sia il minimo comun denominatore tra forma e sostanza. Tuttavia, la prosa del romanzo è un animale diverso. La lettura è musica che accompagna per ore; le mie poesie, invece, sono perle di poche parole, idee, bolle di sapone che viaggiano nell'aria.

Se la Divina Avventura ha un difetto, credo sia proprio quello di aver spinto troppo verso una densità poetica. È una qualità, ne sono consapevole, ma è anche un grande difetto, in quanto è, come mi è stato detto durante una bellissima conferenza a Napoli, un libro che impone la monogamia. Va letto da solo e nel silenzio della propria anima aperta.

Proprio per questo motivo, nello scrivere L'Anello di Saturno, ho scelto di lavorare su questa mia densità poetica, che ho visto riversarsi persino negli eventi che nella Divina Avventura si susseguono senza uno spazio per respirare, come se ogni cosa dovesse essere messa al proprio posto, senza spazi vuoti, ermetico in tutti i sensi.

In L'Anello di Saturno, come avrete potuto percepire dai primi capitoli, è diverso. La narrazione fluisce calma, ci sono bolle d'aria, pensieri introversi, descrizioni. È una passeggiata nel bosco, di pomeriggio, con gli uccellini e i raggi che fendono la canopea.

Sono certo che questo approccio, difficoltoso per me all'inizio, mi abbia aiutato a espandere la mia prosa. Come un buon vino rosso, lasciato a decantare per ossigenarsi. È anche il motivo per cui ho scelto volutamente di sviluppare la storia in cinque volumi. Per obbligarmi, in un certo senso, a questo esercizio che non è di stile, ma di arte, di ricerca. A questo serve distinguere i nostri punti deboli, ad affrontarli e a cercare di farli diventare una qualità, invece che un difetto.

Spero davvero di esserci riuscito. Questo diario è per me un modo per esorcizzare le mie paure, condividendole con voi, certo, ma anche scoprendole. Ho sempre il timore di non essere all'altezza, né agli occhi di coloro che fanno questo lavoro da anni, né a quelli di quel lupo inferocito che ho dentro e che a volte si desta, e che guarda al successo come se fosse l'unica stella polare.

Questo silenzio nella mia prosa è anche una risposta a quel lupo. Come se gli dicessi: "Respira, goditi il mondo, che poi passa."

Non ci riesco spesso, ma a volte sento quasi di farcela. Chissà, magari io e quel lupo, un giorno, ce ne staremo tranquilli su un prato, a giocare al nulla.

Esiste la sincronicità?

Il diario d'artista è tornato! Mi sono concesso una pausa, offrendovi i primi capitoli dell'Anello di Saturno che oggi, finalmente, esce. Auguro quindi a tutti voi che lo avete preordinato una splendida lettura e attendo con ansia le vostre recensioni.

E ora... il diario.

Oggi voglio affrontare un tema che mi è stato richiesto su Spotify: non so se lo sapevato, ma si possono fare delle domande alla fine dell'ascolto del podcast, e io, come sapete, leggo tutto! Mi è stato chiesto di parlare di sincronicità, di tempo, di vita e morte. Insomma, un argomento leggero e felice, perfetto per inaugurare una nuova stagione del diario! Scherzi a parte, sono temi affascinanti e soprattutto pertinenti all'Anello di Saturno; ho quindi deciso di fare un piccolo salto nel mondo del Destino.

Prima di tutto, è importante chiedersi cosa sia realmente la sincronicità. È un concetto di Jung che si riferisce a quelle coincidenze apparentemente non causali, come se tutto fosse collegato. Jung sosteneva infatti l'esistenza di una connessione tra il mondo psichico e quello fisico, come se ci fosse qualcosa che "ordina" il mondo, oltre lo spazio e il tempo. Nel libro, lo chiamo Destino, e addirittura gli do la parola; è lui che narra di coincidenze, belle e brutte, con le quali trama per sconfiggere l'amore di Luca e Anna. Nel mondo dell'Anello di Saturno, sopra le nostre teste avviene una lotta invisibile tra caos e ordine, tra amore e morte. Ma questo succede anche qui, nel nostro mondo?

E qui entra in gioco la sincronicità, e soprattutto, entra in gioco il credo di ognuno di noi.

Io credo nella sincronicità? È una domanda difficile, alla quale però mi sento di rispondere di sì.

E per dimostrarvelo, vi racconterò un aneddoto incredibile riguardante proprio la saga. Come sapete, tutto inizia ad Anagni, dove fu edificata una famosa cattedrale nel 1072. Nel corso della saga, gli eventi porteranno i protagonisti al tempio di Sakya, in Tibet. La scelta di questo tempio non fu casuale; ma piuttosto dettata dalla necessità di trovare una fonte originale di cultura orientale. Facendo le mi ricerche alle due di notte, scoprii quel monastero. Fu li che nacque una delle più grandi scuole di buddismo: il buddismo tibetano. La cosa più incredibile fu quando iniziai a fare ricerche su Sakya nel dettaglio. La prima pagina che uno sfoglia è wikipedia, e li, con un colpo d'occhio, scoprii una cosa che mi bloccò il fiato: Il monastero di Sakya fu fondato nel 1073. Esattamente un anno dopo la cattedrale di Anagni! Ora ditemi voi quali sono le probabilità che due templi, distanti 8000 chilometri in linea d'aria l'uno dall'altro, in due luoghi così remoti del pianeta, siano stati fondati a un anno di distanza? Per me questo è stato un segno. E quando vedo segni, mi dico che sto facendo il percorso giusto.

Nella saga scoprirete che questi due "templi" sono collegati eccome, io non ne sapevo nulla, eppure, eccoli qui, insieme.

Si può dire che questa sia sincronicità? Chi lo sa. A me piace pensare che sì. Voglio immaginare che tutto ciò rientri in quella magia che avviene nel momento della creazione, in cui l'artista, per chissà quali vettori misteriosi, si collega a sfere che non vediamo, ma forse percepiamo e unisci puntine che sembravano sconnessi.

E voi, avete mai avuto un episodio di sincronicità così evidente da far dubitare anche il più scettico? Vi aspetto nei commenti.

Finire, finire, finire!

Nella mia varia carriera, ho imparato una cosa molto importante: il valore di completare la propria opera: è immenso, più grande di quanto possiate pensare.

Nel completare qualcosa, avviene la vera nascita. È in quel momento, e solo in quel momento, che l'opera diventa altro che un sogno, una follia di immaginazione. Quindi, da un punto di vista artistico, è nel suo completamento che l'opera trova il proprio senso. Proprio come l'articolo sulla risoluzione drammaturgica che ho scritto alcune settimane fa.

Ma non è solo questo aspetto a giovare del completamento. Anche l'artista, nel completare l'opera, pur vivendo un trauma da separazione, procede verso una fase diversa, di bilancio, retrospezione quasi, che gli permette di guardare al futuro in un modo diverso. Ricco della sua produzione, che gli dà la forza (sia interiore, ma anche in maniera concreta, esteriore, in uno scambio di valore monetario che gli dà la possibilità di pensare che la sua arte sia anche il suo pane), l 'artista, con il completamento, si rafforza.

Ma è il terzo aspetto quello più importante. Quello che ho capito sulla mia pelle. Chi completa, è affidabile. E questo, in un mondo fluido e veloce come il nostro, è oro. Chi completa è un monolito che conferma al mondo che “ciò che dice, fa”. L' affidabilità è un valore importante per l'artista. Io penso che ogni volta che una persona mi legge sceglie scientemente di donarmi il suo tempo. E il tempo è talmente prezioso che non ha un valore definito. Si dà del tempo solo all'artista affidabile, perché il timore di perdere tempo, di sprecarlo in qualcosa che poi, in fondo, non è né trasformativo, né emozionante, è come una spada di Damocle.

Vi faccio un esempio concreto: Fellini, o più recentemente Spielberg. Due geni incredibili, che hanno dimostrato, per tutta la loro carriera, di essere sempre attenti al loro operato, di concluderlo, di dare, ogni tot anni, un'opera. Questo ha permesso di predisporre il pubblico all'ascolto attento delle loro opere. E solo occhi e orecchi attenti possono captare i segnali dell'artista.

Quindi, l'artista che completa, in un certo senso, predispone la realtà all'ascolto.

E cosa vuole, un artista, se non essere ascoltato?

Voi siete riusciti a finire dei progetti incredibili? Avete qualcosa di incompleto che vi urla quotidianamente di essere finito? Vi aspetto nei commenti.

Piccola nota a margine: i prossimi quattro episodi del "Diario d'Artista" saranno i primi quattro capitoli del primo volume dell'"Anello di Saturno". Potrete ascoltarli e leggerli, proprio come ascoltate e leggete queste pagine del diario. E potrete anche commentarle, se vi fa piacere. Sapete che io leggo sempre e rispondo quasi sempre, quando riesco.

Spero che questo viaggio che vi offro vi piaccia, e che lo condividiate, ogni volta, con chi pensate che possa essere divertito da questa storia che ho scritto.

Trova il tuo maestro

Quando facevo l'assistente alla regia, ho avuto la fortuna di assistere, ed è il caso di dirlo, al processo creativo di uomini che avevano dedicato la loro vita allo sviluppo artistico. Ognuno di loro possedeva una propria visione dell'arte, un arsenale di trucchi e segreti, frutto di intuizioni che avevano forgiato il loro percorso artistico. Matthias Langhoff, Maurizio Nichetti, Marco Sciaccaluga: tre registi dai quali ho imparato molto, in diverse dimensioni dell'arte, da come comportarsi (Marco), a come concepire una visione (Matthias), fino a come strutturare la produzione artistica (Maurizio). Ma poi c'è stato anche Massimo Mesciulam, che mi ha trasmesso la sua visione della recitazione e le sue tecniche. Marco, Maurizio, Matthias, Massimo. I miei M. I miei maestri d'arte.

Vi racconterò come ho scelto Matthias. Ero assistente alla regia di Marco e, un giorno, durante l'allestimento di "Madre Courage e i suoi figli", vidi Matthias infuriarsi per quella che considerava una mancanza di rispetto verso il poeta, Bertold Brecht, autore dell'opera.
In un impeto di passione, Matthias salì sul palcoscenico, animato da un dolore autentico, perché sentiva che la messa in scena non rendeva giustizia all'intento originale del poeta. Personalmente, ritengo che ogni regista abbia la libertà di interpretare l'opera, come vuole poiché in quel momento è lui l'artista. Tuttavia, fu la passione e la sensibilità di Matthias a catturarmi come un magnete. Quando scese dal palco, mi avvicinai a lui e gli dissi: "Matthias, voglio essere tuo allievo. Voglio assisterti." E così fu. Matthias mi insegnò moltissimo, perché ero stato io a sceglierlo.

Se ho avuto un talento, è stato quello di riconoscere i maestri. Nel secondo anno della scuola di teatro stabile, ebbi l'opportunità di essere selezionato tra i migliori allievi per uno stage intensivo di quasi un mese con allievi di altre scuole europee e maestri proveniente da tutto il mondo. La prima settimana fu un tour de force di mini-lezioni sulla drammaturgia inglese, commedia dell'arte, danza messicana, butoh giapponese e tecniche di canto e allenamento indiani: insomma un'esperienza straordinaria. Spinto dalla mia inesauribile curiosità, decisi di immergermi nel Butoh, riconoscendo nel maestro Katsura Kan una fonte di sapere e ispirazione.

E così mi immersi in una dimensione completamente diversa dalla mia abituale realtà teatrale. Questa esperienza non solo mi ha aperto la mente, ma anche il corpo!

Individuare i propri maestri è un talento. Quando comprendiamo che esistono uomini e donne nel mondo con un bagaglio di conoscenza e arte vasto come il tempo che hanno vissuto, allora capiamo quante inesauribili fonti di conoscenza, esperienza e formazione siano a nostra disposizione.

Non esistono scuole che possano creare artisti: perché sono gli allievi a scegliere i propri maestri, non il contrario. È il valore dell'individuo artista, che si riflette e plasma l'opera, a renderla magica. Questo avviene spesso quando l'artista, finalmente sicuro di sé e consapevole del territorio in cui si muove, decide, con esperienza ed estro, di andare oltre i confini tracciati dai maestri, alla ricerca di nuovi orizzonti sconosciuti.

La coerenza nell'arte

Nel cinema esiste la figura della segretaria di edizione, credo che sia l'unico mestiere che abbia una connotazione femminile fin dalla sua origine. Nella mia carriera d'attore non ho mai incontrato un segretario di edizione, incredibile, vero?

La segretaria di edizione si occupa della coerenza filmica, nota anche come "continuità". Poiché le scene non vengono girate in ordine cronologico, ma a blocchi, spesso in base al luogo di ripresa, può capitare di girare le scene 2, 45 e 115 in successione. Tuttavia, tra una scena e l'altra possono verificarsi cambiamenti, sia fisici (cicatrici, tagli di capelli) sia emotivi. La segretaria di edizione è qui per risolvere tutti i dubbi. Durante le riprese de Il Paradiso delle Signore, mi avvicino spesso alla cabina di regia chiedendo: "Da dove vengo?". In pochi minuti, mi viene fornita una sintesi degli avvenimenti pertinenti al personaggio di Tancredi, così da potermi immedesimare meglio nello stato emotivo del personaggio.

Anche nelle altre forme d'arte, la coerenza è fondamentale. Ad esempio, nella scrittura, se un personaggio viene descritto con gli occhi azzurri, non può averli neri quattro capitoli più tardi. La stesura de La Saga dell'Anello di Saturno è stata una sfida sotto questo aspetto. I personaggi sono numerosi, gli anni trascorrono e accade di tutto. E allora, come si fa? Io utilizzo un software di cronologia che mi permette di catalogare l'intera narrazione in sequenze, blocchi distinti per luoghi, personaggi e date. In questo modo, posso capire a colpo d'occhio, da autore, "da dove vengo". Sono la mia propria segretaria di edizione!

Oggi, però, voglio raccontarvi un aneddoto del quale sono il fortunato detentore. Durante un piccolo tour di presentazione di "Goltzius and the Pelican Company", ho avuto l'opportunità di trascorrere ore di viaggio insieme al regista Peter Greenaway. Abbiamo parlato di molte cose: cinema, recitazione e della famigerata coerenza.

Greenaway, come altri maestri, non crede nella coerenza; anzi, la detesta. Il motivo? I sogni non hanno coerenza e, per estensione, nemmeno la vita. Quindi, perché dovrebbe averla l'arte? In un mondo didascalico, dove tutto deve essere spiegato, trovo questa visione dell'arte assolutamente rivoluzionaria e, devo ammettere, affascinante.

Molti illustri registi hanno combattuto contro la continuità: David Lynch e il sommo Stanley Kubrick, che ha reso l'architettura dell'Overlook Hotel in "The Shining" un labirinto di impossibilità. L'incoerenza è vita, e se non è eccessiva tanto da farci pensare "ma no, no, questo è impossibile!", allora genera nel fruitore una sensazione di disagio, di incertezza. Rivela la possibilità che l'opera non sia stata del tutto compresa, il che è oro. Credo che neanche l'autore possa essere pienamente consapevole della sua opera, figuriamoci lo spettatore.

Questo effetto sfiora la pareidolia, la tendenza umana a vedere volti dappertutto, tra le rocce, nelle nuvole. L'uomo attribuisce naturalmente un significato a ciò che vede, la sua dimensione razionale cerca di dare senso a tutto ciò che percepisce. Questo avviene anche nell'arte.

Quindi, non bisogna temere l'incoerenza, anzi! E cosa significa questo per la scrittura, la recitazione, l'arte? Significa accettare un grado di libertà, una volontà esterna che ci guida. L'artista, non più condotto dalla propria forza di volontà, diventa, per un istante, veicolo di altro, di altri.

E qui inizia la magia.

Come sviluppare la creatività?

Sono un creativo e mi piace immaginare. A volte, mi viene chiesto: «Ma come ti è venuta in mente quest'idea?» e non so rispondere. Non conosco le dinamiche che mi portano all'ideazione. È difficile anche tracciarle, poiché ritengo che l'idea sia semplicemente la manifestazione esteriore di un movimento interiore, che include molti aspetti della persona: la sua formazione, i suoi desideri, la sua indole, ma anche il momento, il meteo, l'ora, lo stato emotivo. In sintesi, la creatività è un fenomeno complesso, che non può essere affrontato come una singola disciplina, ma piuttosto come una dimensione multidisciplinare. Ed è così che voglio affrontarla oggi, cercando di capire i meccanismi che portano all'idea.

Prima di tutto, vi è la persona: l'io, la mente. Questo insieme magmatico di paure, desideri, formazione. Le voci esteriori, come quelle dei nostri genitori, dei nostri amici, della società. Questa persona non è solo mente, ma anche emozione: il battito cardiaco, la respirazione, la voce. Sensazioni di abbandono, di felicità. Tutto lo spettro delle nostre emozioni veicola, all'io, una prospettiva unica sul proprio bagaglio interiore.

Poi, oltre l'io e le emozioni, c'è il corpo: la fisiologia. Stiamo correndo, camminando, digerendo; abbiamo nicotina, caffeina, sonno, appena svegliati. La nostra biologia, i nostri muscoli, quanto sono allenati, la nostra schiena, quanto è diritta. Ma anche se vediamo bene. Io, per esempio, sono miope, e questo mi limita tantissimo nella percezione del mondo. Senza occhiali, vivo in una bolla sfuocata. (Per chi volesse saperlo, mi mancano 5.25 e 5.75, che, diciamolo, mi mette di fatto tra le talpe del mondo.)

Ma questa mente, piena di emozioni in un corpo vivo, vive nel mondo. E qui entrano le dinamiche esterne. C'è la luce del sole, il pallore della luna. La musica di Chopin o il traffico cittadino. Fa freddo, fa caldo.

Ora vi svelo un segreto: le idee, secondo me, stanno nel numeno. E se tutte queste variabili, che ho elencato, sono tarate al punto giusto, in equilibrio tra loro, allora, a volte, entriamo in contatto con il regno delle idee, il numeno. Per chi non sapesse cos'è il numeno: Il numen, nella sua origine romana, rappresentava una forza divina o presenza spirituale che permeava il mondo naturale, guidando e influenzando la vita quotidiana attraverso entità o aspetti sacri della realtà. Questo concetto, trasposto nella filosofia moderna, trova un parallelo nella nozione kantiana di "noumenon" o "cosa in sé", che si riferisce alla realtà ultima che sta al di là della percezione umana e delle esperienze sensoriali. Cioè qualcosa che non possiamo conoscere.

Come fare, quindi, a ottenere questo allineamento? Metodo e disciplina. Cibarsi con cibi sani, sia per l'anima che per il corpo, che del mondo e circondandoci di bellezza, bellezza architettonica, bellezza artistica, musicale. Cercare arricchimento classico e curiosità. Approfondire le sfumature della realtà, infilarsi nelle pieghe del creato alla ricerca di ciò che non conosciamo. Camminare ad occhi aperti, grati dell'esperienza che ci è stata data di vivere questa Divina Avventura che è la vita.

L'intelligenza creativa

Si può essere razionali e creativi al contempo?

Pochi giorni fa, proprio su queste pagine del diario, ho avuto uno scambio molto interessante su due termini vicini ma così distanti: artista e artigiano. Spesso il primo viene identificato con il genio e la sregolatezza, il secondo con il metodo e la maestria del gesto.

Dicotomie perenni anche nella mia mente. Sono un artista o un artigiano? Sono un creativo o un razionalista? Penso entrambi e ritengo, soprattutto, che entrambe le strade siano necessarie per la crescita di una consapevolezza artistica che vada oltre la semplice emozione o il semplice pensiero.

La scrittura è un pensiero emozionante. Una forma sublime di crasi tra la logica e il cuore. Nell'atto di scrivere mi succede di passare ore su una virgola, su una parola. E poi, un demone mi attraversa e comincio a scrivere per ore, senza rileggermi, defluendo qualcosa che aspettava di emergere. Mi piace pensare che sia la mia anima che nuota nel numeno e che mi spedisce forme e concetti inespressi, affinché la mia mente razionale possa in seguito dare loro una forma intellegibile, semplice, fluida.

È un'illusione della mente? Esiste davvero qualcos'altro, più grande di noi, che ci attraversa? Non ci sono risposte, ma solo domande. E io, come immagino si evinca da queste pagine, ne sono avido.

Da millenni, grazie alla tecnologia, l'uomo razionalizza tutto. La scienza, con il suo incessante sviluppo, continua a incasellare la realtà, a definirla in maniera ripetibile, inequivocabile, alla ricerca di quella formula che tutto include. Le macchine, ultimamente – parlo degli algoritmi di LLM – sono capaci di razionalizzare ogni campo dello scibile umano, di comprimerlo e riproporlo in infinite varianti. Ma si tratta sempre di ciò che già conosciamo. La scienza è l'analisi di un percorso già fatto. Il percorso verso l'ignoto, però, spetta a noi uomini, non alle macchine. Queste ci aiutano a camminare più velocemente, a viaggiare tra le stelle. Ma il percorso di scoperta, che mai finirà, è nostro e solo nostro. E l'artista, in questo, è uno di coloro che porta la fiaccola, che esplora non il macrocosmo, ma il microcosmo dell'anima interiore, dell'umanità che in noi ci accende.

In sintesi, quello che sto dicendo è che la vera intelligenza non sta nella capacità di rispondere alle domande, ma piuttosto nel saperne fare di nuove. Il percorso verso una nuova risposta, che la scienza non conosce, ci porterà a una possibile soluzione ed è vitale, potente, necessario. Ed è questo percorso che ci identifica come quella meravigliosa specie di Homo Sapiens che vive in un granello blu in mezzo a un oceano infinito di stelle.

Scienza e arte, matematica e filosofia, fisica e umanesimo: due facce della stessa anima. La nostra.

La ricetta di una buona storia

Oggi parlo di scrittura.

Mi capita sempre di più di rifletterci, segno che non solo comincio a ragionare in questi termini – cosa che facevo già da anni – ma ho anche il coraggio di condividere i pensieri appresi e forgiati nel tempo.

Qual è il segreto di una buona storia?

Esistono numerosi manuali per scrivere. "On Writing" di Stephen King è sicuramente un buon inizio; Mamet è eccellente, esiste una sua masterclass online molto interessante sulla scrittura. E poi ci sono i maestri nascosti, quelli che devi scoprire da solo. Ma per farlo, devi prima conoscere bene l'ambito. Più sappiamo, meglio siamo in grado di identificare i nostri maestri, coloro che realmente possono aiutarci a progredire nella nostra arte.

La domanda che mi pongo è, ovviamente, senza una risposta univoca. In realtà, ha mille risposte diverse. È una questione aperta, che non può essere risolta con una formula matematica, ripetibile e immutabile.

Ci sono storie che colpiscono per l'idea, altre per la prosa, altre ancora per i personaggi o per il ritmo. Insomma, le variabili sono innumerevoli. Quindi, anziché elencarle tutte, mi limiterò a esplorare quanto più possibile per capire quale, tra tutte queste variabili, sia la più importante.

Per chi conosce il mio "metodo della pizza", sa che ho un'inclinazione per le metafore culinarie. Mi piace andare al ristorante e gustare piatti squisiti, immergermi completamente in esperienze gastronomiche, spesso stellate. Quando mi siedo a tavola, dopo aver appoggiato la giacca, ciò che mi colpisce immediatamente è il pane.

Il pane è il biglietto da visita della cucina. In esso, c'è la semplicità di un piatto umile, composto solamente da tre elementi. Ma quante varietà di pane esistono! Quante fragranze, sapori e consistenze si possono scoprire con semplice acqua, farina e sale! Pane integrale, focaccia, schiacciatina, grissino, pane al latte, morbido, ruvido: quando mi viene servita una cesta di pane, non necessariamente abbondante, ma variegata e piacevole, mi lascio conquistare e affronto con maggiore apertura ciò che seguirà.

Ora vi chiederete: cosa c'entra tutto questo con una buona storia?

Una storia non può funzionare senza personaggi solidi. Puoi elaborare quanto vuoi una trama, inserire esplosioni, far crollare civiltà, creare incidenti drammatici. Ma se queste vicende accadono a personaggi che il lettore non ha avuto modo di apprezzare, allora tutto risulta vano.

I personaggi sono il moltiplicatore dell'emozione che una storia può trasmettere. Sono il pane della narrazione: semplici, comprensibili, ma difficili da scrivere. Devono essere autentici, avere desideri, difetti, fragilità. Devono interagire tra loro in modo credibile, superare ostacoli, unirsi o dividersi.

Ma cosa rende davvero umano un personaggio? Parlando dalla mia esperienza attoriale - io non credo nella recitazione come maschera, bensì come manifestazione di sincerità, di autenticità - la magia della recitazione sta nel creare una relazione autentica con il partner di scena, stabilendo un legame che permetta di agire liberamente, senza timore.

L'arte della recitazione risiede proprio in quello spazio di fiducia che consente di essere veramente se stessi. Lo stesso vale per i personaggi di un libro: ciò che li rende amabili o meno sono le loro relazioni, perché è attraverso di esse che ci identifichiamo con loro.

Dunque, una buona storia si basa su relazioni autentiche. Poi, si può procedere con qualsiasi tecnica narrativa per rendere i primi, i secondi e il dessert indimenticabili.

Una sorpresa per te

Ho scelto, come narratore della saga dell'Anello di Saturno, il Destino: un personaggio interessante e, a quanto ne so, davvero poco usato in narrativa.

Ho cominciato a scoprirlo man mano che la saga si dipanava davanti ai miei occhi. Un essere superiore, che trama l'universo e sa cosa succederà, ma anche cosa sarebbe successo se… Ama l'ordine, le direzioni chiare, i piani ben congegnati.

E ha un solo nemico: Amore.

Amore, un essere caotico, potente, selvaggio, indipendente. Vettore di confusione, di attrazioni, di pensieri che non pensano, e di cuori che non smettono di pulsare. Amore che, con un bacio, riesce a sfilare anche la più intricata trama del destino.

Quindi, visto che la saga è, in buona sostanza, una magica storia d'amore, chi, se non colui che odia l'amore, sarebbe stato il mio perfetto narratore? Il Destino.

Ovviamente, questa dimensione di colui che racconta la storia non è altro che la confezione della storia, la sua pelle più superficiale, ma non certo la sua anima o il suo cuore. Attraverso questa saga, ho cercato di maturare la mia scrittura. Consapevole di peccare di eccessiva densità, dovuta soprattutto al mio amore per la poesia sintetica ed essenziale (le mie poesie, le potete leggere qui sul mio sito, sono molto brevi ed intense, amo quel tipo di impatto). Insomma, ho compreso, con la Divina Avventura, che la densità può rivelarsi un'arma a doppio taglio. Permette di essere molto profondi in poco spazio, di toccare vette di forma e contenuto, ma il costo è la concentrazione richiesta al lettore per apprezzare a fondo il lavoro di incastro che l'autore ha fatto.

Quindi, In questa saga, senza abbandonare la mia natura, che ovviamente ha fatto di tutto per tornare, ho lottato contro il desiderio di essere conciso e ho cercato di dare aria alla mia prosa. Ecco un brano della saga dell'Anello di Saturno.

Luca scendeva i grandi scalini dietro piazza Cavour, numerosi ma bassi e agevoli. Con lo sguardo incollato allo schermo del Game Boy, illuminato dalla luce gialla dei lampioni, giocava a Tetris con grazia e calma. La batteria del gioco era ormai quasi esaurita, segnalata dalla spia rossa più debole del solito. Quando la spia lo abbandonò, tutto si spense improvvisamente. Luca si arrestò, e alzò lo sguardo per la prima volta.
Si trovava in fondo alla scalinata, di fronte agli alberi del parco, lontano dalla piazza. Alzando gli occhi verso la piazza, intravedeva ancora la punta del monumento ai caduti, ma i rumori del borgo erano scomparsi. L'odore della natura riempì le sue narici e notò il silenzio dei grilli, un'insolita quiete piacevole e cullante.
Il cielo era tempestato di stelle, più brillanti di quanto le avesse mai viste. «Sono così tante…», pensò, ammirando la Via Lattea visibile a occhio nudo e individuando pianeti come Marte, Venere e Saturno in un colpo solo.
Poi si accorse di non essere solo. A una decina di metri da lui, alla sua sinistra, sedeva una ragazza sotto la luce gialla dell'unico lampione acceso. Era ferma, con le ginocchia piegate, un libro in mano e una sigaretta spenta tra le labbra.

Ecco. Ora, senza neanche saperlo, siete diventati lettori della saga! Spero che questo piccolo anticipo vi abbia fatto piacere. Ho scelto un brano che anticipa e racconta, ma che non svela nulla, se non la sensazione di quel mondo in cui spero vi tufferete insieme a me: il mondo di Luca e Anna.

Ovviamente, attendo i vostri commenti qui sotto sul sito 🧡

Svolte del 2024

Voglio ancora parlare del futuro.

Questa volta per informarvi di tutto ciò che mi aspetta quest'anno. Sento che sarà un anno importante, in cui la mia vita prenderà strade inesplorate. Un "turning point", come lo chiamano in gergo tecnico quando si scrive una storia: il momento in cui tutto cambia, in cui un evento sposta la direzione della storia e ci tiene incollati, in attesa del proseguio.

Quest'anno mi aspettano: una miniserie, un film TV, una daily, vari eventi firmacopie, la partecipazione a festival letterari, la pubblicazione di 2 o 3 volumi della saga de "l'Anello di Saturno" e il nuovo videogioco realizzato dalla mia società di videogiochi. Per non parlare del resto: la vita, i doveri, i piccoli piaceri quotidiani e soprattutto uno spazio per l'ignoto, per l'inaspettato.

Adoro arrivare con almeno dieci minuti di anticipo a ogni appuntamento. Adoro camminare. Adoro avere una bolla di vuoto in cui perdermi totalmente nell'osservazione, nella contemplazione di ciò che mi circonda e di ciò che ho dentro. Spesso, quando vado a giocare a scacchi al bar del Fico, cammino; mi permette di riattivare quella freschezza vitale che poi mi dà la carica. E m i fa sorridere.

Voglio poi vedere mia figlia crescere. Già ora, che ha sei anni e mezzo, è uno spettacolo alzarsi e vedere che ragiona meglio del giorno precedente. Sa comportarsi, capisce che ci sono situazioni in cui certe cose si fanno e altre no. Ha un talento spiccato per lo sport, l'espressione, il ritmo e la musica. Ma è anche schizzinosa sui vestiti da mettere. Ieri mi ha detto che una sua amica le ha prestato lo smacchiante per togliersi il rossetto che si era messo sotto gli occhi per sembrare uno zombie. Ha già delle amiche che le prestano lo smacchiante! La vita è davvero inarrestabile.

Tra un mese circa, finirò di girare "Il Paradiso delle Signore" e mi dedicherò molto di più alla saga. Devo assolutamente chiuderla entro fine aprile, al massimo metà maggio. Ho la necessità di farlo perché mi rendo conto che più vado avanti a scrivere, più la storia assume contorni personali, indipendenti, che mi costringono a tornare indietro e riscrivere pezzi sempre più ampi. Sono certo che l'ultimo volume, proprio per come è pensato, mi costringerà a rivedere molte sfaccettature, non solo di personaggi che si realizzano al massimo nel quarto volume, ma dell'opera stessa, del messaggio che veicola nella sua ampiezza.

Per me, un'opera non può non viaggiare su vari livelli: certo, c'é quello diretto delle parole, degli eventi, delle passioni e desideri. Ci deve essere qualcosa in più, qualcosa di filosofico, di spirituale. Qualcosa che non solo ampli le vedute, ma apra il cuore. Una visione, se così possiamo chiamarla, del mondo nella sua complessità.

Ecco, devo fare tutto questo entro aprile! Scappo.

!

Tempo di cambiamenti

Il tempo è un'illusione, eppure il suo effetto su tutti noi è manifesto e inarrestabile. Cosa rappresenta una data, se non un punto immaginario in uno spazio immaginario? Tuttavia, ci ritroviamo qui, pronti a celebrare ogni volta che possiamo quella frontiera costituita da minuti, anni e secondi.

Devo ammettere che i compleanni non mi piacciono. Mi vergogno di festeggiarmi, almeno non pubblicamente. Preferisco gratificarmi personalmente, magari concedendomi una deliziosa cena di coppia in un ristorante romantico, o un viaggio verso località inesplorate.

E se non mi piacciono i compleanni, potete immaginare il mio pensiero sul Capodanno. Abbiamo stabilito che in quel momento, tutto cambia. Che "da ora in poi, sarò finalmente la migliore versione di me stesso." Ma, diciamolo francamente, è solo un pretesto. Un modo per nascondere sotto il tappeto tutta la polvere accumulata durante l'anno, sperando che scompaia magicamente.

Le nuove risoluzioni sono una iniezione di fiducia, ma anche una forma di autoinganno. Il cambiamento avviene gradualmente, passo dopo passo. Esiste una regola non scritta nella realtà: ciò che si costruisce lentamente, si dissolve con la stessa lentezza. Più accurata e organica è la costruzione di una trasformazione, più solido e duraturo sarà il risultato. È come nella cucina: una cottura lenta, priva di fiamme violente, fa emergere sapori intensi, che rimangono impressi non solo al palato, ma anche nella memoria.

Il tempo... è una costante mutevole, che varia a seconda del nostro stato d'animo. Scorre velocemente quando siamo felici e sembra eterno nei momenti di apatia o tristezza. Il tempo è un concetto così affascinante che ne ho fatto il tema centrale della saga dell'Anello di Saturno. Benché sia stato esplorato in mille modi, sono convinto di poter offrire una prospettiva unica e originale. E questo 2024, si sa, sarà l'anno di Saturno!

Insomma, il nuovo anno è arrivato. Ma non solo il nuovo anno, anche il nuovo mese, il nuovo giorno, anzi, la nuova ora, il nuovo minuto! Tante avventure quante le stelle nel cielo!

Buon anno a tutti. Vi auguro una continua e graduale trasformazione verso l'apice dei vostri desideri.

Trova la tua corda

Oggi vi racconto un aneddoto della mia carriera di regista. Iniziai come assistente alla regia di un grande, purtroppo scomparso, regista: Marco Sciaccaluga, al Teatro Stabile di Genova.

Ciao, Marco.

Ero assistente alla regia di uno spettacolo molto complesso, con oltre venti attori, scenografie imponenti e, come protagonista, Mariangela Melato, grandissima attrice, anch'ella mancata.

Ciao, Mariangela.

Il ruolo dell'assistente consiste nel segnare tutte le note di regia, suggerire agli attori, e, se il regista lo ritiene abbastanza abile, gestire aspetti minori come scene di transizione, fonica, luci, eccetera. Ma il vero compito dell'assistente, a teatro, è imparare, ascoltare, comprendere e avere una visione globale della macchina teatrale per poi diventare, un giorno, un regista.

Io annotavo sul mio copione, un labirinto di frecce, disegni, note importanti, maiuscole, minuscole, testo sbarrato, riscritto - una stele di Rosetta persino per me. Consumavo matite senza sosta. Ma il peggio era che quasi ogni giorno le perdevo. Dentro di me, non riuscivo a spiegarmi come, quasi immancabilmente, mi ritrovassi a fine giornata senza la matita acquistata il giorno prima.

Non c'era verso. Spariva. La causa era semplice: avevo la testa per aria, molte responsabilità da seguire e la matita diventava il simbolo della mia disattenzione. La trascuravo, povera matita. Marco mi prendeva in giro per questo. Io, testardo, mi ripetevo di dovercela fare. Acquistai una matita più costosa, sperando nel suo valore come deterrente all'oblio, ma anche lì fallii, finché un giorno decisi di legarla al copione con uno spago di canapa.

Arrivai in teatro mesto, vedendo questa scelta come una sconfitta, poiché, nella mia mente, non ero riuscito a disciplinarmi a sufficienza da non perdere le matite. Ma Marco, entusiasta, mi disse: «Dovresti essere contento, hai trovato una soluzione. Che importa se non è perfetta come quella che avevi in mente. Funziona. Ora vai avanti, devi lavorare.»

Ecco, questo piccolo aneddoto fu uno scalino che mi allontanò, ripensandoci, da quel mio desiderio di perfezione interiore che mi logorava. Credevo che l'unico vero modo per non perdere la matita fosse disciplinare me stesso. Trovare un modo per piegare mente e corpo, per educarmi. Quella corda io la vedevo come un mero trucco per nascondere la mia manifesta incapacità.

Ma non era così. Quella corda era un modo per andare avanti. Per continuare il grande percorso, quello importante, quello di imparare a fare il regista. E perdendo sempre le matite, sarebbe stato più difficile.
Quando abbiamo un problema, a volte basta una toppa, una corda, un po' di nastro adesivo o un po' di colla, e si riparte, più forti di prima!

Sublimare le emozioni

Perché fare arte? Perché esprimersi?

È una domanda che non mi pongo spesso, ma ogni volta che lo faccio, sono costretto a vedere le mie fragilità. Le prime risposte - che non è detto che siano quelle giuste - sono che "lo faccio per un appagamento personale", "per esistere, per essere riconosciuto. Essere amato." Spesso si dice che gli artisti (gli attori soprattutto) siano vanesi, narcisisti. Spinti solo dal desiderio di apparire.

Ma è davvero così?

Forse no. Almeno, non tutti. Io ho capito che lo faccio per vivere e per sopravvivere. Per affrontare meglio quelle difficoltà che emergono durante la vita, con strumenti di consapevolezza diversi, più intimi, profondi, naturali. L'arte non solo affila tali strumenti, ma né genera di nuovi.

Recitare, per esempio, mi fa vivere dimensioni che altrimenti non conoscerei: "la vita di un altro", scrivere mi permette di indagare su di me, sul mio stato, sulla mia vita. In entrambi i casi, si tratta di sublimazione.

"Sublimare" è una parola stupenda, soprattutto se legata al marcio che dentro tutti noi giace. Come diceva De André: "Dal diamante non nasce niente, dal letame, nascono i fior." Sublimare è quella cosa che eleva il magma interiore a diamante pronto ad essere mostrato ed indossato.

Certo, quanto più piace quel diamante, quanto più ritorno economico l'artista avrà dal suo operato. Non nego che sia importante, per tutti, anche l'artista, l'inflazione è reale. Ma il guadagno attraverso l'arte è quella che si chiama una condizione necessaria, ma non sufficiente, almeno per me.

Io credo che l'arte debba curare l'anima. Portando chi ne fruisce e chi la esercita su un binario comune, in cui per vie quasi magiche, la sublimazione dell'artista permette al fruitore di individuare i propri nodi interiori, come uno specchio dell'anima. Perché solo così, individuandoli, si possono affrontare i demoni.

Come si può sconfiggere ciò che non si conosce?

L'artista si immola, cavia di sé stesso, e scava dentro di sé per esplorare l'inconscio, il subconscio, il noumeno, per trovare ciò che sobbolle tra i demoni e gli angeli, nella terra del sangue. E poi, con un principio che supera persino l'alchimia, ne fa piccole perle da restituire a coloro che avranno la pazienza e la voglia di fruirne.

Questo principio di ricerca, che nulla ha a che fare con la consapevolezza meditativa del conoscersi, ma più con la potente esperienza dell'affrontarsi e del plasmare con le proprie proiezioni qualcosa di manifesto, vero. Questo processo è necessario. Questo processo per me è arte.

Il resto, come direbbe qualcuno, sono solo canzonette.

La guerra dentro di noi

La guerra. La guerra non finisce mai. Tra i confini immaginari di una terra che ben si beffa di queste linee disegnate dalle scimmie, di risorse che sono di uno o dell'altro in base a chi ci arriva per primo, a chi ha più carri armati.

Ma oggi è della guerra dentro di noi che voglio parlare. Quella che ogni giorno ci confronta con i nostri desideri, le nostre paure. Quel dilemma infernale tra l'essere o l'avere, tra il "chi sono?" e il "chi voglio essere."

Come possiamo pretendere che milioni di uomini agiscano in pace, se non sono capaci di essere con sé stessi, in pace? In effetti, la pace interiore, quello stato quasi magico a cui molte religioni provano a far ascendere i loro proseliti, è un punto di partenza, un luogo in cui i ponti possono essere costruiti, in cui amori, unioni, e persino la morte e la malattia possono essere abbracciati senza contrasti, ma con accettazione.

L'artista, forse più di altri, vive questo contrasto quotidianamente, anche semplicemente per il fatto che la sua scelta di vita, spesso è ostacolata da coloro che gli vogliono bene, soprattutto all'inizio. É una vita difficile, quella dell'artista, una vita fatta di rinunce alle sicurezze, per inseguire la propria passione a scapito di molte cose, anche di relazioni, di amori, di guadagni sicuri.

Io sono stato fortunato, i miei genitori mi hanno sempre appoggiato nelle mie scelte, con un valore incrollabile che mi hanno ripetuto ad ogni angolo, ad ogni bivio della mia trama. "Qualsiasi cosa tu scelga, sappi che hai le spalle coperte, Flavio. Noi siamo qui." Ecco se dovessi indicare cosa rappresenta più di tutto per me l'amore genitoriale, direi che è proprio questa frase qui. Una frase che in un certo senso, mi ha appacificato con le mie paure, mi ha tranquillizzato. Mai, in tutti questi anni, ho necessitato di questo aiuto che mi fu sempre offerto, ma il fatto di sapere che fosse disponibile nel caso in cui ne avessi avuto bisogno, mi ha dato quella spensieratezza necessaria per andare avanti.

Spensieratezza.

Ecco una parola che ha una sua magia. Credo che molte guerre interiori, se ci fosse più spensieratezza, si scioglierebbero come neve al sole. Altro che trascendere, buddità o illuminazione. Un po' di spensieratezza e via!

Ma poi nasce in me un dilemma di cui ho già parlato. Ma se fossimo tutti spensierati, l'arte sarebbe davvero la stessa? Si dice che gli artisti diano il meglio di loro nei tormenti dell'anima, nella solitudine che li pone di fronte all'abisso esistenziale. Un artista spensierato non è forse come un violinista senza strumento?

Ecco, sta emergendo in me un pensiero: l'artista è il combattente di sé stesso. Perennemente in lotta contro i suoi demoni, le sue visioni. Proprio come coloro che, con visioni, paranoie e generalizzazioni, proiettano sul "nemico" tutto l'odio, tutta la paura, tutta l'ira che i loro demoni sopiti hanno covato senza trovare sfoghi.

Sfoghi. Ecco qua. Se è vero che l'artista vive di contrasti e lotte interiori, è anche vero che egli trova, proprio attraverso l'arte, una possibilità di sublimare il torbido che ha in sé, si sfogarlo. L'arte è un atto terapeutico per l'anima di chi la fa, e - se fatta bene - anche per l'anima di chi l'ascolta, la guarda, la sente.

Quando ero piccolo, e cominciavo il mio percorso di artista, guardavo con stupore i soldati al fronte. Nelle tende del deserto, tra proiettili e solitudini. Mi chiedevo come fosse possibile resistere in quell'inferno. E poi scoprii che molti di loro, proprio per non collassare sotto il peso della difficoltà, si tuffavano nell'arte. Nei libri, nei film, nella musica. Alcuni persino nella scrittura.

In quel momento, mi ho capito che l'artista e il soldato sono due facce della stessa medaglia. Due combattenti, uno dell'anima, l'altro della terra. Entrambi cercano la pace, entrambi attraversano territori pericolosi, ma in dimensioni contrapposte. Senza il soldato, la pace necessaria a far fiorire l'arte non ci sarebbe. Ma senza il sollievo dell'arte, i soldati avrebbero la vita difficile.

É un dialogo silenzioso, agli opposti dell'etica, della morale, e della visione del mondo.

Arte e guerra. Amore e morte. Fratelli distanti, eppure indivisibili.

Perdersi per trovarsi

Sono arrivato ad una conclusione, figlia dei miei anni di viaggio e di scoperta: Il momento più bello di una vacanza, è quando ci si perde. Non ho dubbi a riguardo e il motivo è semplice. Perdersi significa incontrare l'ignoto. É un momento di sospensione, ma anche di riscoperta di ciò che siamo diventati, un'opportunità per cacciare o fissare comportamenti, riflessi, echi di noi stessi.

Ma cosa significa perdersi? E cosa significa ritrovarsi? Noi siamo sempre noi, abbiamo sempre la possibilità di sapere chi siamo, eppure, come l'occhio che non vede sé stesso, siamo un mistero a noi stessi. É una condizione inesorabile e non possiamo, almeno di avere uno specchio dell'anima, vederci davvero.

Uno specchio dell'anima... un amico, una compagna, un'amante, a volte anche uno sconosciuto. Specchi sono gli incontri con la novità, che non può che avvenire nel momento in cui ci perdiamo, e che ci costringono a ridefinire ciò che siamo, ciò che ci piace, ciò che desideriamo.

Come sapete, ho cambiato molte volte scuola da piccolo. E ogni volta avevo l'opportunità di perdermi. Perdermi tra i lunghi corridoi, nelle nuove aule, ma anche tra i nuovi compagni, e anche, di rimando, in un nuovo me stesso. Essere un'ardesia vuota da scrivere agli occhi degli altri è un toccasana per tutti coloro che non vogliono avere etichette, che fuggono dai pregiudizi, che ambiscono ad essere altri.

Un mio caro amico, per trovare sé stesso, è dovuto fuggire dal luogo in cui era cresciuto, in Sicilia. Il motivo era - tra i tanti - che il crescere in quella città gli aveva imposto un'etichetta che era ormai più simile ad un marchio a fuoco che ad altro. Se l'individuo continua a crescere, perché legge, perché incontra nuove persone, perché si perde appunto, nell'ignoto, ha bisogno che gli si venga riconosciuta quella nuova identità, altrimenti, soffrirà.

Ma nei meccanismi degli uomini e della vita, vige l'omeostasi, che in poche parole è quella cosa per cui, quando arriva un cambiamento, gli organismi tendono a voler tornare alla situazione precedente, per una mera questione di sopravvivenza. Perché in buona sostanza, la vita sa che ciò che non conosce è potenzialmente pericoloso. E ciò invece che conosce, per via dell'esperienza acquisita, è sicuro. Da lì la famosa paura dell'ignoto.

La vita è allo stesso tempo refrattaria al cambiamento, ma soggetta ad esso tramite l'evoluzione.

Se un individuo cambia, perché in un certo senso è "illuminato", non è detto che la società attorno a lui sia capace di accettare quel cambiamento, proprio perché quel cambiamento costringe anche la società a trasformarsi.

Il cambiamento non cambia solo noi stessi, ma anche tutti coloro che ci circondano. Per questo motivo cambiare sé stessi vuol dire cambiare il mondo. Ecco perché Gandhi diceva: "Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo."

Perdersi, sotto questa ottica, diventa lo strumento che lava via i preconcetti, che stende una tela vergine sulla quale la nostra coscienza può ridisegnarsi. Perdersi è l'igiene dell'anima.

Quindi un giorno al mese, lasciamo stare il GPS, lasciamo stare i programmi, i "to-do", le preparazioni, i progetti e perdiamoci.

Perché solo così potremo capire davvero chi siamo davvero.

Il Consenso degli altri

Quanto conta il consenso degli altri?

Quante volte ci siamo ritrovati a pensare con la testa di qualcun altro? A me è successo tantissime volte. Anzi, penso addirittura che nei miei 44 anni, siano di più gli anni in cui ho scelto seguendo il consiglio di terzi piuttosto che il mio.

Ma le migliori scelte, quelle che hanno cambiato la mia vita, quelle le ho fatte senza il consenso di nessuno.

Ora che sono adulto, a pensarci bene, mi pare una vera follia non pensare con la mia testa. Ma è un discorso complesso, che nasce dalla formazione, dalla mimetica, cioè da come si crea l’apprendimento negli uomini. Il primo modo di imparare è per imitazione, quindi, in fondo, tutti noi cresciamo con un principio naturale che ha permesso alla vita di sopravvivere milioni di anni: "coloro che vengono prima di noi, hanno ragione su tutto." Il che è vero, e salva gli infanti da morte certa. Il fuoco brucia, nell'acqua si annega. Insomma, l'esperienza ha un suo valore intrinseco, è indubbio.

Ma quanti di noi sono poi riusciti a svincolarsi dal delegare tutto all'esperienza - che sia altrui o popolare- da abbandonare questo affrancamento della responsabilità?

Coloro che scelgono per noi non rimangono per forza i genitori, possono essere il compagno o la compagna, un fratello, una cugina, un amico, un influencer.

Ognuno di noi è vittima di questa trappola, poiché è insita nella crescita umana. Ognuno di noi è “programmato” per non pensare con la propria testa sin dall’infanzia, perché, da infanti, la nostra testa è vuota, priva di conoscenza.

Ma arriva un momento in cui la nostra testa ha il diritto di pensare per sé. Non solo il diritto, il dovere. La manifesta capacità di pensare meglio degli altri, soprattutto per quanto riguarda le nostre scelte, la nostra vita.

La vera crescita, il "secondo livello" se vogliamo, è liberarsi dalle voci interiori ed esteriori, liberarsi da quella ricerca di assenso e consenso per una scelta che temiamo di fare. Scegliere per noi stessi, prenderci le nostre responsabilità.

Come dice la Nike: "Just do it."

Applico questo metodo ormai da molti anni, da quando ho capito che molti di coloro che incontravo e che tuttora incontro, paventano conoscenze che sono in realtà pozzi di ignoranza, e si lodano di meriti che meriti non sono. Come dice un’altra pubblicità: “perché io valgo.”

Certo, valgo. Ma non solo. Sono fiero di prendermi le mie responsabilità e di dire, nel caso succeda il peggio: “Si, questa cazzata l’ho fatta io.” E anche, ovviamente “Sì. Ci sono riuscito ed è merito mio.”

Vi faccio questa domanda: quando chiedete consiglio a qualcuno riguardo ad una vostra scelta di vita, quella persona davanti a voi, ha dimostrato di saper fare meglio quella scelta di voi?

Se è "no", allora vuol dire che siete ancora intrappolati nella paura di prendere le redini della vostra vita. Se è "si", allora siete l’allievo che presto, spero, supererà il maestro.

E se invece non avete più nessuno a cui chiedere, perché nessuno è in grado di capire davvero la situazione?

In questo caso, il maestro siete voi.

In definitiva, il viaggio attraverso le sfide della vita ci porta ad affrontare molteplici pressioni esterne. Il consenso altrui, per quanto confortante, può diventare una gabbia se non impariamo a distinguere tra ciò che gli altri ritengono giusto per noi e ciò che veramente desideriamo. La vera libertà nasce quando siamo capaci di prendere decisioni autentiche, basate sulla nostra intuizione e conoscenza, piuttosto che sull'approvazione altrui. Se vogliamo vivere una vita soddisfacente, è essenziale imparare a fidarci di noi stessi e delle nostre capacità.

Perché la scelta più importante da fare è se vivere la nostra vita o quella di qualcun altro.

Un violento desiderio di rivalsa

Ho una teoria sull'artista, piuttosto complessa e alquanto contrastante.

Ho la sensazione che uno dei motori dell'artista, in generale, sia il desiderio sfrenato di essere amato. Un desiderio che penso nasca in età giovanile.

Spesso, lo si può vedere dalle biografie, gli artisti sono persone difficili, con passati turbolenti e anime fragili, complesse. Non penso sia una coincidenza.

Nel mio caso, credo di essere stato spinto da un desiderio di rivalsa, come di una lotta perenne con il mondo che mi circondava, con tutto ciò che pensavo potessero pensare gli altri. "Ce la farò" sembrava dire il mio costante produrre. "Nonostante tutto, nonostante so che pensate che non ce la farò, che non è possibile, che è da folli."

Ma perché? Come mai questa spinta?

Se dovessi fare un'analisi del mio passato, direi che proviene da una commistione di eventi e sensazioni. In parte viene da quell'essere cresciuto in una bolla dove cambiavo scuola e paesi, ma non può essere solo questo. Da giovane ero piuttosto effeminato, sia nelle movenze che nei tratti, almeno secondo gli standard maschili dell'epoca. E mi chiamavano "Frou Frou" e ricordo che subivo - per questo motivo - quello che ora chiamano bullismo. Non era bullismo scolastico, ma vacanziero. I miei genitori andavano sempre nello stesso villaggio ligure per le vacanze, e lì ho subito per molti anni, per molti mesi, questa forma di violenza.

Penso che sia questo che abbia alimentato il mio desiderio di rivalsa.

Ogni volta che facevo un film famoso, che diventavo protagonista di una serie conosciuta, c'era qualcosa in me che diceva "Ecco, ora quelli lì vedranno che non sono così come mi dipingevano, che sono bravo, che ce l'ho fatta". Ovviamente, non fui mai del tutto dissetato, perché per quanti successi avessi, quella non è una strada che porta alla vera sazietà, a un momento in cui si può dire "basta, ecco, sono contento".

Un altro fatto che ha alimentato il mio perseguire l'arte è quella sensazione di non essere all'altezza, quella sindrome dell'impostore che mi accompagna. Anche lei ha lati positivi e a volte, mi ha spinto a migliorarmi, a cercare angoli bui dove fare quello che gli altri non avevano mai provato a fare.

Ma ora? Ora che sono grande, non ho più bisogno di tutto questo. É come se tutti questi motori fossero diventati antiche zavorre, che sono ancora lì solo perché una parte di me non li vuole lasciarle andare, perché quella parte di me ha paura che senza quelle zavorre, non rimanga molto.

Ora però sento che è venuto il momento di accettare che non sono più quel ragazzino fragile che non sapeva bene con quale postura affrontare il mondo. Sempre ingobbito, dalla voce acuta, incerto su sé stesso e alla ricerca del consenso. Sento che è venuto il momento di affrontare la mia maturazione, sia come uomo che come artista.

É facile dirlo ora che sto lavorando come attore, che so che ho una base economica stabile che mi permette appunto di ragionare in questi termini. Ma nel momento in cui questa base venisse a mancare? Sarei davvero così spavaldo nei miei intenti? Riuscirei a mantenere la sicurezza necessaria per lasciare segni tangibili, coerenti e forti come artista?

Non ne sono sicuro.

Ecco... scrivendo mi rendo conto che la sicurezza nell'arte non è solo un motore che permette di investire nella propria arte, ma è anche una condizione di partenza per una fase più matura. Ho fatto le mie scelte, ho scelto di fare il paradiso delle signore proprio per avere una base economica solida per poter scrivere i miei prossimi libri con tranquillità.

Un lusso. A volte mi chiedo se la comodità non sia in realtà un velato handicap. Se la mancanza di difficoltà circostanti non renda l'arte prodotta troppo "morbida" e poco incisiva, non so se mi spiego...

Ho cominciato questa pagina con la premessa che forse l'arte nasce dal disagio, e che poi si sviluppa come uno strumento del desiderio per essere amato, ma quando l'artista raggiunge la maturazione, che sia economica o spirituale, allora la sua arte che cosa diventa? Qual è il suo posto in questa nuova esistenza?

E poi, esiste davvero una "fase matura dell'artista", oppure è solo un'illusione per ignorare che il tempo passa, e che i migliori anni - forse - sono dietro di noi?

Scrittura e Recitazione

Ho ricominciato a girare "Il paradiso delle signore". É incredibile come recitare mi influenzi l'immaginazione.

Spesso mi rendo conto che a forza di frequentare un personaggio, ne assorbo i desideri, le paure, che poi si riflettono sulla mia scrittura. Tancredi in questo periodo di Set sta vivendo delle esperienze molto forti, potenti, che rimettono in discussione tutta la sua vita. E vuoi per osmosi, vuoi per sensibilità, io faccio lo stesso con i personaggi che scrivo.  A volte mi capita addirittura di creare situazioni simili a quelle che ho affrontato sul set, come per proiettare altrove quello che ho vissuto "davvero". 

Questo comunicare di arti che passa dal mio corpo alla mia mente, al mio cuore, è una vera fortuna. 

Sto scrivendo assiduamente. Mi sto occupando della stesura di ciò che deve accadere in ogni volume della saga. Il primo volume è completo, il secondo volume era già chiaro, quindi facile. Gli altri tre hanno invece richiesto molta immaginazione per essere completati in modo da continuare a portare avanti la fiaccola dell'interesse. Sarà un esercizio di destrezza narrativa non indifferente, ma sono fiducioso, perchè mi sto divertendo un sacco a creare colpi di scena. E questo è un buon segno.

Nella saga dell'Anello di Saturno, il destino sarà al centro della poetica, una voce importante. Ovviamente, quando si affrontano le tessiture del fato, non si può non prendere in considerazione il libero arbitrio. Le scelte.

A volte, mentre sto per strada e cammino con le mie cuffie attraverso il flusso di persone che mi viene contro, mi chiedo come sia possibile che esistano così tante realtà tutte l'una vicina all'altra. L'umanità sembra un organismo multidimensionale, dove ognuno di noi ha desideri, paure, obiettivi, amici, parenti, storie e ambizioni diverse.

Eppure, siamo tutti collegati dalle scelte che facciamo quotidianamente. Il famoso "libero arbitrio".

Ma se dovessimo risalire alle origini di tutto - "La catena della colpa" come le chiama Kato - potremmo davvero parlare di libero arbitrio? Io non ho scelto il mio nome, nemmeno dove nascere, in che tempo vivere, in che corpo essere. Queste sono variabili che influenzano enormemente il nostro futuro.

Per esempio, nutro dubbi sul fatto che se non fossi cresciuto un bel ragazzo avrei fatto l'attore... Forse la vita mi avrebbe portato verso altri orizzonti. Forse mi sarei messo a scrivere subito. Oppure avrei studiato alla Bocconi. Oppure, oppure oppure… Non c'è fine all'immaginazione.

Sta di fatto che noi siamo il prodotto delle nostre scelte, ma anche di quelle degli altri. I miei personaggi, nella saga - ma anche nella Divina Avventura - sono spesso messi davanti a scelte critiche, cioè scelte che non permettono di tornare indietro. Trovo che siano determinanti per una buona storia. Poiché in quelle scelte si forgia e si definisce il carattere dei personaggi: Nelle azioni che conseguono.

Io credo più nell'azione che nella parola. Alla fine, i fatti parlano chiaro.

I due protagonisti dell'Anello di Saturno, che all'inizio sono poco più che adolescenti - giovani adulti come direbbero i professionisti - faranno scelte, vuoi per volontà, vuoi per destino. E queste scelte, ognuna di queste scelte, come il battito di una farfalla, avrà nel tempo degli effetti deflagranti.

E date che mi piace giocare con la magia, persino il destino sarà coinvolto...

Amore e Destino, due entità opposte che nella saga si dovranno scontrare, incontrare, conoscere, e chissà forse amare.

Come rinunciai alla mia cittadinanza

Sono nato nel '79, ero tra quelli che avrebbero dovuto fare il famigerato "servizio di leva". Riguardo a questo, voglio raccontarvi un fatto che mi successe. Una cosa piuttosto incredibile.

A 19 anni, tornato dal collegio in Francia, mi iscrissi alla facoltà di informatica di Milano. Passai alcuni esami, ma presto compresi che seguendo quel percorso non avrei mai realizzato il mio vero sogno: creare videogiochi. Una notte, guardando Rai 3 e vedendo gli attori divertirsi nella LIIT (Lega Italiana Improvvisazione Teatrale), decisi di tentare anche io. Cominciai con un corso serale e da lì entrai nella prestigiosa scuola del Teatro Stabile di Genova.

Vi dico questo perchè, dopo essere entrato allo Stabile, fermai gli studi universitari e i militari si fecero ben presto sentire, per chiamarmi a fare il militare. Io, ingenuamente, dissi che frequentavo un'altra scuola. Ma quando dissi che era una scuola "di Teatro", la loro faccia fu più che sufficiente a farmi capire che mi ero infilato in un vicolo cieco.

"La tua scuola di teatro non è riconosciuta per il rinvio del servizio militare." Mi dissero. Al che, avendo io all'epoca la doppia cittadinanza italo francese (sono Nato a Parigi, mio padre è italiano e mia madre è Francese) risposi con un "Va bene, allora vorrà dire che lo farò in Francia."

Dovete sapere che in Francia il servizio militare era stato cancellato! E quindi ero convinto di essere sfuggito alla ferrea disciplina militre. Ma alcuni mesi dopo, una telefonata mi gelò il sangue.

"Visto che non fai il militare in Francia, lo devi fare in Italia."

Impossibile chiedere un permesso. Impossibile chiedere un rinvio. Il mio sogno di recitare si stava per infrangere davanti ad una burocrazia morente! Ero l'ultima leva a dover fare il militare! Cosa potevo fare? Avevo davvero una scelta? 

Un avvocato mi disse che una soluzione c'era, ma non era molto semplice… avrei dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana. Avendone due, non sarei finito apolide.  Mi spiegò che avevo poco tempo, e che per farlo, dovevo andare all'ambasciata italiana di Francia, a Parigi.

Partii quindi da solo per Parigi e mi presentai all'ambasciata, vestito con una maglietta, un jeans i capelli arruffati e degli occhiali. "Voglio rinunciare alla mia cittadinanza italiana." dissi.

La segretaria mi guardò corrugando la fronte: "Va bene, puoi venire Giovedì prossimo." mi disse, fissandomi un appuntamento. 

Il giovedì successivo quindi mi presentai in orario, pronto a firmare qualsiasi cosa per poter finalmente seguire il mio sogno. Entrai nel grande ufficio dell'ambasciatore, con una grande scrivania di mogano, sopra il quale c'era un grande documento, un foglio di carta enorme, con scritto sopra una miriade di cose che non lessi, tanto il succo quello era.

"Dove devo firmare?" chiesi. L'ambasciatore (credo che fosse lui) mi indicò il punto in cui firmare, poi la segretaria aggiunse. "Dove sono i suoi testimoni?""

"I miei cosa?" chiesi frastornato dalla notizia.

"I suoi testimoni. Servono due testimoni."

Deglutii. "Urca, non lo sapevo." Sembravo un film di Pozzetto.

Uscii dall'ufficio e cercai se ci fossero persone disposte a farmi da testimone per rinunciare alla cittadinanza italiana. Trovai una gentile coppia che si offrì di aiutarmi.

Insomma, firmai, e il resto della storia la conoscete, divenni un attore in Italia, e partecipo attivamente alla crescita artistica del paese che adoro, purtroppo non come italiano, ma come uno straniero. 

Sembra un tema ricorrente della mia vita: sono straniero persino in casa mia.

Può l'Arte Resistere al Tempo?

Da giovane, collezionavo DVD. Avevo l'antologia dei miei due registi preferiti. Hitchcock e Kubrick. Possedevo tutti i loro film, che ho guardato e riguardato non so quante volte. I miei preferiti? Forse 2001 per Kubrick, anche se adoro il lento scorrere di Barry Lindon, e per Hitchcock, direi "Vertigo". Ma ognuno dei loro film è un capolavoro senza tempo.

Se dovessi scegliere tra Kubrick e Hitchcock, forse sceglierei Kubrick. Ammiro molto la sua capacità camaleontica di aver cambiato genere ad ogni film che ha affrontato. Sembrava deciso a vagare tra le trame dei generi e fare, di ogni sua opera, un mondo unico, che si aggiungesse al ventaglio incredibile di emozioni che aveva affrontato nei precedenti.

Solo Kubrick è stato capace di passare dall'incredibile comicità di Sellers in "Dr Stranamore" alla folle violenza di "Arancia Meccanica". Ogni suo film è un capolavoro che va preso quasi come una stella a sé stante, un universo a parte. Io ambisco a questo.

La domanda originale è però di tutt'altro sapore, quanto dura l'arte? Ha una data di scadenza? A volte mi fa paura il pensiero. Per esempio, guardo un capolavoro come 2001 che tratta di concetti alti, di antropologia, di filosofia, è lisergico, visionario, ma la parte nella base lunare, per quanto anch'essa visionaria, è figlia dei suoi tempi, della moda, della contemporaneità che si fa subito vecchia, antica.

Eppure, il film sopravvive al tempo, anzi, piano piano il suo valore, come i materiali nobili, aumenta. HAL, il computer intelligente che decide di uccidere gli uomini è più attuale di tanti cineasti moderni che vogliono parlare dei problemi dei nostri tempi. Certo, questo è dovuto allo scrittore del libro di Arthur C. Clarke, ma Kubrick ha saputo dipingerlo nel migliore dei modi e il film è il frutto di una collaborazione tra i due.

Kubrick ha dipinto HAL 2000 in maniera elegante, precisa, impietosa. Un occhio rosso che è diventato, nel corso del tempo, l'icona del grande fratello, di colui che tutto sa e tutto spia. Una presenza quasi divina, anzi - demoniaca.

Alcune case editrici dicono che un libro, passato i primi 6 mesi della sua uscita, è "vecchio". Davvero un libro ha una data di scadenza così terribilmente breve? Io voglio pensare che le parole scritte possano sopravvivere persino a colui che le ha immaginate, che possano solcare il tempo, surfare l'onda dell'evoluzione e parlare ai posteri, persino meglio che ai contemporanei.

Io sono certo che sia così, perchè quando rileggo i grandi filosofi greci, io vedo me stesso. Eppure loro non avevano il telefonino, l'intelligenza artificiale, l'elettricità. Eppure i pensieri sopravvivono. Per quale motivo? Penso che sia perchè i problemi fondamentali che affrontiamo, la morte, il divino, l'amore, il destino. Sono tutti temi che sono validi ora e lo saranno tra mille anni. Lo saranno fino a che rimarremo umani, finché saremo vivi.

Durante questo cammino verso il mio futuro da scrittore, ho incontrato molte persone, anch'esse appassionate dall'arte di narrare delle storie. Alla domanda "perchè lo fai?" quasi tutti mi hanno dato una risposta simile: "Voglio lasciare un segno, lasciare qualcosa."

In fondo, ciò che spinge l'artista a "fare" è questo: la speranza che quel suo gesto rimanga nel tempo. Che non abbia data di scadenza. Secondo voi l'artista è un illuso? Tutto prima o poi scompare oppure davvero coloro che sono toccati dalla grazia del mistero riescono a diventare immortali?

Vi aspetto nei commenti,

Quanto c'è di me in ciò che faccio?

Sono un romantico. Nel senso più stretto del termine, ciò non riesco a fare la differenza tra ciò che faccio e ciò che sono.

Lo sono così tanto che ho deciso di fare del mio lavoro la mia indole. Dell'arte la mia espressione. Questo approccio, così emozionante, fa si che una critica al mio operato come artista, spesso si ripercuota su di me come persona. Sono terribile ad accettare le critiche.

Poco fa ho scritto una pagina in cui parlavo di come fare delle critiche un punto di costruzione, un momento di opportunità per crescere. Ma in realtà io faccio fatica ad accettarle, perchè le prendo sul personale. Quando frequentavo gli Stati Uniti per promuovere la società di videogiochi che ho aiutato a fondare, e incontravo giornalisti per il videogioco che avevamo sviluppato, mi resi conto che questa caratteristica è molto comune negli italiani.

Addirittura è noto, nel mondo del lavoro statunitense, che gli italiani sono creativi, passionali e divertenti, ma hanno un grande difetto: prendono tutto sul personale. Gli statunitensi invece, così pragmatici, hanno ben chiara la delimitazione tra personale e lavoro.

Una critica lavorativa è esclusivamente mirata ad un certo aspetto della vita, quella del lavoro appunto. Da noi, una critica lavorativa rischia di finire con citazione di madri e insulti che farebbero rivoltare nella tomba i nostri avi in men che non si dica.

Quindi, alla domanda quanto c'è di me in ciò che faccio come artista, dovrei dire "tutto". Ciò che faccio è ciò che sono. Non c'è nessuna distinzione. I personaggi che scrivo sono frammenti di me, come pezzi di uno specchio rotto, che riflettono una parte più o meno sepolta del mio io.

Ogni volta che vengo attraversato da un sentimento o da un'idea, un agente dentro di me se la ricorda, ne prende nota. É un processo inconscio, al quale non faccio più nemmeno caso. Ma è come se sepolto sotto il mio io, ci fosse una valigia di ricordi, emozioni, sensazioni, che al momento giusto, mentre sono nella furia descrittiva di una scena, prendono il sopravvento e cominciano a riversarsi nelle pagine. A volte rimango stupito da quello che ho scritto, non perchè sia trascendentale o stupefacente in sé, ma perchè non mi sembravano idee o emozioni presenti al momento in cui posavo le dita sulla tastiera.

Per esempio, mi succede che nel recitare una scena, io venga travolto da qualcosa che in quel momento emerge in me, per via delle parole dette. Come se vi fosse un lato mio nascosto a me stesso, che attraverso il mio operato artistico si manifesta. Ricordo che quando girai cenerentola, mio nonno era mancato da poco. Alcune scene, che non erano legate al tema del lutto, furono invece delle valvole di sfogo durante le quali riuscii ad andare in un profondo contatto con questa parte ferita di me.

Oggi ho scritto una scena tra due personaggi del mio prossimo libro. Due donne sui 60 anni, Rosa e Flora. Entrambe con un bagaglio di odio e non detti lungo quanto una vita nei confronti l'una dell'altra. Mi aspettavo che dalla scena emergesse un'energia nervosa, violenta quasi. Un litigio almeno. Invece, le due donne hanno trovato un punto in comune nel loro dolore, qualcosa che poi le ha unite il tempo di un silenzio. E la scena si è conclusa con un invito a bere il tè e parlare. Non me lo aspettavo proprio. Chissà, forse significa che anche io ho bisogno di riappacificarmi? 

Personalmente, non penso che un artista possa distanziarsi a tal punto dalla sua opera da dire "è tutta tecnica". Almeno, io non vorrei diventare quell'artista. Penso che la tecnica, come ho detto più volte, sia necessaria, ma non sufficiente. Bisogna cedere qualcosa in questo scambio continuo con il lettore, con lo spettatore. L'essere umano riconosce l'autenticità. Siamo costruiti per essere i più abili e sopraffini analizzatori della realtà. Non ci facciamo fregare facilmente, almeno, non nel profondo. Per coloro che sono alla ricerca di un senso, di poesia, che hanno allenato il loro cuore a frequentare l'autenticità, non c è verso di fregarli: l'artista deve donare qualcosa di sé. Persino nell'arte concettuale.

Per me l'arte è fondamentalmente un processo romantico, la manifestazione empirica di un sentimento interiore ineffabile. Mistico, ma reale. E per voi, cosa è l'arte? Perchè c'è questa necessità di fruire e fare arte nel nostro mondo?

Il destino di un padre

Era notte. Mi trovavo in un villaggio medievale, un tipico borgo italiano in salita. Provavo una strana sensazione di vuoto, come se una parte di me si fosse allontanata, come se una solitudine straziante mi stesse aspettando. Potevo sentire i grilli e i miei passi sull'asfalto. Ero io, ma apparentemente più vecchio. Era un sogno, sebbene non ne fossi consapevole. I sogni, mentre li viviamo, spesso appaiono indistinguibili dalla realtà. Dentro di me c'erano tutti i ricordi preziosi che avevo accumulato durante la mia vita - la mia infanzia, la mia famiglia.

Mentre salivo il ripido sentiero di cemento, notai un'automobile, una macchina gialla antica, quasi fuori dal tempo, con il motore acceso. Dal tubo di scarico usciva del fumo. Era sul punto di partire. Avvicinandomi, realizzai che conoscevo chi era al suo interno. Era Elettra, mia figlia. Nonostante sapessi che era cresciuta, non potevo fare a meno di pensare a lei come una bimba di sei anni. Era alla guida dell'auto. Non la potevo vedere, ma sapevo che era lì.

Il motore aumentava di giri, era pronto per partire. In quel momento, mi resi conto che ero stato io a insegnarle a guidare, che avevo dedicato la mia vita al suo futuro, che le sue mani sul volante erano il risultato delle mie scelte, del suo amore, del suo desiderio di imitarmi, di seguire il mio cammino. E proprio in quel momento, mi resi conto di non averle insegnato a frenare.

"Non partire!" gridai. Ma in questo sogno, ero muto, ero solo con i miei pensieri, il mondo non era altro che una proiezione delle mie paure più profonde. La paura di perdere il controllo, la paura della perdita.

Mentre osservavo l'auto allontanarsi rapidamente, fui sopraffatto dalla disperazione per non averle insegnato a frenare.

Mi svegliai di colpo. Era ancora notte. Ero nel letto, l'aria condizionata era accesa, a 26 gradi, un clima confortevole. Mi alzai senza svegliare nessuno e mi diressi verso la stanza di Elettra. Il suo piccolo corpo addormentato sul letto era meraviglioso. Sembrava voler occupare tutto lo spazio disponibile, con le braccia larghe, le gambe distese e la bocca aperta. Mi avvicinai per guardarla meglio. Piccolo naso, occhi chiusi, guance così lisce...

"Un giorno crescerai, un giorno te ne andrai. Ma non sarà stanotte e nemmeno domani. Prometto che ti insegnerò a correre. Ma anche a frenare."

L'arte Cura l'Anima

Ieri ho ricevuto una recensione privata che mi ha molto commosso e che desidero condividere con voi. Ho anche altre domande riguardanti una diretta che voglio realizzare, e dato che questo è il luogo ideale per comunicare senza disturbi (quella famosa "chiarità di segnale" di cui parlo), ne approfitterò per scrivere qui.

Per ora, vi lascio con quello che la lettrice ha scritto riguardo a "La Divina Avventura":

"Un viaggio interiore che letto al momento in cui ne hai bisogno, ma che non sai di avere, ti porta a riflettere e a " guarire" delle ferite inconsce."

Queste parole mi hanno colpito profondamente, perché l'intento di questo libro era proprio questo: suscitare nel lettore una sorta di rinascita. Partendo dagli istinti della materia, cioè da quel giovane intrappolato dentro un carro armato a vivere di ricordi, così simile ai ragazzi di oggi chiusi dietro gli schermi dei loro telefoni, ho cercato di guidare il lettore verso le cime della gioia di vivere. Attraverso la crisi, certo, ma in questo caso, oltre al viaggio, direi che la destinazione conta molto. Quella frase, "Anche se non le vedete, le stelle brillano anche di giorno", riassume il percorso di Overton. Egli è riuscito, anche grazie alla tenace perseveranza di Kato, alimentata dall'illusione di un Dio che Dio non è (ma che quindi non è del tutto dannosa, poiché ha generato una nuova generazione di uomini), insomma Overton è riuscito a liberarsi dal suo passato e persino dal suo futuro. Overton non cerca più la perfezione, ma accetta che questa Divina Avventura sia un mistero per il quale, forse, dovremmo solo essere grati.

La vita di un libro è misteriosa, può richiedere mesi o addirittura anni per raggiungere la persona giusta. Quindi, come vi ho già detto, invece di limitarmi a seguirne il percorso, mi sono messo a scrivere il prossimo libro.

Mi avete già chiesto se sarà il seguito de "La Divina Avventura"... ma chi mi conosce sa che sono più simile a Overton che a Kato. Io guardo l'orizzonte, mi precipito verso nuovi mondi quindi sarà una nuova storia. Ma prima di dirvi di cosa tratterà, e non solo perché desidero coinvolgervi in tutto il processo creativo, sono curioso di sapere cosa vi aspettate.

Detto questo, nonostante l'enorme mole di lavoro che mi attende per il prossimo libro, ho deciso di continuare a pubblicare due post settimanali sul Diario D'artista. Questo per mostrare quanto mi importa di questo piccolo giardino!

A volte mi chiedo quale sia il ruolo dell'artista. Non credo che l'artista debba essere necessariamente politico, né etico o morale. Per me, l'aspirazione più grande è creare un mondo, una storia, con temi e personaggi che aiutino a curare l'anima di chi legge. Anche un semplice tocco gentile va bene. Credo che sia questo, almeno per me, la responsabilità dell'artista.

Per quanto riguarda il prossimo, prometto di fare tutto il possibile per superare me stesso.

PS: A che ora e in che giorno vi piacerebbe una diretta in cui rispondo alle vostre domande?

Come gestire le critiche costruttive per migliorare la creatività?

Come Gestire le Critiche in Maniera Costruttiva?

Questo è un argomento delicato, specialmente per i romantici, quindi se siete tra coloro che tendono a prendere tutto sul personale, allacciate le cinture perché si prospetta un viaggio sulle montagne russe.

La critica. Quella maledetta critica. Come diceva Alberto Sordi, "i critici che devono fà? devono criticà". Quindi, prima di tutto, se la critica proviene da una fonte affermata, da un vero critico, che capisce il processo creativo, egli merita tutta la nostra attenzione. Siamo qui per migliorare, questo è il primo punto da ricordare. Nessuno di noi è perfetto. E mai lo sarà, come vi direbbe Argo, uno dei protagonisti della Divina Avventura.

Pertanto, quando affronto un commento, una critica, cerco di avere l'approccio più costruttivo possibile. Leggo, analizzo, cerco i miei errori. È faticoso! È incredibilmente doloroso! Essere consapevoli delle proprie debolezze, delle proprie imperfezioni è per me fonte di grande frustrazione. C'è qualcosa dentro di me che anela solo all'applauso, lo desidera intensamente. Quando recitavo accanto a Mariangela Melato in Madre Coraggio e i suoi figli, mi colpiva sempre il suo desiderio finale di applausi. Aveva bisogno di quell'approvazione, era il motivo del suo essere lì. Ecco, penso che molti artisti siano attratti dal conforto dell'applauso. Ma dobbiamo cercare anche la critica, perché è lì, come direbbe Overton, che si trova la crescita. L'ignoto.

Tuttavia, c'è un ma.

In questo nuovo mondo, in questo forum collettivo dove ognuno è sia produttore che consumatore di informazioni, cioè internet, tutti hanno lo stesso valore. Siamo tutti uguali di fronte al temibile algoritmo! Ogni opinione è valida, ogni giudizio è valido e non può essere messo in discussione. Ma è giusto? Valiamo davvero tutti allo stesso modo? Direi di sì, se tutti fossimo sinceri e non ci si mettesse di mezzo l'aspetto più Macchiavellico dell'essere umano. Quel "mors tua vita mea" che sembra alimentare alcune persone.

In quel caso, l'opinione del recensore non nasce dal desiderio di esprimere un punto di vista, ma da quello di manipolare il lettore. Dicendo non ciò che pensa, ma ciò che vorrebbe che gli altri pensassero. Una forma di manipolazione in cui usa quel poco di autonomia che gli è rimasta per ferire l'autore e sentirsi, per qualche istante, importante, prima di essere nuovamente dimenticato e precipitare nel baratro della frustrazione. Ho ricevuto una recensione simile poco fa, al lancio del libro. Penso che sia un rito necessario e inevitabile.

Inoltre, e questo vale per gli scrittori su Amazon, avere critiche negative è molto utile, perchè danno credibilità a quelle buone. Quindi, ben vengano le critiche negative!

Come dice Jeff Bezos: "nella creazione di Amazon, non ho mai pensato alla concorrenza, ma solo al cliente." Parafrasando questa affermazione capitalista, nella mia carriera poliedrica, non ho mai pensato alla concorrenza, ma sempre allo spettatore. A voi. Quello è l'unico legame che mi interessa.

Le recensioni del libro stanno arrivando e sono eccezionali. Io non posso che ringraziare ciascuna/o di voi che mi ha lasciato meravigliose parole. E approfitto di questo spazio per fare un cenno a chiunque non l'abbia ancora lasciata di farlo. Perchè sarà d'aiuto al libro per farsi conoscere:

Detto questo, concluderò con un consiglio che mi diede uno sceneggiatore Hollywoodiano che incontrai a Los Angeles, durante una festa a Venice Beach. "Il metodo dell'hamburger". Quando vuoi fare una critica, usa il metodo dell'hamburger. Tre strati. Un complimento/Una critica/Un complimento. In questo modo, chi ti ascolta sarà più incline ad accettare la critica.

Come Affrontare il Vuoto Post-Creazione?

Non posso fare altro che iniziare questa settimana del "Diario D'artista" parlando del lancio del mio libro.

Venerdì, finalmente, "La Divina Avventura" è stata pubblicata. È ufficialmente fuori dal mio controllo ed ora si trova nel limbo dei libri: quelli scritti ma ancora non letti. È in una sfera d'ignoto che contiene ogni possibilità, ogni successo e ogni fallimento.

Solo l'idea che qualcuno, in questo preciso momento, stia leggendo per la prima volta quelle parole che ho coltivato, cresciuto e selezionato con tanto impegno, mi fa battere il cuore. Pensare che ormai questa storia è scritta, conclusa, incisa per sempre nel tempo mi riempie di gioia. Sì, è vero, ha le sue debolezze, le sue fragilità. Possiede forse l'ingenuità di un'opera prima, ma porta con sé anche l'entusiasmo, la leggerezza e soprattutto, un messaggio.

Sapere che ora anime sconosciute (e non) stanno per comprendere questo messaggio è sinonimo di profonda felicità e gratitudine per me.

Ma come ogni medaglia che si rispetti, c'è un rovescio. L'artista, dopo aver creato, si trova a confrontarsi con quella che io chiamo "la bolla di vuoto": quel momento post-creazione in cui non c'è più nulla, solo il vuoto. Molto simile a quella fase della vita in cui il figlio è andato via di casa e ora la sua stanza, tutta addobbata, che conserva ancora il suo profumo, ha perso la sua funzione primaria.

Scrivere La Divina Avventura mi ha tenuto compagnia per circa 18 mesi, occupandomi la mente, l'anima e il cuore. Fino a saturare ogni parte di me. Non avevo più spazio per altro. Non volevo più spazio per altro. Era puro amore, totale, incondizionato. Solo così riesco a toccare le mie corde più intime, solo così riesco a commuovermi nella scrittura di un paragrafo. Solo così posso immaginare un evento, o trovare un significato alle mie stesse parole. E ora, tutto questo non c'è più. Ora, questi pensieri, queste idee, queste emozioni, devono vivere di luce propria, devono camminare con le proprie gambe. Io ho fatto tutto quello che potevo, come ogni genitore premuroso. Avrò sbagliato da qualche parte, e da qualche altra avrò fatto la cosa giusta. Ma ora, caro libro, il mondo è tuo. Vai, corri verso i tuoi lettori, persegui il tuo scopo, scuoti le loro anime, fai vibrare i loro cuori e crea quei meravigliosi ponti tra l'autore e il lettore.

Ma io? Cosa dovrei fare io, ora che mi hai lasciato solo? Ti vedo lì, sulla mia scrivania... con la tua copertina che raffigura una barca, il mare e torri nere. Mi dispiace, ma non riesco più a leggerti. Non perché non voglia, so che ci sono refusi qua e là, so che sei imperfetto. Ma, come dici tu stesso ad un certo punto: l'imperfezione è bellezza. Un giorno, forse, correggerò i tuoi piccoli difetti, che ti donano quell'aura di inizio, di principio, ma se devo essere onesto, per ora mi piaci così come sei.

Credo che mi godrò quel sano vuoto che segue la creazione e mi preparerò per il prossimo viaggio. Nel silenzio troverò terreno fertile per nuove semine, che daranno vita a un nuovo raccolto.

L'ho già anticipato, il prossimo libro parlerà di Amore e del Tempo. Il tempo tiranno, il tempo che passa, il tempo che fugge e l'amore, sempre l'amore.

La gioia del fallimento

"Fallire è la prerogativa dei migliori." Avete mai sentito questa frase?

Il successo nasce dagli errori. E non uno. Nemmeno dieci, ma innumerevoli: bisogna fallire finché non si coglie la corretta via. E questa potrebbe essere dietro l'angolo oppure oltre l'orizzonte. Attraverso i fallimenti impariamo a progredire e progredendo, impariamo a gestire le sconfitte, finché un giorno, dopo aver esplorato ogni possibilità, ci si trova a volare. La strada della conoscenza è un sentiero costellato di esperienze non andate a buon fine, poiché l'esperienza stessa altro non è che l'equilibrio tra l'informazione acquisita e il tentativo di applicarla, in un eterno ciclo di feedback.

Lasciate che vi racconti la mia vita.

É stata una serie di tentativi e fallimenti, in gran parte artistici. Iniziai a suonare il violino a 8 anni e smisi a 12, quando mi confrontai con una giovane prodigio che schiacciò, con il suo talento, ogni mia velleità "Paganiniana". A lenire il dolore ci pensò il mio primo computer, regalatomi da mio padre, un informatico nell'era degli anni '80. Arrivato in collegio, intrapresi la chitarra, ma non riuscii ad eccellere nemmeno lì. Strimpellavo. A scuola non brillavo, anzi, mi hanno addirittura bocciato. Poi, una volta tornato in Italia, intrapresi gli studi in informatica all'università, ma anche lì, il percorso non mi si addiceva. Fu allora che scoprii il teatro, dove trovai una certa facilità nel fare ciò che mi veniva richiesto con risultati più che discreti.

Dopo aver messo da parte qualche soldo lavorando per l'ex marito di mia sorella come cameriere durante l'estate, produssi il mio primo spettacolo teatrale, che, pur andando in perdita, mi aprì le porte della regia al Teatro Stabile di Genova. Li scrissi e diressi altri tre spettacoli, l'ultimo dei quali fu talmente controverso da offendere così tanti che mi fu chiaro che quello non era più il posto per me. Andai a Roma dove girai film famosi e serie tv popolari. Spesi i soldi guadagnati per dirigere tre film indipendenti, che potete vedere gratuitamente sul mio sito QUI. Non guadagnai nulla, se non sicurezza e conoscenza.

Poi, non avendo trovato nessuno disposto a investire in me, decisi di investire tutto ciò che mi rimaneva in un progetto audace: un videogioco in realtà virtuale. Fortunatamente, trovai persone competenti con cui fondai "Untold Games", che ora è una delle più importanti realtà di gaming in Italia.

Oggi, come molti di voi sanno, ho deciso di cimentarmi nella scrittura di romanzi - e non solo - visto che mi pubblico da solo. Insomma, non smetto di cercare i muri dove sbattere la testa!

Guardandomi indietro, vedo una strada costellata di fallimenti, sì, ma vedo anche lezioni di vita inestimabili, vedo la gioia di seguire le mie passioni, e ricordo amici che non vedo più ma che sono e saranno per sempre nel mio cuore. Non importa quanto sia difficile perseguire i propri sogni, farlo è un'avventura degna di essere vissuta.

Recentemente ho avuto una conversazione con un mio amico che, dopo aver venduto la sua azienda per una somma straordinaria, a cena mi confidò: "Flavio, non so cosa fare ora." In effetti, mi chiedevo anch'io: cosa fai quando hai la possibilità di fare qualsiasi cosa, ma ti sembra di non avere più niente da fare? Gli risposi: "Ricorda quello che desideravi fare da bambino e fai proprio quello." Sorrise, e ancora oggi, quando ci incontriamo, mi ringrazia per quel consiglio.

Segreti e Tecniche di un Attore

"Dove risiede l'ispirazione?"

Ricordo il mio primo anno di recitazione presso la Scuola di Genova. Ci venne affidato l'incarico di apprendere un testo a scelta tra tre opzioni: un estratto di un libro, una favola e un testo legale. Mi toccò un passaggio del "Mein Kampf", un estratto difficile che richiedeva un'intensa energia per essere declamato. Lì, dovevo interpretare le deliranti idee di Hitler sulla gioventù sportiva.

Un giorno, salii sul palco e, prima di iniziare, attesi. Diversi secondi trascorsero prima che la mia insegnante mi esortasse: "Cosa stai facendo? Stai aspettando l'ispirazione? Devi recitare." Ancora oggi quelle parole echeggiano in me come un monito. Certo, serve l'ispirazione, ma bisogna anche agire, agire e ancora agire. Niente genera più ispirazione dell'atto di creare. È una sfida agonistica, il sudore dell'anima, la mente che si riscalda fino a incendiare i pensieri, dimenticando i propri problemi per accedere a quel misterioso luogo dove nascono le idee.

Non è tanto una questione di dove si trova l'ispirazione, ma piuttosto di come la si cerca. Credo che si trovi nell'atto, nel gesto. Ogni arte ha il suo gesto, strettamente legato al suo strumento. La parola per l'attore, La penna o la tastiera per lo scrittore. Lo strumento musicale per i musicisti, il disegno per l'architetto e così via.

Un altro elemento fondamentale è: "Non fidatevi dei pensieri generati in una stanza chiusa." Non potrei essere più d'accordo. Camminare all'aria aperta, con il mondo che scorre al ritmo dei nostri passi, è un incredibile stimolo per la creatività. Camminare favorisce la circolazione del sangue, in modo più dolce e organico rispetto all'esercizio in palestra. Ci permette di interagire con il mondo che ci passa davanti. Da piccolo mi divertivo a immaginare che non ero io a camminare, ma il mondo sotto di me a ruotare. Amo camminare, come mia nonna che lo ha fatto fino a quando le è stato possibile. Più invecchio, più noto che le persone longeve sono solitamente grandi camminatori. Non credo sia una coincidenza.

Camminare era una prerogativa anche degli antichi greci, maestri di filosofia, etica e morale. I "Peripatetici", studenti di Aristotele, erano così chiamati perché il filosofo insegnava mentre camminava nel portico del Liceo, la scuola da lui fondata ad Atene. I filosofi erano grandi camminatori, ed è comprensibile, perché è camminando che arrivano le idee migliori.

Un'altra fonte di ispirazione sono le persone che ci sono vicine, che conosciamo bene e che possono guidarci o servire da esempio. Vi rivelerò un segreto: ho sempre "studiato" i miei genitori in tutto. Volevo capire in cosa eccellevano e in cosa avrei potuto migliorare rispetto a loro, magari evitando i loro errori o le loro distrazioni. I nostri modelli, che siano i genitori, persone famose, amici, rappresentano una grande fonte di ispirazione.

Infine, ci siamo noi stessi a fungere da fonte di ispirazione. Tuttavia, questo è un tema che potrebbe generare un intenso dibattito. Credo che, crescendo e avvicinandoci alla fine della nostra esistenza, abbiamo via via l'opportunità di diventare il riferimento per noi stessi, ma si tratta di un percorso lungo e graduale che non può - e non deve - escludere il mondo esterno.

A volte, mi guardo allo specchio e quasi non mi riconosco, perché è da tanto che non mi osservo veramente. Notando una ruga, un sorriso, un volto più scavato, mi viene da ridere. Mi chiedo: chi è davvero quella persona che vedo di fronte a me?

Spero di non scoprirlo mai del tutto, per avere sempre l'opportunità di incontrare me stesso ogni tanto e chiedermi come sto.

La favola di Gianni

Lasciate che vi narri la storia di Gianni, un bimbo con i riccioli aurei, ancora abbastanza piccolo da essere cullato tra le braccia dei suoi genitori quando il sonno lo assaliva.

Gianni, durante le lezioni scolastiche, ascoltava la voce della sua entusiasta maestra, ma non ne decifrava completamente il significato. Lei gli aveva detto: "Ricorda, Gianni, nella vita esistono porte piccole e porte grandi. Le porte grandi accolgono un gran numero di persone, mentre quelle piccole, al contrario, ne accolgono poche. Scegli la porta piccola e scoprirai il mondo."

Gianni proseguì la sua esistenza con la sua solita allegria e leggerezza, dimenticando queste parole sagge e criptiche della maestra. Tuttavia, il seme piantato nel suo cuore cominciò a germogliare durante i suoi anni del liceo, quando Gianni, probabilmente guidato da quella frase dell'insegnante, iniziò a riflettere in maniera autonoma.

Quando avvertiva che tutti erano in accordo su un argomento, in modo quasi istintivo, Gianni cercava la porta piccola, quell'opinione che nessuno condivideva o conosceva. Stimolato dalla curiosità, Gianni si avventurava nelle intricate vie del mondo, alla scoperta dell'invisibile, dell'ineffabile. Questa ricerca lo riempiva di gioia, poiché lentamente Gianni comprendeva che la verità non è sempre quella che ti fanno credere, che ciò che è considerato "giusto" o "sbagliato" non si trova necessariamente dietro la porta grande.

Al contrario, spesso si trovava dietro la porta piccola con la realizzazione che, in un certo modo, il mondo stava cercando di ingannarlo.

"Perché?" si chiedeva Gianni. "Perché dalla porta grande continuano a giungere messaggi pacifici, uniformi, accomodanti, ma spesso ingannevoli?" Gianni non riusciva a trovare una risposta. "Perché la gente, come un gregge privo d'anima, si riversa in quel portone senza fare una piega, senza mettere in dubbio nulla?" Queste riflessioni tormentavano Gianni, che ora, trasformatosi in un giovane adulto, aveva fatto della sua passione il suo mestiere, proprio grazie alle sue decisioni.

"Non potrai mai vivere decentemente con la passione! La passione non mette il cibo sulla tavola! Trova un vero lavoro, come gli altri!" Questo è quello che gli dicevano coloro che sceglievano la porta grande. Ma Gianni, invece, aveva fatto un tesoro della sua passione. L'aveva nutrita con amore, l'aveva sviluppata con orgoglio. E da quel piccolo seme che era la sua arte, crebbe un albero sempre più prezioso, sempre più unico. Un albero che, ad un certo punto, quando Gianni divenne un uomo maturo, fu esibito proprio nella sala della porta grande.

Grande fu lo stupore di Gianni quando tutti quelli che prima lo ignoravano, ora lo acclamavano. Gianni si ritrovò un uomo apprezzato, un "maestro", come si dice.

Potreste pensare che Gianni, dopo una vita di solitudine, accompagnato solo da rare connessioni con anime affini (quelle che come lui sceglievano la porta piccola), ora avrebbe trovato la felicità. Ora che finalmente aveva raggiunto il successo, finalmente sarebbe stato felice.

Ma il successo, come suggerisce la parola stessa, è qualcosa che è già "successo". Il successo appartiene al passato, è dietro di noi, dietro a Gianni. E così, Gianni, solo in mezzo alla folla, con lo sguardo lucido di fronte alle espressioni emozionate dei suoi ammiratori, si rese conto di aver percorso anche lui la via della porta grande.

Fu pervaso da una tristezza profonda, sentì di aver fallito nel suo ruolo di pioniere, di guardiano del nuovo, dell'ignoto. Era un albero maestoso, e ora era questo il suo destino? Era venuto il momento di accontentarsi? Era venuto il momento di fermarsi e di gioire, finalmente, di quella porta larga e comoda che accoglieva chiunque?

Gianni sapeva che se fosse rimasto immobile lì, in mezzo alla folla che lo acclamava, sarebbe presto diventato l'ombra di se stesso. La vita lo avrebbe superato. Sarebbe diventato obsoleto. No, non poteva permetterlo.

E così Gianni, con la schiena curva e i capelli ormai ingrigiti dal tempo si allontanò silenziosamente dalla sala in cui tutti lo ammiravano. Salutò i suoi amici con discrezione e annunciò che non sarebbe tornato, ma che, se avessero deciso un giorno di varcare la porta stretta, lui li avrebbe accolti con amore e gioia.

E fu così che Gianni scomparve, lasciando dietro di sé scintille di meraviglia.

Chi sono io?

"Chi sono?" Vi siete mai fatti questa domanda? Io lo faccio costantemente. Sono un esistenzialista nell'anima. Quando scrivo, è come se lentamente mi guardassi allo specchio e la mia immagine diventasse sempre più chiara. Le mie paure inconsce e i miei desideri emergono dalla scrittura e grazie a voi che mi leggete e ai vostri commenti, diventano evidenti. Riflettendo su ciò che scrivete, ho riconosciuto alcuni temi ricorrenti nei miei pensieri e nelle mie parole: la fuga, la sensazione di non appartenere. Costruisco la mia casa con i mattoni che mi fornite voi, con i vostri commenti.

Pensando alla mia inarrestabile ricerca di qualcosa di diverso, ho cercato di capire perché sono fatto così. Chi sono?

La mia infanzia è stata colma d'amore da parte dei miei genitori, ma anche piuttosto movimentata. Ho viaggiato molto, cambiato scuole più volte di quante  un bambino possa contare sulle dita. E quando le dita non bastano più, è doloroso, perché ci si sente soli. Ci si crea un mondo personale, si trova rifugio nei libri e nei videogiochi, si teme l'altro, non per diffidenza, ma per paura che anche quella persona, prima o poi, finirà nell'album di ricordi di viaggio. Sono cresciuto vagabondo. Mi paragonerei a una "pianta in un vaso" , senza radici nel terreno. Il vantaggio è che, spostandosi da un terrazzo all'altro, si possono ammirare diversi tramonti, esperire soli di diverse intensità, piogge forti o leggere. Si gusta la diversità del mondo. Ma le radici rimangono nel vaso, non si connettono a quelle delle altre piante intorno. Si cresce forti e rigogliosi, ma soli.

Ognuno di noi ha la vita che gli è stata assegnata. Ieri ho ricevuto un'email molto toccante da una signora che mi segue. Descriveva la sua situazione difficile. Molto difficile. Mi ha stretto il cuore. Non avendo parole o soluzioni da offrire, le ho scritto un breve messaggio di incoraggiamento. Mi sono sentito così superficiale nel confortare una persona che potrebbe avere il doppio della mia età. Chi sono io per dire "Andiamo" o "La vita è bella", quando della vita ho conosciuto principalmente la fortuna? Certo, conosco i miei angoli bui, ma a volte penso che siano fin troppo illuminati.

Sì, sono fortunato.

Tuttavia, se riusciamo a guardare oltre noi stessi, siamo tutti fortunati. Siamo fortunati a vivere in Italia, o meglio, in Europa. Un paese che non ha vissuto una guerra per quasi 80 anni. Un paese che aiuta chi è in difficoltà, che accetta diverse fedi religiose, agnostici, atei. Un paese con una storia millenaria. Siamo fortunati a essere nati qui. Ma se allarghiamo ulteriormente la nostra visione, siamo fortunati semplicemente a essere vivi. Il processo di fecondazione che chiamiamo "amore" è un campo di battaglia. Per la nascita di ciascuno di noi, milioni di spermatozoi hanno incontrato un destino negato. Solo uno ha trionfato. Uno solo. Siamo i vincitori della lotteria della vita. E per questo, dovremmo essere grati per le sofferenze, le delusioni, le gioie, i ricordi e tutto ciò che il tempo e lo spazio ci donano incessantemente.

La mia esistenza è un mosaico di luoghi, persone e esperienze. Tutti pezzi unici che insieme creano il quadro della mia vita. C'è tristezza e gioia, solitudine e compagnia, ma attraverso tutto, c'è la scrittura. Il mio specchio, il mio rifugio e il mio mezzo per esplorare chi sono.

È un viaggio costante alla scoperta di noi stessi, e ogni giorno è una nuova opportunità per leggere e scrivere la propria vita. Quindi non smettiamo di farci domande, di cercare risposte, di riflettere sulla vita e sulle esperienze. Continuiamo a viaggiare, a sperimentare, e  a imparare.

Il Paradiso delle Signore

Tra poco, precisamente martedì, mi aspetta l'atteso fitting dei costumi per "Il Paradiso delle Signore". Dopo aver terminato le riprese a fine gennaio 2023, il periodo da gennaio a maggio è stato intenso e proficuo. Ho avuto modo di lavorare su molteplici progetti: l'implementazione di un nuovo sito web, la creazione di questo audio blog, il completamento della "Divina Avventura" e  la creazione di una campagna pubblicitaria per annunciare la mia nuova carriera. Ho anche girato un film per la TV con Cristiana Capotondi su Margherita Hack. Fortunatamente, sono riuscito a fare molto.

Ieri ho anche terminato la stesura del "trattamento" per il mio prossimo libro. Un trattamento è un documento dettagliato che descrive gli eventi di ogni capitolo del libro. In questo caso, sono 18 pagine di "sintesi" che però contengono l'essenza di ciò che verrà sviluppato, dalla psicologia dei personaggi, ai loro archi narrativi, ai luoghi e agli eventi. Insomma, è la "trama" del romanzo. Era fondamentale terminare questo documento prima di tornare sul set del "Paradiso delle Signore".

Questa è una foto della prima pagina, del primo pdf che ho ricevuto per la prossima stagione de "Il paradiso delle signore". Si comincia!

Recitare ne "Il Paradiso delle Signore" è un'impresa impegnativa. Ci sono giornate in cui dobbiamo preparare 8/9 scene a memoria, un lavoro che richiede una preparazione mnemonica intensa. L'anno scorso, mi sono prefisso l'obiettivo di arrivare sul set sapendo tutte le mie scene a memoria, senza improvvisazioni. Il mio personaggio, Tancredi, è ricco di sfaccettature, preciso, dotato di un'eccellente dialettica e di una psicologia complessa ma chiara e coerente. Sono molto soddisfatto del risultato, e nonostante sia un personaggio negativo, sono entusiasta di interpretarlo nuovamente quest'anno e di scoprire insieme agli autori cosa succederà.

Martedì prossimo, dunque, ci sarà la prova costumi, l'occasione per vedere i vestiti, i colori selezionati e gli oggetti che il mio personaggio avrà con sé. Mi farebbe piacere ascoltare i vostri suggerimenti: quali colori vi piacerebbe vedere su Tancredi? C'è un abito o un'immagine che vorreste condividere con me? Prometto di portarli al costumista e di discuterne con lei. A volte le intuizioni esterne possono essere molto utili. Scrivete nei commenti.

Subito dopo la prova costumi, alla fine di maggio, riprenderemo le riprese. Saranno mesi impegnativi, durante i quali non solo lavorerò duramente sul set, ma dovrò anche affrontare l'effettiva pubblicazione del libro su Amazon. Molti di voi stanno attendendo la versione cartacea per effettuare l'acquisto. Per completare la versione cartacea, devo prima finire l'ultima revisione con Federico, il mio editor. La data di pubblicazione è prevista per il 16 giugno, e poiché la stesura definitiva non è ancora stata completata, potete immaginare quanto stiamo lavorando a ritmo serrato. Ma ne usciremo a testa alta.

Questo non è un momento di bilanci, ma un momento di speranze per il futuro. E il mio futuro è chiaro: voglio continuare a scrivere  per voi, grazie al vostro aiuto spero di incontrare nuovi lettori che possano apprezzare la mia scrittura, e ho l'ambizione di crescere questo spazio dove è possibile dialogare con i lettori. Migliorare e crescere insieme a voi, per portarvi in luoghi che solo gli Hu-ga di questo mondo possono raggiungere.

PS: (Se non sapete chi è Hu-ga, ecco il link alla favola. Ho sentito dire che verrà letta a una classe di bambini di 10 anni. Spero che qualcosa di questo spirito di esplorazione dell'ignoto e di condivisione rimanga nei loro cuori.)

Pensare in due lingue

Una delle domande più comuni che si pongono a chi parla due lingue è: in che lingua pensi? La risposta non è così semplice come potrebbe sembrare. In questo articolo, vi racconto la mia esperienza personale nel padroneggiare due lingue e come questa abilità ha influenzato il mio pensiero e il mio modo di essere.

Sono di madrelingua francese, e mio papà è italiano. Ho imparato il francese per primo, e poi l'italiano quando mi sono trasferito in Italia all'età di 8 anni. Il processo di apprendimento di entrambe le lingue non è stato affatto semplice, ma mi ha permesso di conoscere due culture diverse e di imparare a navigare tra di loro.

Quando ci trasferimmo in Italia, frequentai prima la scuola francese di Milano, l'istituto Stendhal. Tuttavia, non imparavo l'italiano, quindi, per risolvere il problema, i miei genitori mi iscrissero alla scuola pubblica italiana sotto casa, in Viale Zara. Questa scuola aveva la particolarità di accogliere nelle sue classi studenti con disabilità uditive o con disturbi dello spettro autistico. Gli anni trascorsi in questa scuola sono stati meravigliosi e mi hanno permesso di conoscere due maestre eccezionali, Adele e Laura, che mi hanno insegnato la meravigliosa lingua italiana.

Durante il mio tempo alla scuola pubblica italiana, ho stretto amicizia con un ragazzo con disabilità uditive di nome Giampiero. Quindici anni dopo, ricevetti una telefonata da Giampiero: riusciva a sentire e parlare al telefono! Sentirlo parlarmi di quello era successo in questi anni di distanza mi colmò di gioia e mi fece anche capire quanto sia importante la comunicazione nella nostra vita quotidiana.

Dopo aver imparato l'italiano e aver dimenticato un po' il francese, tornai allo Stendhal. Qui, iniziai a mescolare le due lingue, creando una sorta di lingua di transizione tutta mia. Alla fine, le due realtà si divisero dentro di me e anche i due aspetti psicologici. Le lingue riflettono infatti l'identità di un popolo, il suo modo di pensare e ciò a cui attribuiscono importanza. I francesi tendono ad essere radicali, razionali e logici, mentre gli italiani privilegiano il piacere, la seduzione e l'emozione. Descartes. De' core. Questa dicotomia mi ha aiutato a capire chi sono io e come le mie radici biculturali abbiano contribuito a formare la mia identità.

La domanda finale è, quindi: in che lingua penso? Nei sogni, sogno in francese o in italiano? La risposta non è semplice. Per come la vedo io, il pensiero non ha una forma precisa e non esiste se non nel linguaggio astratto della nostra mente.

Il linguaggio è uno strumento di comunicazione esterna che ci permette di esprimere i nostri pensieri agli altri in modo comprensibile. È un traduttore del pensiero. Di per sé, il pensiero, se rimane all'interno del nostro cervello, non ha una forma necessariamente legata alla lingua di chi lo produce. Solo quando dobbiamo comunicare con qualcuno, siamo costretti a esprimere i nostri pensieri in una lingua piuttosto che un'altra.

La lingua del pensiero: Se devo dare una risposta alla domanda iniziale, direi che penso in "pensese", una lingua immaginaria che simboleggia la lingua del pensiero e che ci unisce tutti come esseri umani. Il "pensese" è la lingua dell'anima, e tutti noi la parliamo fin dalla nascita.

Per concludere, essere bilingue mi ha permesso di vivere due culture diverse e di comprendere meglio il modo in cui le lingue influenzano il nostro modo di pensare e di essere. Nonostante le difficoltà nel padroneggiare Francese e Italiano, sono grato per questa opportunità e per come mi ha permesso di crescere sia come individuo che come comunicatore. La lingua in cui penso potrebbe non essere chiara o definita, ma ciò che conta è il legame che ho sviluppato con entrambe le culture che rappresento.

Alla fine, il potere del linguaggio va oltre le parole che pronunciamo; è uno strumento che ci permette di connetterci con gli altri e di esprimere la nostra identità. Che si tratti di italiano, francese o "pensese", ciò che conta è la nostra capacità di comprendere e apprezzare la diversità linguistica e culturale che ci circonda, così come la nostra capacità di utilizzare le lingue per costruire ponti e superare barriere.

Perché ho scelto il self-publishing: i problemi con l'editoria tradizionale.

Oggi desidero condividere con voi un argomento molto personale e controverso, che potrebbe sollevare dibattiti accesi soprattutto tra coloro che lavorano e prosperano nel mondo dell'editoria. Il tema che affronterò è il vero motivo per cui ho scelto di percorrere la strada del self-publishing.

Prima di tutto, cos'è il self publishing?

"Il self-publishing, o autopubblicazione, è un approccio alla pubblicazione di libri e altri contenuti in cui l'autore decide di pubblicare il proprio lavoro senza l'intervento di un editore tradizionale. In pratica, l'autore si assume la responsabilità di gestire l'intero processo di pubblicazione, dalla stesura del manoscritto fino alla promozione e alla distribuzione del libro."

Innanzitutto, tengo a sottolineare che non nutro alcun risentimento nei confronti di chi si dedica con passione alla scrittura, alla produzione e alla distribuzione di libri. L'editoria è un settore nobile e meraviglioso, e sarò sempre grato a tutte le collane (Adelphi e Astrolabio, parlo a voi!) che mi hanno permesso di arricchire il mio bagaglio culturale e di scoprire strumenti utili per la mia crescita personale. Pubblicare con un editore tradizionale può essere un'opzione affascinante e prestigiosa, soprattutto per chi non si sente portato per l'imprenditoria.

Tuttavia, ho notato che l'editoria italiana (e non solo) presenta alcune criticità che mi hanno spinto a optare per il self-publishing. Benché non abbia molta esperienza nel settore, ritengo che i seguenti problemi siano abbastanza gravi da aver influenzato la mia scelta.

Il primo problema riguarda la lentezza del processo editoriale. Da quando il manoscritto arriva sulle scrivanie degli editori alla sua pubblicazione possono trascorrere anni, il che rappresenta un ostacolo sia per il mio temperamento impaziente sia per il mio entusiasmo creativo. Gli artisti tendono a rinnegare i lavori precedenti e a voler promuovere solo le opere più recenti; un ritardo nella pubblicazione potrebbe quindi costringere un autore a promuovere un libro che non lo rappresenta più.

Il secondo problema concerne la libertà creativa. Un autore conosce a fondo la propria opera e desidera proteggerla come un figlio. Tuttavia, firmando con un editore tradizionale, l'autore rinuncia al controllo su aspetti cruciali come la copertina e la quarta di copertina. In caso di insuccesso, l'editore potrebbe decidere di abbandonare il progetto, mentre nel self-publishing l'autore ha la possibilità di cambiare strategia e di continuare a promuovere il proprio lavoro con determinazione.

Il terzo e più rilevante problema è di natura economica. Dopo aver dedicato almeno un anno e mezzo alla stesura del manoscritto, un autore che sceglie di pubblicare con un editore tradizionale riceverà un anticipo e dovrà attendere circa un anno per conoscere le vendite del proprio libro. La percentuale che gli spetta sul prezzo di copertina varia solitamente tra il 5 e il 10%, dopo aver coperto l'anticipo ricevuto. Inoltre, da quella somma, va decurtata la percentuale dell'agente che percepisce circa il 15/20% del guadagno dell'autore. A mio avviso, questa situazione è iniqua nei confronti dell'autore, che è la mente creativa dietro l'opera e che si è impegnato a lungo nella sua realizzazione.

E' facile scegliere il self publishing se si ha una certa fama e i soldi per investire in marketing, mi direte. E' vero, ma non è per questo che l'ho fatto. L'ho fatto perché sono convinto che questo percorso mi consenta di avere maggiore controllo sulla mia opera e di valorizzare al meglio il mio lavoro. Avrei potuto optare per un percorso più semplice e meno oneroso, ma il vero motivo che mi ha spinto verso il self-publishing è il rispetto che nutro per la figura dell'autore e la volontà di non accettare che siano considerati come l'ultimo anello nella catena dell'editoria. Gli autori sono il motore primigenio dell'intero settore.

Sono consapevole che il self-publishing comporta sfide e difficoltà, ma ritengo che offra agli autori l'opportunità di difendere con passione il proprio lavoro e di perseguire i propri obiettivi con determinazione. In futuro, pubblicherò un articolo che analizzerà in dettaglio i pro e i contro del self-publishing, per offrire un quadro più completo delle implicazioni di questa scelta.

Per ora, spero che questa mia "giustificazione" vi abbia offerto uno spaccato delle ragioni che mi hanno spinto a intraprendere la strada dell'autopubblicazione. Ogni autore ha le proprie motivazioni e priorità, e credo che sia fondamentale rispettare le scelte individuali in un settore così complesso e articolato come l'editoria. Il mio desiderio è che la mia esperienza possa essere d'ispirazione per altri autori e contribuisca a stimolare un dibattito costruttivo sul futuro dell'editoria e sul ruolo degli scrittori in questo panorama in continua evoluzione.

E poi... come dicono gli antichi: "Chi fa da sé, fa per tre"!

Tra brutto e bello: l'arte dell'editing e il suo impatto sulla scrittura

Ricordo una delle prime regole sulla scrittura che ho appreso: non fare mai editing mentre stai scrivendo. Prima completa la stesura, e poi perfezionala. Come diceva Hemingway: "Scrivi da ubriaco, fai editing da sobrio". Anche se non seguo alla lettera il consiglio di Hemingway sul bere, l'importanza dell'editing è indiscutibile.

L'editing è il processo che trasforma il brutto in bello, come si direbbe a scuola. La scrittura di un romanzo passa attraverso diverse fasi, ognuna delle quali viene analizzata criticamente, dall'idea iniziale fino al libro finale. Si fa l'editing sulla struttura della storia, sui personaggi, sulle descrizioni e persino sui segni di interpunzione. La sfida è sapere quando fermarsi per non esagerare, perché la perfezione è un prodotto del controllo, e raramente il controllo emoziona davvero.

Attualmente, il mio manoscritto è nelle mani di un editor professionista, Federico, che sta correggendo i miei errori. È un editing formale che tiene conto del mio lavoro e cerca di seguire la mia direzione. Immagino la difficoltà che Federico deve affrontare nel confrontarsi con la mia creatività in uno stato grezzo. Ovviamente, prima di arrivare a Federico, il testo è stato analizzato a fondo, scritto e riscritto, ma arriva il momento in cui è necessario l'intervento di un occhio esterno, che non conosce le fatiche e le vicissitudini in cui l'autore si è immerso.

Questo mi porta a riflettere su una discussione che ho avuto con un amico avvocato. Eravamo a Villa Borghese, in un incantevole bar vicino al lago, sorseggiando un caffè, e ci chiedevamo quale fosse la differenza tra "la bella" e "la brutta". Abbiamo scoperto di essere d'accordo nel considerare "la bella" non come la versione "pulita" della brutta, ma come una scrittura ex-novo, che emerge dalla brutta come una fenice dalle ceneri. Invece, altri al tavolo sostenevano che "la bella" non fosse altro che "la brutta" privata dei suoi difetti.

E voi, cosa ne pensate? Condividete la nostra visione o ritenete che "la bella" sia semplicemente "la brutta" migliorata?

L'arte dell'editing è un equilibrio delicato tra migliorare e conservare l'autenticità della voce dell'autore. Trovare il giusto compromesso tra queste due esigenze è fondamentale per la riuscita di un'opera letteraria. In ultima analisi, l'obiettivo dell'editing è quello di rendere il testo il più comprensibile, coinvolgente ed emozionante possibile, senza perdere la sua essenza originale.

Non vedo l'ora di condividere con voi i risultati del lavoro di Federico sul mio manoscritto e di continuare a discutere delle sfide e delle gioie del processo creativo.

Se avete domande, curiosità o suggerimenti riguardo all'editing o alla scrittura in generale, non esitate a condividerli con me e con gli altri lettori. Sarebbe interessante ascoltare le vostre esperienze e imparare gli uni dagli altri.

Alla prossima,

Flavio

Come ho rovinato il finale di "I soliti sospetti" ad un amico

Gli spoiler sono un argomento delicato e molto discusso nella cultura popolare. Molti fan di film, serie televisive, libri e giochi da tavolo cercano di evitare i spoiler per godersi appieno l'esperienza narrativa. Anche se può essere tentante discutere delle trame e dei finali con gli amici, è importante fare attenzione a non rovinare l'esperienza per gli altri.

Esistono addirittura regole non scritte sui social media che i fan seguono per evitare di rovinare le trame delle loro storie preferite. Ad esempio, molte persone usano hashtag come #spoiler o #nospoiler per segnalare i loro post e proteggere coloro che non hanno ancora visto o letto la storia in questione.

Ora vi racconterò cosa mi è successo con "I soliti sospetti".

Mentre discutevo del film con un gruppo di amici, mi vantavo di aver già capito il finale grazie ai miei studi sulla sceneggiatura. (Purtroppo, conoscendo i meccanismi narrativi, diventa facile individuare i segnali che anticipano un colpo di scena... anche se devo ammettere che "I soliti sospetti" e "Il sesto senso" hanno finali davvero sorprendenti. Ecco a seguire il trailer de il sesto senso. E anche un pensiero per Bruce Willis e per quello che sta passando. Sigh.

Tornando alla mia esperienza, ho involontariamente rivelato il finale ad un mio amico. Dei "Soliti Sospetti". Ricordo che era durante una vacanza, ero tornato a casa mia a Milano, dove i miei genitori vivevano mentre io stavo in Collegio in Francia. Discutevamo animatamente dei migliori film che avevamo visto, e dopo aver svelato il finale del finale, un caro amico mi ha detto che non aveva ancora visto il film. Come mi sono sentito in colpa! Gli avevo rovinato uno dei finali più belli del cinema! Non voglio fare lo stesso errore con voi, ma voglio comunque fornire una breve anteprima del mio romanzo di esordio, "La Divina Avventura", senza spoiler.

Il protagonista della storia è Kato, un uomo che cerca la perfezione e la conoscenza attraverso l'insegnamento della spiritualità. Quando il suo Dio gli offre la possibilità di diventare perfetto se riesce a trovare e portare indietro a Baltica (la sua città) un ragazzo di nome Overton, Kato accetta la sfida e parte alla ricerca del ragazzo nel deserto. La storia diventa un viaggio fantastico, con i personaggi che affrontano insieme numerose avventure, tra cui l'ascensione verso l'Eden e la scoperta dei segreti che si nascondono dietro la creazione della città perfetta di Baltica. Tuttavia, le verità che scopriranno cambieranno tutto... Mi fermo qui, per ora.

E voi, avete mai rovinato il finale di un libro o di un film a qualcuno? Oppure vi è stato rovinato il finale di una storia? Se conoscete un film con un grande finale inaspettato scrivetelo nei commenti!

Al prossimo articolo.

Stai

Immobile sulla sedia,
Gonna aperta e
Sguardo stupito.
Sorridi, come fosse
La prima volta.
Brilli d'imbarazzo
E nell'aria si sente
Un equilibrio
Che ci silenzia.

Assenza

Mi tuffo nei ricordi,
Tra bolle d'altri me.
Sfioro esplosioni,
Rubo boccate d'aria,
Mentre aspetto che la luna
In superficie,
Sole diventi.