La potenza dei rituali

La potenza dei rituali

Nella vita creativa, la disciplina sembra spesso in contraddizione con l’ispirazione, eppure, più cresce la mia esperienza come scrittore, più mi accorgo di quanto sia essenziale costruire delle abitudini precise per alimentare il processo creativo. Oggi voglio parlarvi del valore dei rituali, quei momenti che, ripetuti giorno dopo giorno, diventano una bussola per la mente e il cuore, e mi aiutano a mantenere la rotta verso l'obiettivo.

La routine come alleata della creatività

C’è un’idea romantica della creatività, secondo cui l’ispirazione arriva come un lampo improvviso, dal nulla. E' così, ma l'ispirazione ha bisogno del terreno giusto su cui crescere. La creatività prospera quando viene coltivata quotidianamente, attraverso riti, routine. La disciplina, paradossalmente, libera la mente e crea lo spazio in cui l’ispirazione può fiorire.

Molti scrittori e artisti di successo hanno riconosciuto l’importanza di questo legame. Murakami, per esempio, inizia ogni giornata con un rituale immutabile: si sveglia all’alba, corre, e poi scrive per diverse ore. Stephen King ha una routine altrettanto rigida: scrive ogni giorno alla stessa ora, indipendentemente dall’ispirazione del momento. Questo mi ha fatto riflettere su quanto sia fondamentale costruire una routine che non dipenda dall’umore o dalle circostanze.

Nel mio caso, ho tante routine.

Camminare per risvegliare mente, cuore e anima

Uno dei momenti centrali della mia giornata creativa è la camminata. Cammino molto, come facevano i pensatori greci, convinto che il movimento del corpo risvegli non solo la mente, ma anche il cuore e l’anima. C’è qualcosa di potente nell’atto del camminare: è un modo per allontanarmi fisicamente dalla scrivania, ma soprattutto per liberare la mente dai pensieri che mi opprimono. Le migliori intuizioni spesso arrivano proprio in questi momenti di movimento, quando il respiro si fa regolare e la mente si lascia andare.

Dopo la camminata, il ritmo della giornata varia a seconda della fase di scrittura in cui mi trovo. Se sono in fase produttiva, quando c’è bisogno di macinare parole, il mio momento migliore è la mattina, dalle 9 alle 12. In queste ore, con la mente fresca e il corpo energizzato, mi siedo e lavoro senza interruzioni, lasciando che il flusso creativo prenda il sopravvento.

Quando invece sono nella fase di ricerca di idee, il mio orologio creativo cambia completamente. Le notti diventano il mio rifugio. Dalle 23 alle 2, nel silenzio della casa, mi immergo nel processo di strutturazione, di riflessione, lasciando che le idee emergano da quel terreno fertile che si crea solo quando tutto il resto del mondo dorme. È un momento quasi mistico, in cui la mente si distende e si apre a nuove possibilità.

Questa routine, però, non è nata da un giorno all’altro. Ricordo ancora quando scrissi il mio primo romanzo, "La rovina dell'anima" (mai pubblicato), a Parigi, all'Île Saint-Louis. Ogni mattina, alle 10:00, mi sedevo in un piccolo bar e ordinavo un caffè americano da 8 euro (prezzi folli, lo so!). Il caffè fumante accanto a me diventava parte del mio rituale quotidiano, e lì, seduto per due ore, cercavo di scrivere. Alcuni giorni non riuscivo a mettere giù nemmeno una parola, altri invece le idee fluivano senza sforzo. Ma più eseguivo quella routine, più mi rendevo conto che le parole sgorgavano con maggior facilità. La costanza era la chiave.

Il potere della costanza

Ricordo che durante la scrittura de "La rovina dell'anima", la mia prima opera, la costanza era tutto. Era una scrittura esplorativa, in cui non avevo una chiara direzione, né sapevo dove la storia sarebbe andata a parare. Ogni giorno mi sedevo a quel tavolo nell'Île Saint-Louis con la speranza che le parole venissero a galla. Alcuni giorni ero bloccato, altri sembrava che le idee nascessero da sole, ma quella routine mi spingeva ad andare avanti, nonostante l'incertezza.

Quella esperienza è stata diversa rispetto alla scrittura dei miei volumi più recenti, come "La Divina Avventura" o "L'Anello di Saturno", dove ho iniziato con una struttura ben definita e una visione chiara della direzione narrativa. In quei giorni parigini, la scrittura era più un atto di scoperta: un viaggio nelle profondità della mia mente senza una mappa. Eppure, anche in quell'incertezza, la costanza del rituale ha avuto un ruolo cruciale. La disciplina quotidiana di sedermi a scrivere, indipendentemente dal risultato, mi ha insegnato che il vero progresso creativo non dipende sempre dall'ispirazione momentanea, ma dalla perseveranza.

Questo insegnamento è rimasto con me anche oggi. Sebbene il mio processo creativo sia più strutturato, continuo a credere che la costanza sia la chiave per superare i momenti di blocco o scarsa ispirazione. Siediti, comincia, e le parole alla fine arriveranno.

Il rito della recitazione

Oltre che scrittore, sono prima di tutto un attore, e la recitazione, a suo modo, è un rituale. Quando salgo sul set, mi immergo in un rito preciso, fatto di gesti, parole e movimenti, che si ripetono ad ogni ciak. Ma ho imparato a non essere vittima del rito. La recitazione non è un atto passivo; richiede uno sforzo continuo di libertà creativa. Mi impegno a spezzare e rompere quelle che sono le mie stesse idee, i miei schemi, perché quello che conta, alla fine, è l'osservazione del reale. Non importa quanto rigido sia il rito, se non riesci a vedere, ad ascoltare ciò che ti circonda, allora rischi di perdere l’essenza stessa della tua arte.

La vera sfida è trovare un equilibrio tra rito e azione, tra disciplina e creatività. È in questo bilanciamento che si riesce a fare dell'arte un mestiere produttivo. Non si tratta di scegliere tra rigore e libertà, ma di farli convivere, lasciando che il rituale guidi la mano, mentre la creatività rompe le barriere e apre nuove strade.

Come nasce l'ispirazione?

Oggi è mancata la mia prima grande Maestra di Recitazione, la direttrice della scuola del Teatro Stabile, Anna Laura Messeri. Una donnina forte, ruvida, diretta, con l'energia vitale di un leone e la sagacia di una volpe. Aveva i capelli corti, l'ho conosciuta a vent'anni e, come tutti i bambini davanti ai nonni, per me Anna Laura è sempre stata una nonna. Non l'ho mai vista invecchiare, perché l'ho sempre vista vecchia. Eppure, il suo cuore era ancora giovane, sempre giovane. Dalla scuola di recitazione traeva vita, dagli alunni linfa per alzarsi un'altra volta, per urlare, di nuovo, che la voce non arrivava, che non si capiva quello che veniva detto.

Una maestra del palco che ora parla tramite le voci delle centinaia di alunni che ha educato, molti dei quali vi sono noti, poiché diventati famosi.

Uno di loro sono io.

Voglio raccontarvi come Anna Laura affrontò il concetto di ispirazione. Voglio iniziare da lì, perché è il primo ricordo che mi è venuto in mente quando mi sono chiesto come cominciare questa pagina. Ed è successo il giorno in cui ci ha lasciati.

Non può essere un caso, caro lettore.

Me ne stavo sul palco dopo aver ricevuto dalla "Mess", come la chiamavamo noi, un foglio: un estratto del Mein Kampf di A. Hitler, che parlava di sport. Di come la gioventù dovesse essere sana, forte. Un estratto che esulava dalla politica folle di Hitler, ma che ne conteneva un altro lato, meno conosciuto.

Lo scopo era affrontare questo lungo testo come un monologo. Incarnarlo con la voce e il corpo. Dargli ragione. Perché sì, quando si recita, una delle meraviglie è poter essere qualcun altro, qualcuno che non conosciamo, di cui non condividiamo le idee, ma che, nel momento in cui lo incarniamo, diventa parte di noi. L'attore è mille uomini, mille volti, mille lati di mille pensieri. Recitare, proprio come leggere, arricchisce.

Recitare è leggere con il corpo.

Toccava a me. Il palco di prova era quello del Teatro della Corte di Genova. Una piazza d'armi da duemila spettatori, un palco nero, enorme, un San Siro dei teatri. Vuoto.

Solo la Mess, seduta, che aspettava di tranciare con un commento sagace il prossimo allievo.

Toccava a me.

Entro sul palco, il foglio umido in mano, su cui era stampato il monologo. Lo avevo imparato a memoria, ma ero ancora incerto, dovevo tenerlo in mano, per accertarmi che, in caso di un vuoto di memoria, avrei potuto contare su di esso.

Arrivo in scena e mi prendo un tempo. Credo sia un primo segno di consapevolezza recitativa. Non si può cominciare qualcosa di interessante senza prepararlo con il silenzio.

E così, aspetto. Mi godo il mio momento. Il palco. "Non è mica male, poi, questo teatro…" penso.

Passa un altro secondo ed ecco che la voce della Mess spunta dagli abissi della platea, rivolgendosi a quel giovane francese in camicia e jeans, pronto a decantare la follia.

«Eeeeeeee… che fai? Aspetti l'ispirazione?!»

L'ispirazione. In effetti, era proprio questo che facevo. Aspettavo l'ispirazione, il coraggio di cominciare. La scelta di abbandonare il crogiolo nel quale mi stavo cullando, come un abusivo immeritevole, del silenzio teatrale.

«Eh sì, Mess, devo partire bene!»

«Non devi partire bene. Devi partire e basta!»

Ecco, in summa, cosa penso sia l'ispirazione. L'ispirazione, nella sua più profonda forma, è la preparazione all'ignoto.

L'opera è ignota. Nessuno può sapere come sarà l'opera d'arte nella sua forma finita, perché il processo della creazione è esso stesso l'arte. È organico, rispecchia l'anima del momento, ma anche il tutto che è l'artista.

L'ispirazione viene da "in-spiratio", inalare. L'ispirazione è il momento in cui ci si solleva da terra, ci si sublima in un vuoto teso a lasciarci in mano all'ignoto. Il momento in cui si fa entrare l'aria per poi eseguire, urlare, piangere, ridere, distruggere e creare.

Quindi, ragionandoci, cara Anna Laura, avevi colto il mio talento, l'ispirazione, e subito mi dicesti come portarlo avanti. Eseguendo. Imparando la tecnica. E facendo quel passo avanti.

E ogni giorno, da quel giorno, un passo avanti è stato fatto. E mille altri ne farò, Mess.

Libera la creatività

Quando ero piccolo, mia mamma mi faceva giocare a un gioco di associazione libera. Funzionava così: "Pensa a una parola e dilla, la prima che ti viene in mente". L'altro giocatore, dopo aver sentito la parola, doveva dire la prima parola che gli veniva in mente, connessa a quella appena detta. È un gioco di associazione libera, in cui, grazie all'istinto e al vocabolario, si possono allineare concetti che, se troppo ragionati, non finirebbero mai insieme. È un ottimo modo per fluidificare l'immaginazione e sviluppare quello che si chiama "pensiero laterale".

Il pensiero laterale è quella forma di pensiero che permette di utilizzare una conoscenza normalmente associata a un determinato campo del sapere, in un altro campo. Spesso le idee rivoluzionarie sono figlie del pensiero laterale. Persino le invenzioni lo sono. L'osservazione del mondo è il primo spunto di creatività, ed è anche quello più inesauribile.

Ma la fluidità di pensiero non basta per generare qualcosa di davvero nuovo. Serve anche lo studio. Prendiamo l'esempio del gioco che facevo da bambino: quale era, secondo voi, lo strumento utile a migliorare il gioco? Il dizionario. Più i giocatori conoscevano parole difficili, più il gioco si innalzava verso vette interessanti.

In effetti, basta pensare ai due giocatori. Immaginate di avere Platone e Kant che giocano a questo gioco, oppure Baudelaire e Dante, sarebbe interessante.

Dante: "Inferno"
Baudelaire: "Spleen"
Dante: "Maledizione"
Baudelaire: "Fleurs"
Dante: "Amore"
Baudelaire: "Desiderio"
Dante: "Beatrice"
Baudelaire: "Vampira"
Dante: "Lussuria"
Baudelaire: "Decadenza"
Dante: "Purificazione"
Baudelaire: "Abysses"
Dante: "Redenzione"
Baudelaire: "Noia"
Dante: "Eternità"
Baudelaire: "Ombra"
Dante: "Luce"

Insomma, ci sarebbero dialoghi da immaginare! Questo esercizio mi ha aiutato molto a dare flessibilità al mio modo di pensare. Credo che sia anche grazie a questo che sono riuscito ad applicare il pensiero creativo (nello specifico lo storytelling) a molti altri aspetti della mia vita.

Per esempio, quando fondai insieme a cinque amici Untold Games, una società di videogiochi, nel 2014, utilizzai tutte le tecniche attoriali che avevo a disposizione per vendere il gioco nelle fiere di Los Angeles e San Francisco. Non solo: il fatto di provenire da un mondo "classico" come quello del teatro e della letteratura mi dava un vantaggio anche nello storytelling, sia inerente alla storia del nostro primo videogioco, sia nel raccontare la nostra storia come team di sviluppo.

Non esistono conoscenze inutili per la creatività, se manteniamo una prospettiva aperta e fluida, proprio come quelle parole. Le start-up più innovative degli ultimi anni spesso sono collegate a campi come l'agricoltura, che per anni è stato messo da parte, considerato poco "moderno".

Ognuno di noi è un tesoro di conoscenza, un forziere pieno di perle di vita che non aspettano altro che essere infilate in una collana. È il motivo per cui spesso si suggerisce al creativo di "cominciare da ciò che conosce", non tanto per un fatto egotico di raccontare se stessi, ma per partire proprio da quelle caratteristiche che renderanno la sua invenzione unica.

Come diceva Carmelo Bene, e non smetterò mai di citarlo: "Siate voi stessi dei capolavori". Perché alla fine di tutto, il vero valore aggiunto non è l'idea, non è nemmeno la realizzazione, ma è la persona che incarna questi due aspetti.

Un altro modo di stimolare la nostra creatività è fare vuoto e recarci in un luogo a noi sconosciuto. Affidarsi a quello che io chiamo, nella divina avventura, "l'istinto della materia". Noi siamo fatti, come tutto, di materia. E questa materia ha una sua intelligenza. Non solo, ognuno di noi ha un'intelligenza unica, cucita addosso, e a volte, vuoi per paura o per destino, seppelliamo l'istinto della nostra materia dietro un costrutto sociale, allontanandoci da quello che è il nostro demone, inteso come animale interiore, compagno protettore (daímōn, dal greco).

Forzandoci a spostarci verso un territorio sconosciuto, stimoliamo una cosa di cui tutti hanno paura: la crisi. La crisi, per il creativo, è benzina. La crisi accende il demone che c'è in noi, e se ci siamo preparati bene (in sostanza, se abbiamo letto il vocabolario a dovere e imparato, quasi a livello muscolare, nuove "parole") allora in quel momento di crisi brilleremo di un'intensità rara, perché, con le spalle al muro, il creativo ben allenato dà il meglio di sé.

  1. Allenare il pensiero laterale
  2. Arricchire la tecnica
  3. Andare a giocare nella vera arena: quella della nostra crisi.

Ecco i tre passi fondamentali per creare insieme alla nostra anima..

L'arte dei sogni

Mi piace sognare, immaginare, proiettarmi in mondi che non esistono ancora e che, con la volontà e un po' di caparbietà, possono trasformarsi in realtà.

La mia indole—un po' come quella di Luca nell’Anello di Saturno—è sempre stata quella di un’anima che fugge dal reale. A volte per eccessiva sensibilità, a volte per vera e propria misantropia. Che ci posso fare? Amo la solitudine, amo vagare nel vuoto, senza meta, con occhi e orecchie ben aperti, alla scoperta di qualcosa che mi apra nuovi mondi.

I sogni, gli incubi...

Oggi voglio affrontare questa dimensione magica nella quale proiettiamo tutto noi stessi. Che esperti filosofi, psicoterapeuti e scienziati hanno provato a decodificare, ma senza successo. Cosa sono i sogni? A cosa servono? E soprattutto, che impatto possono avere sulla nostra creatività?

Comincio con quello che per me è un dato di fatto. Più cresco, più i miei sogni si fanno ad occhi aperti piuttosto che nel sonno. Da piccolo avevo una relazione complice con i miei sogni; riuscivo, quando qualcosa interrompeva il mio sonno, a riprenderli, proprio come il secondo tempo di un film. Era molto divertente. Succedeva, per esempio, che vivevo una storia nella quale ero protagonista di un evento fantascientifico e, mentre mi avvicinavo alla base dove avrei scoperto un grande mistero, ecco che qualcosa, o qualcuno, all'interno del sogno mi metteva paura. E mi svegliavo. Ma, troppo curioso di scoprire come sarebbe andata a finire, mi rituffavo nel sonno per completarlo.

Un’altra cosa peculiare che mi succedeva era che i miei sogni avevano una "intro". Cominciavano spesso nello stesso modo: un corridoio allagato, io su un tronco che galleggiava verso la fine del corridoio, dove mi aspettava un grande orologio a pendolo. Ci finivo dentro, cadevo nel buio e mi ritrovavo in una gigantesca scacchiera. Da lì, la mia storia cominciava.

Ho sempre sognato storie. Con, come avrebbe detto il caro Aristotele: "un inizio, uno sviluppo e una fine".

Gli incubi, invece, sono sempre sfuggiti al mio controllo. Non sarebbero stati veri e propri incubi se fosse stato il contrario. La paura cos’è se non la consapevolezza di non avere alcun controllo sugli eventi? I nostri incubi sono la proiezione di tutto ciò che ci perseguita.

Se i sogni sono desideri, gli incubi sono paure.

Desideri e paure. I due magneti dei grandi personaggi della letteratura. Credo che una domanda meravigliosa da porci quando affrontiamo la creazione dei personaggi sia chiedersi cosa sognano e quali sono i loro incubi. Questo ci impone una consapevolezza diversa della loro umanità, che poi si rifletterà nel modo in cui reagiranno alle sfide che la storia gli imporrà.

La funzione dei sogni nella creatività è molto simile a quella dell'arte. I sogni ci manifestano qualcosa che abbiamo dentro. Sono una proiezione del nostro mondo interiore in una forma codificata, "comprensibile" a livello conscio. Che è esattamente quello che dovrebbe essere un'opera d'arte. L'artista, nell'atto della creazione, attinge al mondo oscuro, al numeno, e manifesta quella visione attraverso la tecnica, in una forma detta "artistica" (che sia un dipinto, un film, una poesia, un tempio, ecc.).

I sogni sono la prima vera forma d'arte. Un'arte personale, intima, che serve a conoscersi, a scoprirsi, ad ascoltarci. Sono la bussola dell'anima che ci indica, attraverso un processo del tutto personale ma perfettamente calibrato alla nostra essenza, quale sia la strada da percorrere o da evitare.

I sogni siamo noi.

Chissà, forse un giorno potremo, grazie alla tecnologia, invitare qualcuno a sognare insieme a noi, sognare collettivamente. Forse in quel momento, quando i desideri di tutti si fonderanno con le paure degli altri, allora l'umanità troverà un suo equilibrio.

Nel frattempo, tocca a noi artisti creare questi ponti. Generare, attraverso un percorso di scoperta, un sogno, un incubo e fissarlo, proprio come una fotografia olografica, su tela, su carta, sul mondo, in modo tale che qualcuno, chiunque, possa avere l'opportunità, incontrando l’opera, di sognare un frammento di noi.

Si dice che l'arte unisce i popoli e penso che sia proprio questo il motivo. Perché, come su una nave in tempesta, l'artista tesse corde robuste che legano gli uomini tra di loro, permettendo loro di comprendere che quella solitudine che sempre li attanaglia continuamente è un’illusione. Che i loro sogni non sono tanto diversi da quelli degli altri, e lo stesso si può dire delle paure.

Quindi, sognate, sognate ad occhi chiusi e aperti. Sognate per creare ponti che possano irrigare il cuore dei nomadi che attraversano, nel tempo di un lampo di eternità, questa meravigliosa illusione chiamata vita.

Buone Vacanze

È venuto il momento anche per me di staccare, di lasciarvi, ma solo per alcune settimane.

Le vacanze sono il momento in cui ci rincontriamo, in cui ritroviamo quella parte di noi che avevamo sepolto sotto gli obiettivi da raggiungere, le bollette o i problemi sul lavoro. Ora arriva un periodo così caldo che l'unica cosa che ci rimane da fare è appoggiare la testa al morbido cuscino e aspettare la frescura del tardo pomeriggio, tra un bagno e una focaccia con pomodoro e mozzarella.

Vi auguro, a tutti, italiani e non, brasiliani, argentini, francesi, cileni, tutti. Vi auguro un bellissimo ritorno alla vostra anima. Abbiatene cura.

Ci si rivede a settembre, come a scuola, un po' abbronzati, un po' cambiati. Con tanta voglia di stupire e quel pizzico di desiderio di tornare a frequentare tutto ciò che conosciamo: amici, sogni e maschere.

Nel frattempo, auguro anche una buona lettura a chi ha cominciato l'Anello di Saturno, a chi lo sta continuando con il volume due, a chi lo scoprirà tra un anno. Concludo con un "grazie" sentito verso tutti voi che mi seguite, che trovate il tempo di ritagliarvi cinque minuti due volte a settimana per far entrare nel vostro cuore le mie parole.

Ne sono onorato.

Ci rivediamo il 3 settembre.

Come crescere come artista

Mi è stato chiesto, su Spotify, di approfondire la crescita dell'artista.

Prima di tutto dobbiamo capire cosa si intende per crescita. Il mestiere dell'artista è complesso e non è solo limitato alla sua arte, cioè alla sua tecnica, ma include la sua anima, il suo portafoglio, la sua vita sociale, la sua cultura, la sua mente, il suo corpo. Insomma, le caratteristiche che deve sviluppare un bravo artista sono tante e multidisciplinari. Così tanto che dobbiamo arrivare, per forza di cose, a una visione olistica di cosa sia un artista.

L'artista, per me, è colui che porta una nuova sfumatura di realtà a coloro che non hanno il tempo o la voglia di cercarla da soli.

Questo vuol dire che per me l'artista è prima di tutto un esploratore. Ma non esplora lo spazio, almeno, non principalmente. Esplora i suoi sentimenti, la sua anima. Per questo spesso viene confuso come un essere vanesio. È vero, molti che fanno arte lo fanno per vanità, fragilità, desiderio di essere riconosciuti. Ma non parlo di loro; parlo di quelli che hanno dentro una ferita, un desiderio irrefrenabile di comunicare, una curiosità che li porta ogni volta lontano.

L'artista deve esplorare gli altri, lo spazio e il tempo. Proprio perché, per via di questa caratteristica olistica, la sua crescita dipende da tanti fattori. Purtroppo, per ragioni di spazio e di tempo, mi focalizzerò sulla crescita del motore centrale.

Ci possono venire in aiuto alcuni detti sopravvissuti ai millenni di guerre e rivoluzioni:

"Mens sana in corpore sano."

Alimentate cuore e mente con cibo di qualità, che vi elevi, che vi predisponga al miglioramento e all'apertura.

"Più so, più so di non sapere."

Questo principio base, che obbliga coloro che hanno intrapreso un percorso di scoperta, a fare sempre un passo avanti verso l'ignoto, è la base del movimento. È il motore.

"Chi va piano, va sano e va lontano."

Per crescere, serve la resilienza della tartaruga. Non si ha successo la prima volta, nemmeno la centesima. Dicono che i primi cinque anni di qualsiasi disciplina non sono fatti per trovare il successo, ma per diventare bravi. Ci vuole tempo, dedizione e ascolto.

"Non mettere il carro davanti ai buoi."

Questo detto vuol dire molte cose insieme. Nel nostro caso, direi che prima di tutto serve una buona gestione dell'economia. Il mio suggerimento è di non indebitarsi, per evitare di essere costretti, soprattutto all'inizio della carriera, a fare rinunce per via di un debito. Ma vale anche per come ci si presenta. Umiltà, professionalità e ascolto sono competenze ignorate ma fondamentali nel mondo dell'arte.

Ultima cosa... Nel frattempo che fate questa strada, impervia, piena di buche e precipizi ad ambo i lati, spesso solitaria, avulsa dalla quotidianità, speciale poiché straniera, vi suggerisco di ricordare, di tanto in tanto, per la vostra salute mentale, un ultimo detto:

"Chi si accontenta, gode."

Perché a volte il talento non è riuscire a fare quello che amiamo, ma amare quello che facciamo.

Razionalità e Creatività

Il segreto, nell'arte come nella vita, è agire.

"Non pensare, fare. Lo dice anche la Nike."

Ultimamente, sul mio feed di Instagram, non faccio altro che vedere motivatori, guru e geni della finanza che ripetono come un mantra che il segreto è nell'azione.

Ma forse è eccessivamente semplicistico pensare che solo chi "si alza" o "chi fa" possieda le chiavi del successo? Io, per esempio, faccio tanto, tantissimo, e vi posso assicurare che almeno l'80% dei miei tentativi si rivela essere un fallimento. Il 20%, invece, no. Ed è per questo che poi mi rialzo dopo la caduta e riprendo di buona lena da dove mi ero interrotto.

Qualcosa, dentro di me, continua a pensare che, forse, quel gran numero di fallimenti potrebbe diventare un gran numero di successi se solo io non facessi tutto così in fretta. Se avessi la pazienza di studiare. Il fare, il correre, l'agire devono essere supportati dal raziocinio, dalla capacità analitica che ci distingue da tutti gli animali: quella di prevedere, di vedere oltre.

In un certo senso, l'intelligenza è proprio questo: simulare nella nostra testa le eventuali possibilità e poi fare la nostra scommessa e "agire".

Ma per quanto possiamo provare a immaginare il futuro, è davvero impossibile. Se pensate che solo in una scacchiera fatta di 64 caselle e 32 pezzi, dopo la decima mossa, le combinazioni di possibili posizioni sono superiori ai numeri di atomi nell'universo (ma non era infinito?), allora mi pare evidente che non possiamo essere neanche capaci di prevedere il meteo del giorno dopo. Difatti, sbagliano spesso.

Ma, a parte gli scherzi, il mondo non è una formula, e il vento cambia quando vuole.

Nell'Anello di Saturno, quel vento si chiama Destino, ed è animato persino di una volontà. Anche lui vive nel dilemma se agire o non agire. Un Destino amletico: "essere o non essere? Fare o non fare? Troppo pensiero mi porta via, caro lettore!"

Tutto questo per dire che la creatività non è nulla senza la razionalità. E nell'arte, questa razionalità ha un nome: si chiama tecnica. Dal greco Tekne, arte. Insomma, l'artista è prima di tutto un tecnico, una persona maestra nel fare un gesto tecnico. Un attore raziocinante.

L'artista diventa protagonista del presente solo permeato di una tecnica forgiata negli anni, divenuta inconscia, che gli permette di partecipare con destrezza al presente e, nel mentre, renderlo eterno.

Ecco cosa vuol dire il detto "impara l'arte e mettila da parte."

Quando scrivete, recitate, ballate, dipingete, quello è il momento in cui dovete spegnere la testa. Lasciate che siano il cuore, l'anima e l'intuizione a governarvi verso l'ignoto, verso lo stupore.

C'è sempre tempo per aggiustare, levigare, incastrare e formalizzare.

Come dice De André: "Dal diamante non nasce niente, dal letame nascono i fior."

Luci e Ombre

L'atto della creazione è un atto fatto di luce e ombre, di Ying e Yang. La luce, per sua natura, esiste solo se vi è ombra. Il processo che porta l'artista a raffinare la sua espressione fino a renderla immortale, che sia un testo, una statua o un palazzo, è un processo fatto di scelte, sacrifici e anche distruzione.

Dovete sapere che per un'idea buona, cento sono state sacrificate. Un mio maestro di regia mi diceva spesso di non affezionarmi alle mie idee. Gli americani hanno un termine per questo problema nella scrittura: "Kill your darlings", cioè elimina le cose che ti piacciono di più. Il motivo? Perché probabilmente sono quelle che mantieni nell'opera più per egoismo che per una reale necessità. Una sorta di vanità creativa.

Insomma, sono un essere pieno di contrasti. Penso che il segreto sia stupirli con un abbraccio. I nostri demoni, le nostre paure, sono il frutto proibito che va morso per essere finalmente scacciati dal giardino dell'Eden e affrontare il percorso che è la vita. L'arte trae forza dalle ferite della vita; l'ho spesso raccontato nelle pagine di questo diario.

Inoltre, il processo artistico spesso viene svolto in solitudine. Non solo l'artista scava dentro di sé per trovare perle di numeno da raccontare agli altri, ma l'opera stessa che crea diventa uno specchio e poi un oracolo.

Vi spiego cosa intendo: spesso mi capita di ritrovarmi davanti a un testo che ho scritto e leggerlo come fosse di qualcun altro. Se nel frattempo la vita mi ha cambiato, lo guardo con tenerezza, perché non vedo il testo, ma il Flavio che l'ha scritto. Ma quando mi capita di rileggere l'opera che sto realizzando, è molto diverso. Diventa il mio demone. È lei ad alimentare dentro di me paure e desideri. Tutte le luci e le ombre che ho proiettato al suo interno ora sembrano essere animate di vita propria, ed ecco perché l'arte che produco mi cambia.

L'arte è cura dell'anima. L'artista è, attraverso la propria opera, terapeuta di se stesso. E l'opera rimane alla fine del percorso come una manifestazione, un dono ai posteri del cammino ormai tracciato dall'artista . Una sorta di mappa emotiva, esistenziale e divertente da assaporare con calma.

Il concetto di Ying e Yang non è solo presente nell'arte, ma a ben vedere in ogni atomo di realtà. Dove vi è luce, vi è ombra. In noi, negli altri, nelle relazioni con gli altri. Siamo imperfetti, ed è in questa imperfezione che giace la necessità di continuo miglioramento, di continua crescita.

Dove vi è movimento, vi sono scelte. E dove vi sono scelte, vi sono rimpianti e rimorsi. Lo Ying e lo Yang è anche del tempo. Noi andiamo avanti, ma le nostre scelte no, ce le portiamo dietro per sempre. Anche questo, insieme all'amore, è un tema portante della saga dell'Anello: I demoni del passato…

A proposito di saga, le votazioni riguardo al tema della prossima sono concluse. Ha vinto (di poco) la fratellanza e subito dopo, la disillusione. Ora ho l'intenzione di lavorare su alcuni soggetti che integrino entrambe, e poi li condividerò con voi. E di nuovo piccola votazione. A quel punto avremo tracciato una direzione, un suggerimento che svilupperò in gran segreto.

Ma come sempre, sarete i primi a sapere tutto.

Abbraccia la normalità

Chi ha paura della normalità? Io per molto tempo l'ho avuta. Qualcosa in me continuava (e a volte continua) a pensare che essere normali voglia dire non essere speciali. Ho il terrore di essere banale, in un certo senso. E penso che questo timore sia un motore del mio agire… quel desiderio profondo di dimostrare quanto io sia speciale, di far valere qualità che spesso la società fraintende: come la fragilità, la sensibilità, la sincerità.

Se vi fate un giro per i feed dei vari social network, scoprirete che raramente una persona (soprattutto se uomo) espone questi lati di sé. Vanno per la maggiore i maschi "Alfa", quelli che una nota pubblicità di profumo chiamava "Per l'uomo che non deve chiedere mai". Ovviamente questa frase è sparita dagli annali, perché chiedere non è una questione di educazione o di mascolinità, ma proprio di civismo.

Io sono uomo, e da quando sono piccolo ho dovuto avere a che fare con questa percezione (spesso autoimposta) che gli uomini vogliono dare di loro stessi agli altri: forti, duri, sicuri di sé. Ora si è aggiunto un universo di estetica, chirurgica e non, che fino a poco fa era relegata alle donne. Ma si sa, il mercato, per generare nuovi bisogni, crea nuove paure...

Non è diverso per le donne, anzi, lo so. Il genere femminile è, sin dai tempi dell'invenzione del primo mascara, molto più soggetto alla pressione dell'apparire "speciale" agli occhi della comunità di quanto l'uomo sia mai stato.

Si sa, i tempi cambiano, ma qualcosa, dentro noi esseri umani, rimane costante. È da lì che i classici traggono la loro linfa vitale, da quel motore che alimenta le nostre gesta, proprio come ai tempi degli antichi greci.

Cosa alimenta quindi questa mia paura di normalità? Da una parte, la realtà e i miei sogni che spesso fanno a botte. La realtà è una muraglia indistruttibile, che non guarda in faccia nessuno. E quando mi ci schianto, fa male. Parecchio.

Quindi, da una parte, vi è una fuga dalla realtà per paura di scoprire che in fondo io non sono quello che pensavo, o che speravo, di essere. Ma è insito in me anche il desiderio di appartenere alla comunità, di essere speciale, anche agli occhi degli altri. Di fare qualcosa per la società che mi dia un posto dove stare, un po' di amore. Da lì nasce la mia scelta di recitare, di scrivere, di emozionarvi.

Perché in fondo si torna sempre lì: l'amore. L'amore per se stessi, l'amore per un altro o un'altra, l'amore per il gruppo. Quel senso di appartenenza che tanto mi fa paura ma a cui, sotto sotto, anelo.

Per fare arte, per scrivere, per esprimersi sull'umano, è necessario andare alla radice, essere classici. Perché solo così, attraverso la ricerca delle radici dell'anima, si possono saltare le allucinazioni della contemporaneità e trovare i motivi veri delle azioni che ci muovono.

Abbiamo un continuo e inesauribile desiderio di sentirci amati.

Di questo parlo nell'Anello di Saturno. Ora è ancora presto per percepire la sua interezza, visto è uscito solo il primo volume, ma l'amore è uno dei temi fondanti della storia. L'amore nelle sue mille sfaccettature. I greci avevano varie parole per definirlo, perché ne vedevano le sfumature: Eros, Philia, Storge, Agape e molte altre.

Il mio viaggio è stato attraversare ognuna di quelle parole per comprenderla, nella speranza che chi deciderà di accompagnarmi in questo viaggio si ritrovi, alla fine, ad amare se stesso.

Perché, come dice Dalla in "Disperato erotico stomp": "Ma la cosa eccezionale / dammi retta / è essere normale."

Anni 90, I valori perduti

Nel primo volume dell'Anello di Saturno esploro anni lontani, ma vicini al mio cuore: gli anni '90. Anni di cartoni animati su Italia Uno, i Cavalieri dello Zodiaco, Ken il Guerriero su La Sette, Mimi Ayuara, Hello Spank e mille altri.

Ma non solo: erano anni in cui non c'era il telefonino, né internet. Per sapere qualcosa, si utilizzava ancora la famosa enciclopedia in 12 volumi, il dizionario, l'atlante geografico. Il sapere era in casa, letteralmente, nei libri che stavano nelle biblioteche. Un sapere poco mobile, certo, ma che obbligava chi lo cercava a fare un passo avanti, a fare quella piccola fatica necessaria per poi apprezzare il risultato.

Mi ricordo ancora quando da piccolo mia madre mi diceva di andare a guardare nell'enciclopedia dopo l'ennesima mia richiesta di "cosa vuol dire questo?" Così ho imparato a cercare per indice alfabetico e, nel frattempo che leggevo la parola misteriosa, ne scoprivo anche altre, vicine. Un giorno, non ricordo esattamente a che età, mi venne voglia di aprire il dizionario a caso e leggerlo fino a incontrare una parola a me sconosciuta. La leggevo e poi lo richiudevo.

Nella parola vi è il pensiero, la possibilità di immaginare. All'inizio - non a caso - era il verbo. La vera conoscenza parte dalla conoscenza delle parole. E questo è qualcosa che Anna, nel libro, ha ben capito. Lei, così curiosa e desiderosa di conoscere il passato, le antiche civiltà, impara le parole, le lingue, che sono la chiave della conoscenza.

Ma gli anni '90 erano anche anni in cui i valori erano diversi. Non voglio assolutamente cadere nella retorica del "ai miei tempi era meglio", perché non è così. Il mondo è meraviglioso, e il suo incedere costante, a prescindere da noi, dagli anni che passano, è la manifestazione della potenza vitale che ci anima tutti.

La società muta, si sviluppa, va avanti. Cambiano le parole, gli usi, le abitudini e anche i valori.

Gli anni '90 erano anni in cui la domenica l'Italia si fermava per ascoltare il calcio alla radio nella speranza di aver fatto 13 al totocalcio. L'aggregazione sociale era molto più forte. Le tavolate e le adunate erano qualcosa di normale. I ragazzini crescevano frequentandosi fuori dal focolaio domestico. Vi era meno timore, da parte dei genitori, a lasciarli bazzicare le piazze fino a tarda sera.

I valori cattolici e cristiani erano molto più radicati. Il matrimonio e la messa erano parte integrante della maggioranza delle famiglie. Penso lo siano ancora, ma mi pare evidente che da quel punto di vista le cose siano cambiate parecchio. La multiculturalità porta con sé trasformazioni che spesso diluiscono le tradizioni.

Amo le tradizioni, penso che rappresentino l'apice della saggezza popolare. Sono riti che hanno superato la barriera del tempo, che sono sopravvissuti fino a noi perché veri, profondi. Ma il mondo va avanti, e certe tradizioni non sono più compatibili con i valori moderni.

Di questo parlo nella Divina Avventura. Il protagonista, Overton, si chiama esattamente come "La Finestra di Overton", un principio socio-economico che definisce questa finestra come il range di cose "accettabili socialmente". Questa finestra si muove nel tempo, proprio come Overton che continua ad evolvere, a prescindere da ciò che lo circonda.

Certe cose invece penso che non siano cambiate: la natura umana, l'amore, la paura, i desideri, quella dicotomia profonda che ci obbliga a cercare la felicità personale all'interno di una società fatta di mille altri come noi, a distinguerci senza però diventare eremiti. La nostra ricerca di un equilibrio.

Non a caso, i classici, siano essi inglesi, russi, francesi, greci, latini, italiani, sono ancora attuali. Chi mi legge conosce la mia posizione riguardo alla contemporaneità e alla classicità. Io sono per i valori antropologici che non decadono. Cerco di trovare, in questa nostra contemporaneità, dei valori universali. Nella Divina Avventura, è la ricerca della perfezione, il desiderio di appartenere a un gruppo, la religione come salvezza dal nulla di cui abbiamo paura.

E nell'Anello di Saturno, è l'amore, il destino, l'onere delle nostre scelte. Per chi ha letto il primo volume, questi temi ancora non sono emersi, sono solo abbozzati, come è giusto che sia. Ma vedrete che man mano che la storia si svilupperà, questi temi diventeranno dominanti e vi porteranno, spero, a farvi domande importanti sui rimorsi e i rimpianti.

Non smetterò di cercare di affrontare i valori e temi che ci spingono ad agire, che hanno spinto molti prima di noi e che spingeranno molti dopo di noi.

Come vi avevo anticipato, per la prossima saga voglio coinvolgervi. Quindi, ancora prima di condividere con voi una storia, voglio capire quali valori potrei affrontare.

Scegliete: vendetta, fratellanza, malattia, sacrificio, disillusione, redenzione o ossessione?

Come nasce un'idea?

Di sabato cammino. Quando riesco e trovo il tempo, mi faccio delle lunghe camminate per Roma. L'antica Roma, quella cinta dal Tevere, che si espone in tutta la sua bellezza senza però esibirsi. Non ne ha bisogno. Roma è Roma.

Camminando, mi vengono idee. Idee per il diario, idee per nuove storie.

Questa settimana ho finalmente completato la prima stesura del volume cinque dell'Anello di Saturno. Per chi mi segue da tempo, è facile immaginare come questo sia importante. È una saga che ho scritto per molti mesi, a cui mi sono dedicato anima e corpo per un'infinità di ore. Ho rinunciato a molti progetti cinematografici per potermi dedicare a questa storia che, come vedrete a breve con il secondo volume, che esce il primo agosto, cresce sempre di più.

L'Anello di Saturno è scritto in cinque volumi, come fossero cinque stagioni di una serie TV. Ogni volume è poi suddiviso in dieci capitoli, che sarebbero gli episodi. E poi, ogni capitolo è composto da precisi movimenti per renderlo autonomo ma allo stesso tempo portare avanti la trama. Insomma, è un lavorone! Il motivo di tutto questo? Perché sono figlio dei miei tempi, e voglio dare al lettore la possibilità di fermarsi senza interrompere il flusso, proprio come in una serie. In questo modo, non solo la saga è facilmente pensabile in un'ipotetico adattamento cinema/tv, ma possiede anche un proprio ritmo interno che culla chi la legge.

Oggi voglio parlare delle idee. Ne parlo spesso, è un mio tema ricorrente. Per me le idee sono intuizioni che provengono dall'osservazione, dall'ascolto della vita e anche da un'apertura di mente e di anima. Tutto questo è necessario per accedere a quel mondo sommerso, nascosto, che Kant chiama Il Noumeno. Il luogo dei non luoghi. Il luogo oltre il fenomeno, che esiste, ma non c'è dato conoscere.

Le idee sono vita, nascono. Una buona idea non esisteva prima della sua nascita. È proprio questo che la rende così attraente e preziosa. Spesso mi sono sentito dire che "l'idea non vale niente, è l'esecuzione che vale." Questo discorso, ahimé, è la fotografia del tempo in cui viviamo. Un mondo in cui il valore non sta nel mistero della creazione, ma nella sua mercificazione. Questa società ci insegna che vale solo ciò che può essere venduto. Per fortuna in Italia, vuoi per le radici culturali profondamente umanistiche che abbiamo ereditato dai nostri avi, vige ancora il pensiero che vi sono cose che hanno valore a prescindere dal loro prezzo. La vita, la salute, l'amicizia, l'amore. I valori, quelli veri.

Quindi io, che sono un umanista esistenziale, non posso che dare la priorità alle idee. Le idee valgono, tanto. Tantissimo. Perché averne di nuove non è facile. Richiede pazienza, ascolto e osservazione. Qualità che in questo furore sociale nel quale viviamo, tempestati di rumori, guerre, nervosismi e compiti da portare avanti fino alla fine della nostra vita, è difficile avere.

Quindi, per prima cosa, per avere idee bisogna avere tempo! Eccolo, il vero valore della vita. Chiedete anche all'uomo più ricco del mondo se potesse scegliere tra tutta la sua fortuna o cento anni di vita (sana) in più e scoprirete subito quale è il vero valore dell'esistenza: Il tempo. Se immaginiamo una buona idea come la figlia del tempo perduto ad ascoltare il mondo, allora ecco che il suo vero valore emerge.

Ma quale folle sciocco investirebbe la propria vita in una tale impresa?

Presente!

Amo perdermi. Amo la crisi. Amo le idee. Ho scritto tanto, ieri riguardavo un po' tutti i lavori che ho prodotto. Tre testi teatrali, cinque sceneggiature, due videogiochi, due libri non pubblicati, e poi la Divina Avventura, e ora cinque volumi dell'Anello di Saturno. In mezzo a questo, poesie, lettere d'amore e imprese di ogni tipo. Alla fonte delle mie azioni, c'è sempre un'idea. A volte buona, a volte scarsa, e poi, segue la fatica della realizzazione, onere che mi prendo io, poiché sono pessimo nel trovare collaborazioni.

Chissà, forse con l'Anello cambierà, e troverò un produttore interessato a svilupparne la serie. Le vendite stanno andando forte, sono uno scrittore emergente, ma i numeri che sta facendo la saga sono davvero ottimi, quindi, procedo con cautela e quando la saga sarà finita, ed emergerà il valore della mia idea per intero, sono certo che l'Anello di Saturno troverà il suo produttore.

Rileggendo questa pagina, mi rendo conto di essere caduto in un vortice di flusso di pensiero. Penso che sia questa la vera natura del diario: la condivisione dei miei pensieri, a volte intimi, a volte generalizzati, sulla vita, sul mondo, sul mio percorso d'artista.

Ho una domanda: pubblicando due volte a settimana, forse potrei fare un articolo "libero" e uno "a tema". Per quest'ultimo, ci sono degli aspetti che vorreste che io affrontassi? Se me li scrivete nei commenti, prometto di metterli nel diario. E di scriverci sopra. Vorrei che questo giardino, ormai più che fiorito, diventasse una vera fonte di dialogo tra me e voi, ma non solo nei commenti, ma nel cuore del testo che scrivo ogni settimana.

Quindi scrivetemi e ditemi se volete che affronti un tema, e lo farò.

La crisi dello streaming

Ultimamente, quando vado su una piattaforma streaming, passo più tempo a decidere cosa guardare che a guardare qualcosa. Capita anche a voi?

Nel 2023, le piattaforme hanno registrato, secondo i dati ufficiali, una perdita complessiva di 5 miliardi di dollari. Questo ha spinto molte aziende a rivedere le loro strategie, portando a fusioni e - come sappiamo - aumenti dei costi degli abbonamenti. Oggi voglio condividere una teoria su uno dei possibili motivi di questa crisi, che coinvolge però i temi a me cari: lo storytelling, e anche dati analitici e intelligenza artificiale.

Ricordate i tempi di "Roma" di Alfonso Cuarón? Era il 2018, non molto tempo fa. Ricordate che meraviglia era aprire Netflix? Io sì. Ero felice di andare sulla piattaforma, perché sapevo che stavano spendendo tutti i loro sforzi valorizzando artisti, con lo scopo di portarli sulla loro piattaforma.

All'inizio di questa rivoluzione, dovete sapere che le piattaforme streaming non erano viste di buon occhio da Hollywood e dal cinema in generale. Spesso succede con le nuove tecnologie. Il mondo del cinema è cambiato radicalmente: abbiamo assistito, in questi ultimi dieci anni, al crollo delle presenze in sala, dovuto perlopiù alla nascita delle piattaforme, al 4K, ai televisori giganti a prezzi bassi, ecc.

Insomma, ci fu un tempo in cui lo scopo di Netflix sembrava essere quello di conquistare gli artisti per ottenere credibilità e nuovi clienti. Offrirono a Cuarón più del necessario per realizzare un film che nessuno voleva fargli fare, e cosa è successo? Il capolavoro. Eh sì, perché se date a un genio la possibilità di esprimersi in piena potenza e libertà, le probabilità che vi dia un capolavoro sono alte.

Ma poi, negli anni, l'offerta delle piattaforme è andata a omogeneizzarsi. Le serie troppo "originali" e poco ortodosse venivano fermate a metà strada (penso a "The OA") per via degli ascolti bassi, e nuove serie, simili alle precedenti di successo, si sono moltiplicate. Per quale motivo?

Netflix, Amazon, ecc., sono società definite "data driven", cioè che seguono i "dati". Il famoso algoritmo. All'inizio, però, di dati non ne avevano, e quindi hanno chiamato i migliori artisti, usando i "dati" del mondo. "Chi sono i migliori registi? I migliori contastorie? Assumiamoli e facciamogli fare qualcosa di creativo. Poi faremo un'analisi di cosa funziona e capiremo."

E così, anno dopo anno, i dati hanno cominciato a popolare i tabulati. Qualcosa funzionava, qualcos'altro no. E sono cominciate a cadere le prime teste: le serie che non sembravano produrre il traino necessario venivano bloccate in corso d'opera.

Quando i dati sono arrivati finalmente in cima alla piramide decisionale, gli uomini d'ufficio, lontani dal campo di battaglia dell'arte, hanno pensato di avere il sacro graal. I dati hanno modellato la nuova generazione di prodotti, con la certezza che così facendo si abbattesse il rischio di un fallimento, di una brutta opera d'arte. Ed ecco che quello che prima era una fucina di caos e di creatività, si è trasformato nell'incasellamento dell'emozione, nel tentativo di controllare l'arte con una formula. Ah, l'eterno dilemma tra forma e sostanza!

Questa teoria non è certo nuova e sono in tanti ad averla affrontata. Il settore è in crisi, e la soluzione sembra essere abbonamenti più alti, meno condivisioni, insomma, più introito. Molti tendono più a conferire l'onere della crisi al contesto industriale, piuttosto che a quello creativo.

Non sono un economista e il mio focus è sullo storytelling. Il mio è un invito a riflettere a tutti coloro che sono coinvolti in questo sistema produttivo complesso e articolato. Da Aristotele in poi, abbiamo sempre provato a meccanizzare la storia. A comprendere cosa rendesse una storia davvero interessante, a livello meccanico. E Questi dati e algoritmi non sono altro che un ennesimo strumento di analisi di ciò che è stato fatto, non di ciò che deve essere ancora scoperto.

Non esiste una formula definitiva di successo per una buona storia, o per un buon film o serie, perché non sono i dati a creare la bellezza, ad emozionare o a far sognare. È l'anima del poeta che affronta con coraggio la possibilità di fallire, e che salpa alla scoperta dell'ignoto, proprio come il protagonista della Divina Avventura.

Con l'avvento dell'intelligenza artificiale e dei modelli LLM, il messaggio della Divina Avventura diventa sempre più importante: noi dobbiamo cercare una sensibilità più vicina al cuore che alla matematica. Imperfetta, quindi umana. E poi, chi sceglie la strada dell'arte, deve lottare per quel desiderio, sperimentare, rischiare, tuffarsi verso l'ignoto. Il timone va dato agli artisti, non alle macchine!

La sicurezza in se stessi

Lasciate che vi sveli un piccolo grande segreto sulla recitazione: non conta il modo in cui dite qualcosa, conta la sicurezza con cui emettete il significato.

Oserei dire che questo non vale solo nell'atto recitativo, ma in ogni cosa della vita che riguarda la comunicazione. La sicurezza del gesto è ciò che definisce un grande ballerino o un calciatore; la sicurezza delle idee è il primo segno di visione, che governa la realizzazione. Senza di essa, la deriva è alle porte.

Insomma, la sicurezza in se stessi sembra essere una componente chiave della realizzazione. Oggi voglio affrontarla e comprendere se posso darvi qualcosa, se posso, attraverso la mia conoscenza della recitazione, offrire un punto di vista fresco su una questione antica come la storia dell'uomo.

Prima di tutto, che cosa è davvero la sicurezza in noi stessi? Essere sfrontati? Essere certi di avere ragione? Avere coraggio? Avere la forza di non ascoltare altro che noi stessi? A sentire questo elenco, si potrebbe pensare che l'arroganza sia il tratto distintivo del sicuro.

Nulla di più sbagliato.

Questo elenco è ciò che si osserva quando si vede qualcuno sicuro di sé, ma non sono queste le forze che lo governano.

Una volta lessi una domanda: "Come si fa a riconoscere qualcuno di più bravo di noi?"

Una risposta mi colpì: "Se vedi una persona che ha spesso successo, e a te sembra che sia fortuna, hai trovato qualcuno di più bravo di te." L'ho trovata geniale come risposta, perché in effetti, l'ignoranza rende tutto magico, e ciò che proviene dal metodo e dalla ricerca, sembra, agli occhi di colui che ignora, frutto del caso e della fortuna.

La sicurezza in sé è merce rara, ambita da molti. Penso che in tanti la simulino, partendo da ciò che hanno osservato in coloro che la hanno davvero. E così, ecco nascere, per via dell'insicurezza, l'arroganza, la determinazione cieca, la violenza della volontà.

Un paradosso, non trovate? La ricerca di perfezione, se affrontata esteriormente, porta all'imperfezione. Proprio come Kato nella Divina Avventura, coloro che non mettono in discussione sé e il mondo, si ritrovano, ad un certo punto della vita, ingabbiati dai loro pregiudizi, incapaci di evolversi, come fa invece l'allievo Overton, che pur venendo dagli abissi della terra, dal deserto, dall'istinto della materia, raggiunge vette superiori al maestro. Overton è un ragazzo bestia, che però porta con sé la perla della crisi.

La sicurezza in sé, quella sincera, proviene, credo, dall'accettazione di questa nostra imperfezione, ma non basta. Deve essere corredata da curiosità, conoscenza e ascolto. Ho avuto, nella mia carriera, la fortuna di collaborare con molti artisti considerati geniali. Ognuno di loro aveva una forma di sicurezza evidente, ma era spesso accompagnata da un'anima fragile e piena di demoni latenti. Anche loro, come ognuno di noi, vivevano il conflitto interno.

La sicurezza in sé non è la fine della nostra guerra interiore, ma l'accettazione che il percorso che spetta a tutti noi, quello verso la conoscenza, non avrà mai fine, e che il nostro passaggio in questa realtà è un mistero che mai verrà svelato.

Ecco, penso che accettare questo mistero sia il primo passo per avere, nei confronti di noi stessi e degli altri, quell'amore necessario ad essere sicuri.

Solo lo stolto non cambia mai idea, no?

La modernità Liquida

Oggi, in questa pagina, voglio scrivere a Janaina. Mi ha chiesto di parlare della modernità liquida, un tema profondo e interessante, al quale ho dedicato, tempo fa, una poesia che vi allego. Anzi, questa volta, ho anche deciso di leggerla e scriverla sulla pagina.

RETE SOCIALE

Profili liquidi,
Cangianti e statici.
Mentori di sé stessi,
Alunni del proprio eco.
Piroette digitali,
Gli occhi specchiati
Nell'oscurità
Dei loro display.

A volte, attingere a ciò che abbiamo fatto per approfondire, persino riscoprire parti di realtà, è un modo per aggiornare la nostra visione del mondo. Partendo da ciò che abbiamo prodotto, possiamo testare la validità dei nostri argomenti.

Io credo nel contenuto classico. Cosa intendo per classico? Intendo un contenuto che superi la barriera dell'essere "contemporaneo". Un testo classico parla agli uomini e alle donne di ogni epoca, poiché affronta i problemi essenziali della vita, in una forma che non è strettamente legata al momento presente, ma alla nostra natura.

Ogni uomo e ogni donna può rivedere se stesso in Ulisse, nel suo tentativo di tornare a casa. E cosa dire di Edipo, di Elettra, di Achille? E poi ci sono i classici del teatro: Amleto e il suo dilemma, Otello e la sua gelosia. Eterni, per sempre presenti.

Se da una parte vi è il classico, dall'altra parte vi è il contemporaneo, l'attuale, la moda. Quel perenne inseguire il presente per attraversarlo, per sentirsi a nostra volta legati a questo tempo che fugge e passa. I contenuti che parlano del mondo nel momento in cui viene osservato, che fotografano qualcosa che esiste davanti a noi, che affrontano paure e i desideri del momento.

Badate, non penso vi siano contenuti "superiori", se possiamo chiamarli così. È una questione di gusto. A volte ciò che è contemporaneo diventa classico. E spesso ciò che è classico, è anche contemporaneo.

La nostra società, digitale, cangiante appunto, malleabile più del vento, continua a inseguire la chimera del presente. I social network ci chiedono di essere attuali, veloci come non mai. Superficiali, in un certo senso. Anche perché penso che sia davvero difficile scavare nel profondo dell'anima con 180 caratteri.

Da questa velocità di pensiero e produzione scaturisce una fluidità di contenuti e di forme. Si passa dal testo all'immagine, dal suono al video, senza soluzioni di continuità.

E questo non vale solo per la forma, ma anche per il contenuto. Siamo in una società liquida, in cui la famosa finestra di Overton (che definisce ciò che è accettabile) si muove giornalmente, continuamente. In cui la sessualità si è fatta liquida, indistinta. In cui persino i credo e le ideologie non riescono a sopravvivere a questo asfaltamento del bianco e nero. L'Annullamento della dualità.

Eraclito sarebbe confuso, si potrebbe dire. Dov'è finita la sua meravigliosa dicotomia? Il bene e il male? La fame e l'assenza di fame? La sete e l'assenza di sete? Le cose esistono perchè hanno un loro opposto.

Una società così liquida ci mette davanti a un paradosso di importanza generazionale: che cos'è la realtà? È ciò che decidiamo noi, oppure esiste a prescindere dal nostro desiderio, dalla nostra mente?

Come sempre, non ho risposte, ma qualcosa mi suggerisce che questo mondo, questa realtà che ci circonda, sia ben più importante di qualsiasi nostro credo, qualsiasi nostra regola, e anche di qualsiasi desiderio.

L'amicizia, valore supremo

L'amicizia, per me, è una forma d'amore nobile, un amore che non necessita di essere alimentato dall'Eros. Ho perso tanti amici e questo vuol dire che ne ho avuti tanti. Ma non sono mai stato uno "da branco", come si dice. Anzi, non mi piacciono proprio le dinamiche che si sviluppano nei branchi. Le trovo odiose, ripugnanti quasi. A me piace l'amicizia forte, il legame di pochi, che non si estende in area, ma si addentra nelle viscere dell'anima altrui.

Forse è per questo che da giovane facevo fatica a diventare amico degli altri, perché in un certo senso ricercavo nell'altro quello stesso desiderio di conoscenza profonda, di ascolto, di isolamento, che richiede quella qualità di legame.

Io sono uno di quelli che alle feste se ne sta accanto al muro, in attesa di quella persona con la quale parlare e, nel frattempo, osserva il mondo oppure si perde nelle proprie idee. Faccio una fatica tremenda a fare amicizia; sicuramente questo è dovuto alla mia riservatezza. Le mie origini celtiche, questo mio essere tutto sommato austero, di certo non aiutano. Rischio di sembrare arrogante. Forse lo sono, chissà. Di certo non amo discutere di cose di poco conto. E questo mi rende probabilmente antipatico ai molti.

Ho imparato però, nel tempo, ad ammorbidirmi, a sorridere e a concedermi un momento di sana leggerezza. Ecco, forse è proprio questo che mi manca: la leggerezza. Non a caso, la amo nella mia compagna e la adoro in mia figlia. Questa leggerezza, questo pensare scivolando, senza pensare, per i minuti della giornata, mi dona una tranquillità che non riesco a darmi.

Ho avuto molti amici, ma li ho persi. Vuoi per le distanze, per le incomprensioni, per il mutamento che la vita impone a tutti noi. Si cresce, si cambia lavoro, idee, desideri e ci si divide.

Spesso, quando poi rivedo amici di tempo fa, ricado in quelle situazioni che chiamo i "ti ricordi?". Non essendo più vivo il filo del presente, l'amicizia si ciba di quei meravigliosi ricordi che hanno alimentato un presente ormai passato. "Ti ricordi quando abbiamo fatto questo e quest'altro?" e giù a ridere di noi stessi, di ciò che eravamo.

Ma anche se è vero che il presente non permette di essere sempre legati, so che questi amici, nel caso ne avessi bisogno, mi aiuterebbero. E so che anche loro sanno che sono sempre qui, chiuso nella mia torre d'avorio, proprio come allora, disponibile a tutto per aiutarli. Proprio come allora.

E voi, come vivete l'amicizia? Quanto conta nella vostra vita? Siete riusciti a coltivare amici mai persi?

Come affrontare la solitudine

In una poesia nominata "Piangente", parlo della solitudine. Nell'Anello di Saturno parlo di solitudine. Persino nella Divina Avventura. Nel rispondere a questa richiesta da parte di un ascoltatore, nel cercare di capire come affronto la solitudine, mi sono reso conto che i miei protagonisti sono esseri soli, emarginati, anime vaganti alla periferia del mondo. Ma badate, non sono infelici, solo soli perché privi di un riconoscimento, di un legame con il mondo che li possa far sentire appartenenti a un gruppo.

Io non appartengo, rifuggo dalle classificazioni, dalle bandiere, dal tifo. Penso che nell'eccesso di appartenenza si annidino forze pericolose.

Si dice che quello che lo scrittore scrive, lo scrittore è. Forse è così. Forse sono solo. Fondamentalmente lo siamo tutti in fondo, no? Pavese diceva: "Si nasce e si muore da soli.". Forse si vive da soli, anche, ma cullandoci nell'illusione che i legami che sviluppiamo con gli altri ci tirino davvero fuori dalla solitudine.

Molto tempo fa ho imparato una cosa che mi ha sconvolto la percezione delle cose. Sapete che nulla si tocca? In realtà, ogni particella ha dei campi magnetici che le impediscono di toccare le altre particelle elementari. Se persino gli elementi fondanti del creato sono soli, come possiamo noi non esserlo? Questo mondo nel quale viviamo sembra essere una tempesta di sabbia, i cui granelli non si toccano mai.

Eppure, eppure…

Eppure l'amore. Eppure l'amicizia. Eppure l'odio, l'invidia, la gioia e la paura.

Tutte queste emozioni sono la prova che non siamo soli. Che siamo legati in un certo modo a quello che ci circonda. E anche se gli atomi sono isole fluttuanti perse in un cosmo di nulla, noi, la nostra anima, se vogliamo chiamarla così, percepisce oltre i burroni, oltre le barriere, l'esistenza dell'altro.

Deleuze diceva che siamo deserti che parlano ad altri deserti, io aggiungo che in quel contatto metafisico ci irrighiamo a vicenda. Quei ponti ci collegano con il resto del mondo e ci permettono di sentire che siamo parti di un grande sistema, ben più grande persino della nostra immaginazione.

Il cosmo, la realtà, la vita sono concetti immensi, impossibili da abbracciare. Vanno ascoltati, come si ascolta il vento. Vanno amati come si ama la luce del sole in una mattina di maggio. Vanno accettati, come la morte. Solo così può essere affrontata la solitudine, con la certezza che essa non è altro che un'illusione.

Non siamo mai soli, abbiamo i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri bisogni. E poi, i sensi, i ricordi, le voci degli altri che ancora vivono in noi. Noi siamo il frutto di generazioni precedenti, in noi vivono altre mille antenati, e non solo: tutti siamo rappresentanti della vita, in continuo mutamento, alla ricerca di un legame, forse. Di un senso.

Personalmente, la solitudine è un'amica con la quale passo molto tempo. Mi piace, la amo. Amo quella sensazione di libertà che mi procura. Ma sono anche consapevole che questa valle nella quale mi crogiolo mi ingobbisce, mi ruba al mondo, mi attira nelle viscere della stasi. La solitudine è il momento in cui creo, in cui entro in contatto con me stesso, in cui volo e mi lascio andare all'immaginazione, ai desideri.

Ho paura della solitudine, ma non voglio fuggire da essa: perché la amo troppo.

Come amarsi

Quando ho scritto una pagina riguardante l'arte e la bellezza, affermavo che l'importante, per alimentare lo spirito creativo, è circondarsi di cose amorevoli, da amare e che ci amano. Lo ribadisco: penso che sia davvero la prima cosa da fare per una sana igiene dell'anima. È essenziale scacciare via coloro che ci fanno essere la versione peggiore di noi stessi e abbracciare chi ci rende felici, rispettati e amati.

Tuttavia, una domanda mi colse impreparato: «Ma come faccio ad amarmi?». È una domanda potente, tragica, struggente. Colui che si pone questa domanda si trova in un oceano di caos, dal quale è difficile persino scorgere l'orizzonte, tanto alte sono le onde che lo travolgono.

Io sono un ragazzo fortunato, come direbbe Jovanotti, cresciuto tra le braccia amorevoli di due genitori a cui devo tutto. Mi hanno guidato, indicandomi i limiti con la severità che solo l'amore può esprimere: con un sorriso e una carezza, intransigente, ma per il mio bene. Per molti anni sono stati il mio rifugio e lo sono ancora, quando, a volte, affronto delle crisi, sia riguardo a scelte di carriera sia a sconvolgimenti emotivi. In quei momenti, vado da loro. E loro, inevitabilmente, mi ascoltano e mi rispondono.

A tutte le mie domande, da piccolo, mio padre rispondeva assiduamente, mentre mia madre mi spingeva a interrogarmi e a vedere il mondo attraverso le lenti dello scetticismo.

Dunque, alla domanda «come fare ad amarsi», non ho, purtroppo, una risposta. E non me la sento di darne una. Sarebbe banale, priva di vera sostanza. Potrei dire: «Fallo e basta». Perché è così: l'amore è una scelta, un atto di volontà primitivo e originale. Nell'Anello di Saturno, è addirittura l'amore che fa nascere il nostro mondo. In questa cosmogonia, siamo tutti figli dell'amore. E quindi, in un certo senso, siamo noi stessi amore.

Ma a volte succede che persino l'amore non ama sé stesso. Perché ha paura, teme l'ignoto, teme sé stesso, teme il dolore che l'amore può scatenare. Perché amare non è solo piacere e gioia. Amare a volte significa rinunciare, soffrire, lottare, vivere.

Anche a me capita di non amarmi a volte, di odiarmi quasi, quando sbaglio, quando non sono all'altezza, quando esagero, quando non agisco e so che dovrei farlo. Succede. Siamo tutti esseri fallibili. E forse, amarsi è proprio questo: accettare di non essere perfetti.

Prosa e Poesia

Spesso mi capita di fermarmi davanti a una frase e di passare decine di minuti a elaborarne la forma più bella. È un vizio della poesia, quello di voler creare un costrutto di parole che sia il minimo comun denominatore tra forma e sostanza. Tuttavia, la prosa del romanzo è un animale diverso. La lettura è musica che accompagna per ore; le mie poesie, invece, sono perle di poche parole, idee, bolle di sapone che viaggiano nell'aria.

Se la Divina Avventura ha un difetto, credo sia proprio quello di aver spinto troppo verso una densità poetica. È una qualità, ne sono consapevole, ma è anche un grande difetto, in quanto è, come mi è stato detto durante una bellissima conferenza a Napoli, un libro che impone la monogamia. Va letto da solo e nel silenzio della propria anima aperta.

Proprio per questo motivo, nello scrivere L'Anello di Saturno, ho scelto di lavorare su questa mia densità poetica, che ho visto riversarsi persino negli eventi che nella Divina Avventura si susseguono senza uno spazio per respirare, come se ogni cosa dovesse essere messa al proprio posto, senza spazi vuoti, ermetico in tutti i sensi.

In L'Anello di Saturno, come avrete potuto percepire dai primi capitoli, è diverso. La narrazione fluisce calma, ci sono bolle d'aria, pensieri introversi, descrizioni. È una passeggiata nel bosco, di pomeriggio, con gli uccellini e i raggi che fendono la canopea.

Sono certo che questo approccio, difficoltoso per me all'inizio, mi abbia aiutato a espandere la mia prosa. Come un buon vino rosso, lasciato a decantare per ossigenarsi. È anche il motivo per cui ho scelto volutamente di sviluppare la storia in cinque volumi. Per obbligarmi, in un certo senso, a questo esercizio che non è di stile, ma di arte, di ricerca. A questo serve distinguere i nostri punti deboli, ad affrontarli e a cercare di farli diventare una qualità, invece che un difetto.

Spero davvero di esserci riuscito. Questo diario è per me un modo per esorcizzare le mie paure, condividendole con voi, certo, ma anche scoprendole. Ho sempre il timore di non essere all'altezza, né agli occhi di coloro che fanno questo lavoro da anni, né a quelli di quel lupo inferocito che ho dentro e che a volte si desta, e che guarda al successo come se fosse l'unica stella polare.

Questo silenzio nella mia prosa è anche una risposta a quel lupo. Come se gli dicessi: "Respira, goditi il mondo, che poi passa."

Non ci riesco spesso, ma a volte sento quasi di farcela. Chissà, magari io e quel lupo, un giorno, ce ne staremo tranquilli su un prato, a giocare al nulla.

Trova il tuo maestro

Quando facevo l'assistente alla regia, ho avuto la fortuna di assistere, ed è il caso di dirlo, al processo creativo di uomini che avevano dedicato la loro vita allo sviluppo artistico. Ognuno di loro possedeva una propria visione dell'arte, un arsenale di trucchi e segreti, frutto di intuizioni che avevano forgiato il loro percorso artistico. Matthias Langhoff, Maurizio Nichetti, Marco Sciaccaluga: tre registi dai quali ho imparato molto, in diverse dimensioni dell'arte, da come comportarsi (Marco), a come concepire una visione (Matthias), fino a come strutturare la produzione artistica (Maurizio). Ma poi c'è stato anche Massimo Mesciulam, che mi ha trasmesso la sua visione della recitazione e le sue tecniche. Marco, Maurizio, Matthias, Massimo. I miei M. I miei maestri d'arte.

Vi racconterò come ho scelto Matthias. Ero assistente alla regia di Marco e, un giorno, durante l'allestimento di "Madre Courage e i suoi figli", vidi Matthias infuriarsi per quella che considerava una mancanza di rispetto verso il poeta, Bertold Brecht, autore dell'opera.
In un impeto di passione, Matthias salì sul palcoscenico, animato da un dolore autentico, perché sentiva che la messa in scena non rendeva giustizia all'intento originale del poeta. Personalmente, ritengo che ogni regista abbia la libertà di interpretare l'opera, come vuole poiché in quel momento è lui l'artista. Tuttavia, fu la passione e la sensibilità di Matthias a catturarmi come un magnete. Quando scese dal palco, mi avvicinai a lui e gli dissi: "Matthias, voglio essere tuo allievo. Voglio assisterti." E così fu. Matthias mi insegnò moltissimo, perché ero stato io a sceglierlo.

Se ho avuto un talento, è stato quello di riconoscere i maestri. Nel secondo anno della scuola di teatro stabile, ebbi l'opportunità di essere selezionato tra i migliori allievi per uno stage intensivo di quasi un mese con allievi di altre scuole europee e maestri proveniente da tutto il mondo. La prima settimana fu un tour de force di mini-lezioni sulla drammaturgia inglese, commedia dell'arte, danza messicana, butoh giapponese e tecniche di canto e allenamento indiani: insomma un'esperienza straordinaria. Spinto dalla mia inesauribile curiosità, decisi di immergermi nel Butoh, riconoscendo nel maestro Katsura Kan una fonte di sapere e ispirazione.

E così mi immersi in una dimensione completamente diversa dalla mia abituale realtà teatrale. Questa esperienza non solo mi ha aperto la mente, ma anche il corpo!

Individuare i propri maestri è un talento. Quando comprendiamo che esistono uomini e donne nel mondo con un bagaglio di conoscenza e arte vasto come il tempo che hanno vissuto, allora capiamo quante inesauribili fonti di conoscenza, esperienza e formazione siano a nostra disposizione.

Non esistono scuole che possano creare artisti: perché sono gli allievi a scegliere i propri maestri, non il contrario. È il valore dell'individuo artista, che si riflette e plasma l'opera, a renderla magica. Questo avviene spesso quando l'artista, finalmente sicuro di sé e consapevole del territorio in cui si muove, decide, con esperienza ed estro, di andare oltre i confini tracciati dai maestri, alla ricerca di nuovi orizzonti sconosciuti.

Come sviluppare la creatività?

Sono un creativo e mi piace immaginare. A volte, mi viene chiesto: «Ma come ti è venuta in mente quest'idea?» e non so rispondere. Non conosco le dinamiche che mi portano all'ideazione. È difficile anche tracciarle, poiché ritengo che l'idea sia semplicemente la manifestazione esteriore di un movimento interiore, che include molti aspetti della persona: la sua formazione, i suoi desideri, la sua indole, ma anche il momento, il meteo, l'ora, lo stato emotivo. In sintesi, la creatività è un fenomeno complesso, che non può essere affrontato come una singola disciplina, ma piuttosto come una dimensione multidisciplinare. Ed è così che voglio affrontarla oggi, cercando di capire i meccanismi che portano all'idea.

Prima di tutto, vi è la persona: l'io, la mente. Questo insieme magmatico di paure, desideri, formazione. Le voci esteriori, come quelle dei nostri genitori, dei nostri amici, della società. Questa persona non è solo mente, ma anche emozione: il battito cardiaco, la respirazione, la voce. Sensazioni di abbandono, di felicità. Tutto lo spettro delle nostre emozioni veicola, all'io, una prospettiva unica sul proprio bagaglio interiore.

Poi, oltre l'io e le emozioni, c'è il corpo: la fisiologia. Stiamo correndo, camminando, digerendo; abbiamo nicotina, caffeina, sonno, appena svegliati. La nostra biologia, i nostri muscoli, quanto sono allenati, la nostra schiena, quanto è diritta. Ma anche se vediamo bene. Io, per esempio, sono miope, e questo mi limita tantissimo nella percezione del mondo. Senza occhiali, vivo in una bolla sfuocata. (Per chi volesse saperlo, mi mancano 5.25 e 5.75, che, diciamolo, mi mette di fatto tra le talpe del mondo.)

Ma questa mente, piena di emozioni in un corpo vivo, vive nel mondo. E qui entrano le dinamiche esterne. C'è la luce del sole, il pallore della luna. La musica di Chopin o il traffico cittadino. Fa freddo, fa caldo.

Ora vi svelo un segreto: le idee, secondo me, stanno nel numeno. E se tutte queste variabili, che ho elencato, sono tarate al punto giusto, in equilibrio tra loro, allora, a volte, entriamo in contatto con il regno delle idee, il numeno. Per chi non sapesse cos'è il numeno: Il numen, nella sua origine romana, rappresentava una forza divina o presenza spirituale che permeava il mondo naturale, guidando e influenzando la vita quotidiana attraverso entità o aspetti sacri della realtà. Questo concetto, trasposto nella filosofia moderna, trova un parallelo nella nozione kantiana di "noumenon" o "cosa in sé", che si riferisce alla realtà ultima che sta al di là della percezione umana e delle esperienze sensoriali. Cioè qualcosa che non possiamo conoscere.

Come fare, quindi, a ottenere questo allineamento? Metodo e disciplina. Cibarsi con cibi sani, sia per l'anima che per il corpo, che del mondo e circondandoci di bellezza, bellezza architettonica, bellezza artistica, musicale. Cercare arricchimento classico e curiosità. Approfondire le sfumature della realtà, infilarsi nelle pieghe del creato alla ricerca di ciò che non conosciamo. Camminare ad occhi aperti, grati dell'esperienza che ci è stata data di vivere questa Divina Avventura che è la vita.

L'intelligenza creativa

Si può essere razionali e creativi al contempo?

Pochi giorni fa, proprio su queste pagine del diario, ho avuto uno scambio molto interessante su due termini vicini ma così distanti: artista e artigiano. Spesso il primo viene identificato con il genio e la sregolatezza, il secondo con il metodo e la maestria del gesto.

Dicotomie perenni anche nella mia mente. Sono un artista o un artigiano? Sono un creativo o un razionalista? Penso entrambi e ritengo, soprattutto, che entrambe le strade siano necessarie per la crescita di una consapevolezza artistica che vada oltre la semplice emozione o il semplice pensiero.

La scrittura è un pensiero emozionante. Una forma sublime di crasi tra la logica e il cuore. Nell'atto di scrivere mi succede di passare ore su una virgola, su una parola. E poi, un demone mi attraversa e comincio a scrivere per ore, senza rileggermi, defluendo qualcosa che aspettava di emergere. Mi piace pensare che sia la mia anima che nuota nel numeno e che mi spedisce forme e concetti inespressi, affinché la mia mente razionale possa in seguito dare loro una forma intellegibile, semplice, fluida.

È un'illusione della mente? Esiste davvero qualcos'altro, più grande di noi, che ci attraversa? Non ci sono risposte, ma solo domande. E io, come immagino si evinca da queste pagine, ne sono avido.

Da millenni, grazie alla tecnologia, l'uomo razionalizza tutto. La scienza, con il suo incessante sviluppo, continua a incasellare la realtà, a definirla in maniera ripetibile, inequivocabile, alla ricerca di quella formula che tutto include. Le macchine, ultimamente – parlo degli algoritmi di LLM – sono capaci di razionalizzare ogni campo dello scibile umano, di comprimerlo e riproporlo in infinite varianti. Ma si tratta sempre di ciò che già conosciamo. La scienza è l'analisi di un percorso già fatto. Il percorso verso l'ignoto, però, spetta a noi uomini, non alle macchine. Queste ci aiutano a camminare più velocemente, a viaggiare tra le stelle. Ma il percorso di scoperta, che mai finirà, è nostro e solo nostro. E l'artista, in questo, è uno di coloro che porta la fiaccola, che esplora non il macrocosmo, ma il microcosmo dell'anima interiore, dell'umanità che in noi ci accende.

In sintesi, quello che sto dicendo è che la vera intelligenza non sta nella capacità di rispondere alle domande, ma piuttosto nel saperne fare di nuove. Il percorso verso una nuova risposta, che la scienza non conosce, ci porterà a una possibile soluzione ed è vitale, potente, necessario. Ed è questo percorso che ci identifica come quella meravigliosa specie di Homo Sapiens che vive in un granello blu in mezzo a un oceano infinito di stelle.

Scienza e arte, matematica e filosofia, fisica e umanesimo: due facce della stessa anima. La nostra.

Arte Immortale

Anelo a sopravvivere la morte. Chi non lo ha mai sognato? Io penso che ogni artista, che inevitabilmente affronta la caducità della propria vita e la potenza del tempo che passa, sia stato attraversato da questo desiderio. Anzi, è probabile che ognuno di noi, in un modo o nell'altro, si sia chiesto come immortalare la propria presenza in questa realtà, di cui sappiamo troppo poco.

Voi lo avete mai sognato? Molti film hanno esplorato il concetto di immortalità, dal Sacro Graal a Highlander, passando per le leggende dei vampiri. Il tema è molto caro all'uomo, e non a caso. La morte, come le tasse, è l'unica cosa certa.

Ma è davvero così? Possiamo davvero ascendere all'immortalità? Certamente non con l'arte, ma nemmeno con la scienza. Se pensate che tra quattro miliardi di anni il Sole ingloberà l'intero sistema solare, e l'umanità sarà andata oltre ogni possibile immaginazione, sempre che ci sia ancora, penso che non rimarrà qualcosa nemmeno di Cristoforo Colombo o di Tutankhamon. Figuriamoci di Dante o Shakespeare.

"Siamo viole dal profumo inebriante che appassiranno alla fine dei loro giorni", come scrivo nell'incipit della Divina Avventura. Il libro è un vero percorso verso la consapevolezza della morte, del mistero. E l'ultimo pensiero di Kato, il narratore, prima di morire, è molto semplice: vivere. Portarsi dietro la vita. In questo sento che la vita è come un movimento tragico di un'opera sinfonica che finisce (o inizia?) con la morte.

La vita è morte. Come diceva Shakespeare in "Misura per misura": "Se la morte è una liberazione da tutto, come può essere considerata una perdita? La vita in sé stessa è una malattia; e la morte ne è la cura; e così la mortalità, come una ferita, si rimargina con la stessa lancia che l'ha inferta."

Non sono certo il primo a pormi queste domande. Forse è l'età; sono in quello che si può definire "il mezzo del cammin della mia vita" e quindi inevitabilmente mi pongo delle domande: "Che cosa farà Elettra, mia figlia, quando non sarò più qui?" "Cosa voglio lasciare a lei?" "Che impronta voglio lasciare in coloro che verranno dopo di me?"

Scrivendo queste pagine, capisco che sono ancora incentrato sul futuro. Uno strano futuro in cui non ci sono più, ma pur sempre un futuro. Questo vuol dire che sono ancora vivo dentro.

Ma tornando al presente, il sogno dell'artista di superare il tempo è quindi illusorio. Certo, ma si sa, l'artista vive di illusioni. Il fuoco del desiderio è ciò che lo anima, e mai e poi mai dovrebbe rinunciarvici. L'artista vuole comunicare, dire, esprimere per emozionare. E più persone riesce a colpire, più si sente utile, giusto, in un certo senso. E quindi, se i vivi non lo capiscono (come spesso succede), il sogno che gli uomini del futuro possano intercettare il suo pensiero, la sua arte, gli permette di rimanere vivo, di non sprofondare negli abissi del pensare che la sua arte è inutile.

È successo a molti, pittori, scrittori, filosofi, persino scienziati. Spesso i geni superano la consapevolezza del presente, e nella loro espressione, che sia intellettuale, estetica o emotiva, vi possono essere elementi irriconoscibili a chi non ha gli occhi per vedere. Succede. Ci sono modi per far sì che queste barriere vengano superate, metodi per farsi conoscere, per far conoscere la propria arte, per farsi capire, per crearsi un pubblico; un giorno ne parlerò.

Ma per ora, vi basti pensare che il tempo è certo tiranno, ma è il miglior amico di sogni e illusioni. Quindi, per un attimo, lasciate che mi culli in un tempo in cui la mia presenza è lieve, ma la mia opera respira nelle anime dei vivi.

Il cantastorie digitale

And the winner is...

La Sigaretta e l'amore

Devo essere sincero, è anche il mio preferito, perché incarna molti aspetti del libro, pur non svelando molto. Ci sono loro due, l'amore nella sua complessità, la loro complicità nascente, ma anche un accenno all'Anello di Saturno. Insomma, grazie a tutti e a tutte per aver votato! Se la giocavano questo e "La strada in tempesta".

Terzo un po' più lontano, "il primo incontro".

Quindi, la sigaretta e l'amore, sarà il brano che utilizzerò per presentare l'audiolibro del primo volume dell'Anello di Saturno negli store. Speriamo bene....

E ora... Diario D'artista.

Faccio troppo. È un mio tratto distintivo: mi entusiasmo facilmente e mi faccio trascinare dalle idee, dai sogni.

A volte, mi dico che esagero. Che voglio fare troppo. Non solo me lo dico, ma è proprio così. Voglio fare tutto, controllare tutto, essere regista, scrittore, attore, imprenditore, poeta, e chi più ne ha più ne metta.

So che questo mio essere complesso mi è di ostacolo, poiché mi obbliga, in un certo senso, a fuggire da me stesso, a non dare un'immagine costante di me. È come se ogni giorno, al lavoro, vi ritrovaste davanti il vostro collega con una capigliatura diversa, un vestito completamente diverso, un atteggiamento diverso. "Poco affidabile", direbbe qualcuno, di primo acchito. È comprensibile. L'essere umano, sin da bambino, vuole la routine, cerca ciò che conosce, che gli dà stabilità e tranquillità.

Temo che, almeno per ora, io non rientri in questa casistica. Badate, provo a contenere quello che faccio, a tentare di comunicare per "compartimenti stagni".

Per esempio, non molti di voi sanno che prima di aver fondato Untold Games, la società di videogiochi, mi sono occupato, per molti anni, di produzione cinematografica. Ho realizzato, come produttore e regista, due film e una serie interattiva. E prima ancora, facevo il regista a teatro, mentre bazzicavo i casting romani con il sogno di fare l'attore.

Insomma, sono poliedrico, ma non è una qualità. Non in una società in cui il "brand", cioè la riconoscibilità, paga. Molti miei colleghi attori hanno giustamente scelto di fare questo e solo questo, di indirizzare tutta la loro forza in questo aspetto della creatività. Io invece ho preferito continuare la mia ricerca creativa, produttiva, ma non come businessman, bensì come artista, tentando di trovare forme espressive che più mi si confacevano, che più mi rendevano felice. E questo spesso a discapito della mia riconoscibilità come attore.

Quante volte mi sono sentito dire: "Ma fai anche questo? Ma no, occupati di recitazione, che sei bravo".

Insomma, si dice che la semplicità paghi, che solo il vero artista sia davvero semplice.

Belle parole, ma, da artista, non posso non chiedermi che tipo di terreno vi debba essere perché questa semplicità davvero "paghi" e non sia invece una mera scusa per evitare la profondità della complessità umana.

Personalmente, penso che perché un artista possa arrivare a una vera semplicità, fatta di tratti semplici, unici, necessari, debba prima passare per il fuoco del caos, per la caverna dell'io dove scoprire le mille sfaccettature che compongono la sua anima. Solo così, quando poi i puntini si uniranno, riuscirà, asciugando ciò che di inutile ha attorno, a trovare la propria unica strada.

Io sento che, piano piano, come un fiume che defluisce nel mare, sto trovando una strada. Non so se il racconto sia davvero l'ultima tappa dove mi fermerò. Se la figura di Omero possa essere quella che più sento mia. Un cantastorie 2.0, che dietro al falò digitale, scrive e racconta le sue storie ad una platea di molti... Conoscendomi, è improbabile, ma sento che dentro di me le acque si stanno calmando, e che forse, dopo essere uscito dalla sorgente, aver attraversato montagne, colline, valli e pianure, ho trovato una calma che rasenta, se posso sognare, il mare.

Il terapeuta dell'anima

Cosa significa essere indipendenti? Io penso che l'artista, per sua natura, sia animato da quel desiderio di essere autonomo, di vivere della propria passione e arte, senza dover rendere conto a nessuno se non al proprio pubblico.

Ho una visione romantica di questo mestiere e credo che sia l'unica che possa davvero sopravvivere all'onda di trasformazione che questa società ci sta imponendo. Siamo circondati dalle macchine, dagli algoritmi, da regole invisibili che dettano gran parte della nostra vita.

Ma persino i creatori digitali, che rappresentano l'apoteosi dell'indipendenza creativa, poiché spesso sono freelance o lavorano da soli, devono comunque postare all'ora giusta, usare gli hashtag giusti e le parole chiave opportune, per esistere, per essere visti. Siamo dipendenti dall'algoritmo.

Quindi, in un certo senso, l'artista non può essere davvero indipendente. Dovrà sempre avere a che fare con gli strumenti della comunicazione per far sapere che esiste: in questo mare digitale, nessun uomo è un'isola.

Per questo motivo credo che l'aspetto più importante e necessario in un artista sarà sempre di più la sua umanità, il suo essere manifestazione della propria visione del mondo, imperfetta, fallibile, ma autentica.

La sfera digitale è nel bel mezzo di una delle più grandi rivoluzioni industriali di tutti i tempi, l'avvento degli LLM, gli algoritmi di intelligenza artificiale capaci di produrre ciò che, fino a pochi anni fa, era esclusiva dell'intelletto umano.

Cosa ci distingue, quindi, da queste macchine? Quale aspetto di noi, come esseri umani, come artisti, è unico? Questa è una domanda che mi pongo ogni giorno, che mi assilla e alla quale penso di aver trovato una risposta adatta alle mie necessità di coltivare un senso, di rimanere "alto" nella mia esposizione: l'autenticità. Solo così, mantenendo teso il filo della nostra anima con il mondo esterno, potremo sperare di raggiungere abbastanza persone, di creare collegamenti forti abbastanza da superare i maremoti digitali. Chi segue l'artista deve sapere che le sue parole, seppur fatte di pixel, sono umane.

Come avrete intuito, è quello che cerco di fare con questo Diario. Creare un collegamento più profondo di un post sui social, questo luogo è il mio ponte, il mio giardino di autenticità. Ci provo, non sempre ci riesco; a volte sono stanco, oppure ho dei pensieri, e le mie pagine ne risentono. A volte mi perdo in meandri tecnici, filosofici, ma quelli sono parte di me, di come vedo il mondo, l'arte.

Cerco indipendenza da quando sono piccolo. Sono nato bastian contrario, come mia madre. Ho una naturale avversione nei confronti del potere e non amo che mi si dica cosa devo fare. Faccio quello che voglio, al meglio che posso. Questo comportamento, è facile immaginarlo, mi ha restituito pochi amici, ma buoni. Poi la vita ci separa, e ci si ritrova per una telefonata leggera, in cui si parla degli anni vissuti insieme. Ho 44 anni e sono ancora alla ricerca di questa indipendenza, che sembra spostarsi ogni volta che credo di afferrarla.

L'indipendenza è un desiderio di libertà, insito nell'uomo, ma siamo anche animali sociali e dobbiamo trovare un posto utile in questa società. Quindi, qual è il ruolo dell'artista in questa società? In cosa è utile un artista?

A sognare? A pensare? A ricordare agli altri quello che conta? Ad evidenziare i difetti dell'uomo, le sue qualità? A esorcizzare le paure?

Io penso che sia un po' tutto questo messo insieme: l'artista è il terapeuta dell'anima.

Il coraggio della rinuncia

Viviamo spesso in quello che viene anche chiamato "il dilemma di Icaro".

Icaro, figlio di Dedalo, lo visse nel momento in cui decise, andando contro il suggerimento del padre, di avvicinarsi troppo al sole. Come spesso succede, i miti greci ci aiutano a definire i nostri problemi e, a volte, a trovare proprio attraverso queste storie soluzioni per la nostra quotidianità. È questa la vera forza del mito, poiché non esemplifica un esempio preciso, bensì rappresenta piuttosto una metafora ad ampio raggio, che echeggia dentro di noi in maniera libera.

Icaro, figlio dell'architetto che costruì il labirinto in cui Minosse volle nascondere il minotauro, fu incarcerato insieme al padre all'interno del labirinto. Non avevano scampo: sarebbero presto stati uccisi e mangiati dal mostro, e nemmeno Dedalo era capace, tanto era complicato il labirinto da lui costruito, di trovare la via d'uscita. Così, insieme al figlio, decise di recuperare cera e piume d'uccello, con le quali fare ali per librarsi sopra le grandi mura e volare via dalla minaccia.

Il padre, premuroso e ferito nell'anima da un evento accadutogli in gioventù, quando il nipote, Taio, per eccesso di zelo festeggiò convinto di aver inventato lui la sega (che invece fu creata da Dedalo) e così facendo precipitò da un terrazzo e Taio morì tragicamente. Così Dedalo si preoccupava molto di dire al figlio di non avvicinarsi al sole, poiché la cera si sarebbe sciolta.

Sole… metafora del desiderio.

Sappiamo bene come andò. Il giovane, ebbro di libertà e di volo, desiderò salire verso il sole, toccarlo con mano e, chissà, magari incontrare il Dio che lo trascinava nel suo carro. Ahimè, proprio come aveva previsto Dedalo, le ali del figlio si sciolsero e Icaro precipitò rovinosamente nel mare, sparendo per sempre.

Tutti noi viviamo questo dilemma tra la razionalità e il desiderio. L'artista, per esempio, deve decidere quando fermarsi. Quando eccede nel darsi troppo, nel fare della sua fragilità un punto di contatto con chi lo segue, esponendo ferite ancora fresche che avrebbero bisogno di solitudine per rimarginarsi. Oppure quel momento in cui bisogna scegliere tra i soldi o la visione. Insomma, i dilemmi sono molteplici e, come ho detto all'inizio, si presentano a ogni uomo e donna di questo mondo, non solo agli artisti.

Quante volte vi siete trovati a dover fare una scelta, una decisione? Decidere: tagliare la testa alla vittima. La scelta, qualunque essa sia, è quindi una rinuncia. Ed è proprio in quella rinuncia che forgiamo il nostro carattere e definiamo, come le ali della farfalla, il nostro lontano futuro.

Ricordo bene quando decisi, molti anni fa, di rinunciare alla mia posizione vantaggiosa dentro al teatro stabile di Genova (ero un giovane regista pieno di promesse) per inseguire sogni di gloria nel cinema e nella televisione a Roma. Fu una scelta drastica, che cambiò per sempre la mia vita.

Quest'anno, per me, sarà all'insegna della scelta e del coraggio della rinuncia. La saga dell'Anello di Saturno affronta questo dilemma nel suo senso più profondo, ma anche il videogioco che abbiamo creato con Untold Games gira attorno al concetto di scelte e ripercussioni. Piccole scelte, "atomizzate", ma che se messe una dopo l'altra, generano storie completamente diverse. E dovrò occuparmi a pieno dei semi da me seminati, e questo significa che ho dovuto rinunciare ad opportunità attoriali.

Vi lascio il link al trailer del videogioco, semmai foste curiosi di scoprire questo altro "lato" di me: City 20 - Official Announcement Trailer

E voi? Qual è la scelta che avete fatto che più di tutte vi ha definito come persone?

Vi aspetto nei commenti.

Il potere della memoria

La memoria... questa magica e inafferrabile realtà che vive dentro di noi, è stata fonte di ispirazione per centinaia, migliaia di autori. Proust, con la sua Madeleine, ne fece il tassello fondamentale dell'anima. Noi siamo la nostra memoria. E senza memoria, cosa saremmo?

Personalmente, ho sempre vissuto con un occhio verso il domani, piuttosto che al passato. Ho un approccio piuttosto diffidente nei confronti della mia memoria, forse perché non mi fido del tutto di essa. Ho spesso la sensazione che sia fallace. Per esempio, sono pessimo con i nomi. Non mi ricordo i nomi di nessuno, e questo mi porta a diventare molto chiuso, poiché, in un certo senso, il dubbio di non sapere con esattezza il nome della persona con la quale sto parlando mi mette in una situazione in cui preferisco non interagire. Ed ecco fatto l'introverso. Scrivendo, mi rendo conto che forse la mia introversione è proprio una questione di memoria. Forse, se mi ricordassi meglio i nomi, non sarei così timido.

Nei miei scritti, sia nelle poesie che nella prosa da romanzo, mi ritrovo spesso ad avere a che fare con il ricordo. Un ricordo che muta a seconda di chi lo ricorda. Mi viene in mente il film "Rashomon" di Akira Kurosawa, che affronta, appunto, la stessa scena ricordata da tre persone diverse. Ogni racconto differisce significativamente dagli altri, presentando versioni contrastanti degli stessi eventi, che gettano luce sulle complesse nature umane dei personaggi e sulla difficoltà di stabilire una "verità" oggettiva.

Il ricordo ha questo potere: riscrive la realtà vissuta, collocandola là dove ci viene meglio ricordarla. Il ricordo che abbiamo nella mente non è una fotografia esatta del momento vissuto, quanto piuttosto una fotografia di come stavamo noi in quel momento, della nostra - limitata - prospettiva. È una fotografia che più viene richiamata alla memoria, più muta, proprio per via della sua caratteristica fuggente e mutevole, quasi liquida. E così, quello che era una semplice giornata in spiaggia con gli amici prende nel tempo connotazioni favolesche, magiche, dalle atmosfere romantiche. Baci rubati.

Insomma, la memoria è una parte fondamentale di quello che ci rende umani. La società stessa non potrebbe esistere senza memoria. La cultura, l'arte, le scienze sono tasselli che vengono man mano registrati nella memoria collettiva e che creano, negli anni, strutture conoscitive gigantesche, che ci permettono di immaginare il nostro futuro, di diventare demiurgi della materia, di controllare la nostra vita. La memoria è conoscenza, esperienza, strumento di sopravvivenza.

Non posso esimermi dal pensare, però, che la memoria stia diventando, nel nostro mondo iper-digitalizzato, qualcosa di statico, di immobile. Le informazioni che registriamo sono così tante che non vi sembra più esserci spazio per l'attribuzione, per l'errore, per il margine di magia. I ragazzi nati ora avranno tutta la loro vita registrata, bit per bit, su internet. Foto, frasi, video, pensieri. Tutto sarà lì, a disposizione del prossimo. E così, il margine di mistero si fa sempre più sottile, sempre più inesistente, e questo mi dispiace, perché la magia del mito, sta proprio in quello spazio di ignoto.

Per questo scrivo i miei libri: per lasciare un segno marginale, indefinito, un luogo di mistero che dia al lettore la possibilità di rileggermi e di scoprire, in questo marasma di parole, qualcosa di sé stesso.

Come credere in noi stessi

La vita dell'artista è costellata da dubbi. Dubbi sulle proprie capacità, dubbi sulle scelte da fare.

Non esiste artista che non abbia dubitato, per l'intero arco della sua carriera, della propria arte, e, di conseguenza, di sé stesso. Pochi giorni fa, proprio tra i commenti a queste pagine del "Diario D'artista", mi fu fatta la domanda: "ma come si fa a credere in noi stessi se nessuno crede in noi?"

Una domanda difficile, alla quale non so se sono capace di rispondere. Voglio evitare le solite frasi fatte. "Credi in te stesso" "Sei tu il centro del tuo mondo" etc…

Comincerò col dire che il superamento dell'insicurezza non è semplicemente un atto di volontà personale, ma un processo complesso che coinvolge molteplici aspetti della nostra vita.

Se dovessi risalire alla prima fonte del problema e immaginare una soluzione che produca, sul lungo termine, effetti positivi, direi che forse trovare persone che credono in noi sia la prima cosa da fare. Una mia cara amica, divenuta negli anni un'ottima psicologa, un giorno mi disse che esistono due tipi di persone: quelle che tirano fuori il meglio di noi, e quelle che tirano fuori il peggio. Ecco, circondarsi delle prime e allontanare le seconde è sicuramente un'igiene costruttiva.

Un'altra via è quella della formazione e dell'incontro con maestri. I maestri si scelgono, quindi dipendono da noi, dal nostro desiderio. Attraverso i maestri acquisiamo non solo una profonda consapevolezza della tecnica artistica, dell'arte in generale, ma anche parte della loro corazza. Una difesa temporanea, forse, ma utile per tutti coloro che hanno la pelle sottile e l'anima fragile. La scuola d'arte può dare, all'artista in nascere, certezze illusorie che saranno utili a sconfiggere i primi demoni, quelli superficiali.

E poi c'è la vita, quella quotidiana, semplice, ma fondamentale. Nelle cose più semplici spesso risiede il segreto di un'anima forte. La nutrizione, l'amore per il proprio corpo, per la propria salute, sono elementi che aiutano a svegliarsi con un occhio positivo verso noi stessi. Senza esagerare, ovviamente, ma camminare, fare sport, mangiare bene e farsi piacere con moderazione sono tutti elementi che, se messi uno accanto all'altro, giovano non poco all'autostima.

E infine, proprio come dice il saggio "Mens sana in corpore sano", vi è la mente. Dobbiamo allenarla, stimolarla, nutrirla. Leggere i classici, guardare film che hanno superato l'esame del tempo, evitare il cibo (mentale) spazzatura, evitare di sprecare il nostro tempo in quei contenuti che non hanno un secondo grado di lettura, figuriamoci un terzo o quarto. Siamo nell'era in cui il volume e la quantità la fanno da padroni sulla qualità.

Quindi l 'artista deve quindi essere consapevole di cosa immette nel proprio immaginario, perchè solo una mente ben nutrita può produrre frutti succulenti.

La fragilità dell'artista


A volte mi sento fatto di cristallo. Mi basta un niente per perdere fiducia in me e in tutto quello che faccio. Una folata di vento negativa, un momento in cui mi volto e non vedo nessuno, ed ecco che subito mi proietto in un universo di vuoto e fallimenti.

Immagino che succeda a tutti, che sia normale percepire quel vuoto esistenziale. Forse è dovuto a come uno ha dormito. Oppure al meteo. Ma quando succede, l'unico colpevole sono io. Ho la cattiva abitudine di sentirmi responsabile di tutto ciò che mi succede. Anche adesso che ho concluso il quarto volume della saga, in cui ho continuamente affrontato il contrasto tra destino e volontà, non riesco a non pensare che la situazione nella quale sono sia dovuta, perlopiù, alle mie scelte, ai miei desideri.

C'è da dire che mi manca da scrivere l'ultimo volume della saga. Forse il più importante. Quello in cui vi è la risoluzione, la conclusione, il mio punto di vista. E lo temo. Temo di dover fare una scelta tra questi due poli opposti della natura della vita. La volontà contro le intemperie del destino. Flavio, o tutto il resto?

Oggi che scrivo queste parole, mi sento fragile. È uno di questi giorni. Per fortuna ho accumulato, negli anni, un po' di esperienza, sufficiente a non farmi sprofondare. È come se avessi acquisito un piccolo agente nel mio cuore che quando percepisce che il limite sta arrivando, ferma tutto e dice: "Vai a dormire, vedrai che domani andrà meglio." e ormai ho imparato ad ascoltarlo.

Il timore è che al mio risveglio, quella sensazione sia ancora lì. E allora scrivo. Recito. Faccio, creo, sogno. Fuggo. Realizzo, nella speranza di dimostrare, prima di tutto a me stesso, che quello che faccio ha un senso.

La mia carriera si è mossa, fin dall'inizio, su vari distinti binari. Quello recitativo, performativo, che mi ha dato molte soddisfazioni, e quello artistico, registico, narrativo. Dentro di me brucia il sogno di lasciare il segno, di incidere, come una ferita, la mia anima nel tempo. Ma è difficile. Trovare l'equilibrio giusto tra forma, contenuto, tecnica e cuore, volontà e successo, è difficile. La volontà nasce da me, ma il successo dipende dal mondo. Un po' come il destino.

E così, in questa affannata ricerca di equilibrio, a volte, guardandomi allo specchio, mi chiedo se io non sia come Don Chisciotte, eternamente votato a combattere contro giganti che in realtà, non sono altro che mulini a vento.

Il talento della volontà

A volte mi chiedo se ho talento.

Anzi, più che "a volte", è proprio una domanda ricorrente e costante nel mio percorso d'artista.

Non sto condividendo questo pensiero per avere conferme, tutt'altro, semplicemente per rassicurare chiunque si trovi in una situazione artistica che il dubbio è un elemento fondamentale e integrante del processo creativo.

L'arte ha un problema di fondo, irrisolvibile - per fortuna oserei dire, poiché la rende ancora una disciplina misteriosa - L'arte è soggettiva. Chiunque può dire che un libro è bello, o brutto. Non importa quanto importante sia l'autore. Si può dire che un dipinto è piacevole o blando. Non ci sono regole scritte che lo impediscono. Anzi, appena qualcuno prova a creare un manifesto, a definire ciò che funziona, ecco che arriva un cigno nero che riesce, con una semplicità disarmante, a trasformare tutto.

Mi ricordo la bellissima scena dell'Amadeus di Milos Forman in cui Salieri, (interpretato da un magnifico Murray Abrahams che conobbi sul set di Peter Greenaway), incontra per la prima volta Mozart che gli fa sentire una rivisitazione di un suo brano. L'operato di Mozart è perfetto, magico, allegro. Il primo terribile incontro con la genialità che porterà Salieri alla follia.

Quindi si, spesso mi dico che forse non ho il talento necessario per essere all'altezza delle mie ambizioni. Ma per fortuna, c'è un altro aspetto del mio carattere che in questi momenti di difficoltà interviene in mio aiuto.

Sono caparbio. Ho una volontà di ferro. E se mi metto in testa una cosa, c'è il rischio che non stacco più fino a che non sono riuscito ad ottenerla. Un tratto tipico degli ossessivi, ma che, lo ammetto, mi è stato molto utile in tutti questi anni.

"Ciò che il talento non può, la volontà sopperisce."

Molte cose non vengono dette dell'arte. Ma una in particolare non viene quasi mai espressa: nell'arte il talento non è che la punta dell'iceberg. Una minuscola parte dell'artista. Importante, certo, ma instabile, mutevole come la dinamite. Per lasciare che il talento danzi come una fiamma al vento, servono basi solide, robuste. Serve tecnica, disciplina, organizzazione. E per eccellere in tutte queste cose, serve la volontà. Il famoso desiderio di cui tanto parlo nella Divina Avventura.

La forza di volontà - ed è anche uno dei temi principiali della saga dell'Anello di Saturno - piega anche il destino. Nella mitologia giapponese, spesso l'eroe è dipinto come un uomo volto all'abnegazione, al sacrificio. Ha una volontà tale che si rialza dopo ogni caduta. Perde, ma non importa. Poiché ogni sconfitta è in realtà un insegnamento.

Il percorso dell'artista è costellato di cadute. Molte più delle vittorie. Ma man mano che si procede verso la maturità, la proporzione cambia, perché l'esperienza, frutto del desiderio di farcela, porta l'artista a capire di più su sé stesso, e sulla sua arte.

Quindi, piuttosto che chiederci come si sviluppa il talento, dovremmo chiederci come si sviluppa la volontà? Quale è il segreto per desiderare? La mia ricetta la conoscete: esplorare, scoprire, capire e trovare ciò che ci piace. E poi farlo, farlo e rifarlo fino a che, dopo 10.000 ore, dopo 1 milione di parole, l'arte diventa la naturale continuazione della nostra anima.

Ho 44 anni, e ancora sono alla ricerca della mia dimensione artistica. Chissà se un giorno la troverò. Forse l'ho già trovata e non l'ho ancora capito. Un'unica cosa è certa: come una trottola impazzita, continuerò a girare fino a che avrò energia.

E voi in cosa credete? Nel talento o nella volontà? Oppure in un misto dei due?

Piccola nota a margine, forse alcuni di voi lo hanno già notato, ma ho creato una nuova sezione del sito, che si chiama"Eventi" che in sostanze è il calendario degli eventi e dei firmacopie che farò in giro per l'italia. Come vedrete, è previsto che venga a Latina, a Frascati, nel pieno centro di Rome e Udite udite, Napoli! Per i dettagli, è sufficente guardare la pagina. Non vedo l'ora di vedervi!

Una sorpresa per te

Ho scelto, come narratore della saga dell'Anello di Saturno, il Destino: un personaggio interessante e, a quanto ne so, davvero poco usato in narrativa.

Ho cominciato a scoprirlo man mano che la saga si dipanava davanti ai miei occhi. Un essere superiore, che trama l'universo e sa cosa succederà, ma anche cosa sarebbe successo se… Ama l'ordine, le direzioni chiare, i piani ben congegnati.

E ha un solo nemico: Amore.

Amore, un essere caotico, potente, selvaggio, indipendente. Vettore di confusione, di attrazioni, di pensieri che non pensano, e di cuori che non smettono di pulsare. Amore che, con un bacio, riesce a sfilare anche la più intricata trama del destino.

Quindi, visto che la saga è, in buona sostanza, una magica storia d'amore, chi, se non colui che odia l'amore, sarebbe stato il mio perfetto narratore? Il Destino.

Ovviamente, questa dimensione di colui che racconta la storia non è altro che la confezione della storia, la sua pelle più superficiale, ma non certo la sua anima o il suo cuore. Attraverso questa saga, ho cercato di maturare la mia scrittura. Consapevole di peccare di eccessiva densità, dovuta soprattutto al mio amore per la poesia sintetica ed essenziale (le mie poesie, le potete leggere qui sul mio sito, sono molto brevi ed intense, amo quel tipo di impatto). Insomma, ho compreso, con la Divina Avventura, che la densità può rivelarsi un'arma a doppio taglio. Permette di essere molto profondi in poco spazio, di toccare vette di forma e contenuto, ma il costo è la concentrazione richiesta al lettore per apprezzare a fondo il lavoro di incastro che l'autore ha fatto.

Quindi, In questa saga, senza abbandonare la mia natura, che ovviamente ha fatto di tutto per tornare, ho lottato contro il desiderio di essere conciso e ho cercato di dare aria alla mia prosa. Ecco un brano della saga dell'Anello di Saturno.

Luca scendeva i grandi scalini dietro piazza Cavour, numerosi ma bassi e agevoli. Con lo sguardo incollato allo schermo del Game Boy, illuminato dalla luce gialla dei lampioni, giocava a Tetris con grazia e calma. La batteria del gioco era ormai quasi esaurita, segnalata dalla spia rossa più debole del solito. Quando la spia lo abbandonò, tutto si spense improvvisamente. Luca si arrestò, e alzò lo sguardo per la prima volta.
Si trovava in fondo alla scalinata, di fronte agli alberi del parco, lontano dalla piazza. Alzando gli occhi verso la piazza, intravedeva ancora la punta del monumento ai caduti, ma i rumori del borgo erano scomparsi. L'odore della natura riempì le sue narici e notò il silenzio dei grilli, un'insolita quiete piacevole e cullante.
Il cielo era tempestato di stelle, più brillanti di quanto le avesse mai viste. «Sono così tante…», pensò, ammirando la Via Lattea visibile a occhio nudo e individuando pianeti come Marte, Venere e Saturno in un colpo solo.
Poi si accorse di non essere solo. A una decina di metri da lui, alla sua sinistra, sedeva una ragazza sotto la luce gialla dell'unico lampione acceso. Era ferma, con le ginocchia piegate, un libro in mano e una sigaretta spenta tra le labbra.

Ecco. Ora, senza neanche saperlo, siete diventati lettori della saga! Spero che questo piccolo anticipo vi abbia fatto piacere. Ho scelto un brano che anticipa e racconta, ma che non svela nulla, se non la sensazione di quel mondo in cui spero vi tufferete insieme a me: il mondo di Luca e Anna.

Ovviamente, attendo i vostri commenti qui sotto sul sito 🧡

L'abito fa il monaco

Diventiamo la maschera che portiamo.

C'è un detto, "L'abito non fa il monaco." Oggi vorrei sfatare questo mito e spiegare come, secondo me, l'abito faccia il monaco eccome.

Lo so per esperienza, di abiti io me ne intendo. Ogni volta che indosso un personaggio, qualcosa di esso rimane in me. Un ricordo, un pensiero, qualcosa che piano piano cresce, come un nuovo albero, introducendo nel vecchio Flavio nuovi concetti, nuovi sentimenti, nuove visioni del mondo.

È uno dei più grandi lussi della recitazione: quello di vivere la vita altrui. Non solo perché è molto divertente, e lo si fa in una situazione controllata, in cui parole, azioni e reazioni sono già state scelte, ma soprattutto perché l'attore ne rimane arricchito. E non parlo del portafoglio, ma del bagaglio umano che abbiamo in noi.

Spesso si parla di "entrare nella parte", cioè riuscire a comprendere appieno il personaggio, i suoi desideri, le sue movenze, i suoi pensieri. Non ho mai avuto problemi a farlo, perché in sostanza, non l'ho mai fatto. Non credo nella recitazione che prova a dipingere un altro da me. Credo in qualcosa di più semplice: esporre la mia anima, e metterla nelle condizioni di essere sincera, umana, emozionante.

Questo significa che non sono io, con le mie scelte attoriali, a dipingere il personaggio. Non sono altro che un tramite che, con l'aiuto di costumi, trucco e parrucco, dà vita ad un altro Flavio, che vive in un'epoca diversa, che dice parole diverse (scritte da qualcuno che, quello sì, ha avuto il compito di immaginarsi un essere umano diverso).

Quindi quando intendo "l'abito fa il monaco" intendo dire che il mio modo di arrivare al "personaggio" se così possiamo chiamarlo, non è di fare una ricerca interiore, di inventarmi il suo passato familiare, storie di cui non si parla nemmeno in sceneggiatura. No, il mio compito è dirla bene, essere sincero e comprensibile. Il resto lo fa "la magia del cinema" (e cioè il montaggio, la regia, i reparti, etc...)

Per me, l'attore diventa monaco indossando gli abiti del monaco. Ma è la sua capacità a toccare le corde dell'anima che giustifica il suo cachet.

Ma c'è di più. Sapevate che a forza di portare una maschera, ne diventiamo noi stessi lo specchio? A forza di essere burberi, per esempio, diventiamo burberi dentro. A forza di sorridere, la nostra anima sorride. A volte sforzarci di essere quello che non siamo in quel momento, è il primo passo per diventare quello che desideriamo.

Grotowski, grande teorico della biomeccanica e del teatro fatto di carne, ossa, sudore, uomini, spesso esponeva un aneddoto. L'aneddoto del grizzly: "Poniamo che siete in una foresta e davanti a voi appare un enorme grizzly, terribile, spaventoso che vi punta. La prima cosa che fate è fuggire. Ma la mia domanda è. Avete paura e quindi fuggite, oppure fuggite di riflesso e la paura vi viene mentre state correndo via dal pericolo?"

Ecco qua, queste sono le due scuole di pensiero della recitazione. La prima è detta Stanislavskiana o Strasberghiana (Actor's studio), parla della nascita dell'azione (cioè della fuga dal grizzly) partendo dall'interiorità (cioè dalla paura che nasce dentro). La seconda, la scuola Grotoswkiana, ipotizza che invece la "maschera" generi lo stato d'animo interiore. Cioè che sia la fuga a generare la paura e non il contrario.

In poche parole, se volete indurre in voi la felicità, ci sono più strade: potete pensare a qualcosa che vi rende felice, e fare la scuola Strasberghiana, oppure potete sorridere e basta, e i pensieri felici verranno da soli.

E voi, quale delle due preferite?

Magia del Natale

Cosa rappresenta il Natale? In un certo senso, ritengo che questa festività, come ogni bene di valore che possediamo, sia carica di una storia da raccontare. Immaginiamolo come il protagonista di un racconto.

La storia di come nacque il Natale.

C'era una volta, molto tempo fa, un popolo di uomini primitivi, intelligenti, con grande potenziale davanti a sé, ma ancora troppa poca conoscenza. Persone piene di miti, di leggende. Vivevano in un mondo magico, dove ogni cosa era intrisa di mistero. Senza atomi, senza sole, senza neve. Ogni evento era un atto misterioso.

In questo mondo, c'erano la luce e la notte, il sole e la luna. E quanto era spaventosa la notte! Con tutti quegli animali pronti a mangiarli, i suoni della foresta. Un luogo in cui bisognava rifugiarsi in fondo alle caverne per avere la certezza di non essere aggrediti di notte, nel caso in cui il fuoco si spegnesse.

E che sollievo, quando nella notte del 21 dicembre, la notte iniziava ad essere più corta del giorno precedente. Un momento di sospensione, di introspezione, in cui finalmente si prospettavano le giornate felici della primavera.

Quella data, (che ancora "data" non era, poiché il tempo ancora non aveva nome), era un punto di svolta nella natura, un momento climatico cruciale. Un momento in cui tutto diventava più bello. E così, si scambiavano regali, augurandosi, con quel dono, una promessa di fertilità, di opulenza.

Fu così che per centinaia, forse migliaia di anni, gli uomini celebrarono la rinascita della vita, del sole, della luce. Man mano che la realtà si delineava davanti ai loro occhi, che nascevano i primi pensieri, la filosofia, le religioni, la scienza, il mondo acquistava un senso, la nostra capacità di prevedere il futuro si rafforzava. E dopo la nascita della parola, la scoperta delle stelle e del sole, quel giorno magico fu battezzato "il solstizio d'inverno".

"Solstizio", dal latino "solstitium", composto da "sol (sole)" e "stitium (stasi, fermo)". Il momento in cui il sole si ferma.

"Inverno", dal latino "Hibernus", la stagione fredda.

Il momento in cui il sole si ferma, durante la stagione fredda.

Dopo avergli dato un nome, gli attribuimmo anche un significato più elevato, filosofico, umanistico. Il momento della nascita della vita. Nacquero storie e racconti sulla magia di quel momento, che trovò, in ogni luogo e ogni epoca, un'identità diversa, ma che veicolava lo stesso messaggio.

E fu così che il Natale arrivò fino a noi. Tralascerò il modo in cui il costume di San Nicola, dal verde, divenne il rosso e bianco di Babbo Natale, influenzato, diciamolo, dalla pubblicità della Coca-Cola.

Ma a noi che importa? Ciò che conta è che da ora in poi, ci sarà sempre più luce e sempre meno buio.

Buon Natale a tutti voi.

PS: queste vacanze il diario d'artista uscirà solo una volta alla settimana, e poi si riparte!

Cuori contro circuiti

Tutto ha un prezzo, si dice. Ma si sostiene anche che ciò che ha davvero valore non può essere comprato. È davvero così? Cosa conta veramente nell'arte? Il prezzo dell'opera ne definisce il valore? Questo dilemma complesso introduce elementi che spesso gli artisti desiderano distinguere in modo netto e definitivo: arte e soldi, poesia e marketing.

Voglio però sostenere tutti coloro che credono che entrambe le cose possano coesistere. Un artista può essere anche un imprenditore, anzi, dovrebbe esserlo, poiché l'arte è espressione. L'espressione vive quando ci sono orecchie per ascoltare, occhi per vedere, un'anima per emozionarsi. Desidero raggiungere quante più persone possibile, non per egoismo o per un piacere narcisistico di essere riconosciuto, ma perché ho dedicato la mia vita all'immaginazione, alle storie, alla fantasia. Amo sognare e voglio che i miei sogni prendano vita in voi, che la mia fantasia vi aiuti a trovare la vostra, perché senza di essa, il mondo diventa grigio come una lapide.

La fantasia ha dato vita a tutte le belle cose che possediamo, ma ora è in pericolo. Stiamo entrando in un'era in cui la fantasia è relegata alla superficialità del già detto, ai remake, alla gratificazione istantanea. Ciò che conta è la facilità di ricordo e la diffusione capillare, non importa la qualità o la profondità. È un fiume che divora tutto sul suo cammino, spazzando via fragilità e sensibilità, un toro dalle corna d'oro affamato di denaro, di attenzione, di nutrimento per il proprio ego.

Questa macchina, ancora animata da persone, non durerà a lungo. Presto, quasi tutto sarà sostituito dalle macchine. Creativi, attori, artisti, scrittori, siamo tutti di fronte a una minaccia incredibile che emerge all'orizzonte. L'intelligenza artificiale presto supererà l'uomo in molti compiti. Quindi, quale posto rimane per l'uomo? Dove stiamo andando?

Il tema che affronto è complesso ma essenziale: che cos'è un artista nel 2024? Che cosa deve fare un poeta per rimanere indipendente, per non essere travolto dalle macchine, per rimanere umano e, allo stesso tempo, avere successo? Sembra un rebus senza soluzione, ma forse, solo forse, ne ho una. Essere vicini alla propria anima, tangibilmente imperfetti, interagire con chi ci segue, discutere, dialogare, trasformare attraverso il dialogo chi incontriamo, e toccare corde espressive profondamente personali, ma imperfette e universali.

Gli scacchi, che sono una mia passione, hanno già vissuto questa fase. La macchina ha battuto il più forte giocatore umano, Garry Kasparov, contro Deep Blue. Eppure, gli scacchi non sono scomparsi. Gli umani amano ancora giocare a scacchi. Come è possibile, se le macchine sono superiori? La risposta è semplice. L'uomo cerca l'uomo. Vuole il contatto con la propria imperfezione, vuole migliorare, anche grazie alle macchine, ma il motivo del suo miglioramento risiede nella sua umanità. Vuole condividere il suo percorso, sentirsi parte di qualcosa, vivere insieme.

Quindi, artisti, siate umani, siate imperfetti, siate fragili, ma anche studiosi, disciplinati e un po' folli. Scavate in voi stessi, ascoltando gli altri, per forgiare nuove storie che colpiranno il cuore di nuovi uomini.

I misteri dell'Anima

Oggi desidero parlare della Divina Avventura, del processo creativo alle sue spalle, delle motivazioni che mi hanno spinto a scrivere questo libro, delle mie aspirazioni e dei risultati che credo di aver raggiunto.

L'ispirazione è nata da un'immagine lontana, grigia e sfocata, mentre passeggiavo per Villa Borghese, conversando al telefono con un'amica, Paula. Fu in quel momento che ebbi una visione, piccola ma significativa: una città vicino al Mare Baltico, bianca, lineare e pulita, Baltica. Inizialmente, non c'era nulla di ciò che poi si è sviluppato man mano che la mia immaginazione si dispiegava, ma quel barlume iniziale ha lasciato una nostalgia triste, che per ovvie ragioni ha preso vita propria.

Il mio obiettivo era esplorare il concetto di perfezione, e soprattutto criticare la nostra società, che ci impone un'adesione alle regole mascherata da "perfezione". Ci viene detto che apparteniamo e siamo corretti solo se concordiamo e ci conformiamo. In Cina, ad esempio, esiste il social score, un sistema che valuta quanto i cittadini aderiscano alle leggi. Da questo punto, il passo verso la perfezione e la tunica bianca è breve. Questo era il mondo che desideravo dipingere con Baltica, KS e Kato: un luogo dove non esiste più la moneta, né forme di governo tradizionali, ma solo un autogoverno imposto dalle macchine, dove l'eternità dell'anima diventa l'unico miraggio, l'unica cosa che conta. Ho intenzionalmente mescolato religioni, sociologia e tecnologia per riflettere quello che osservo nella nostra società, sempre più attaccata alle regole, al politically correct, al demagogico, come direbbero gli oratori greci.

E quale entità è più demagogica della macchina che tutto sa, che rappresenta la media della conoscenza umana, il perfetto centro, il nulla più assoluto ed eterno, già plasmato e immutabile? In questo contesto, ho creato un personaggio, un ragazzo di nome Overton, come la finestra di Overton, un principio sociologico che descrive l'ambito dell'accettabile in costante mutamento. Overton proviene dagli abissi dell'imperfezione, dal deserto, dal dolore, dalla morte. È facilmente ingannabile con una semplice menzogna: "Posso farti incontrare tua madre morta". Una falsità che, nel contesto del racconto, sembra assurda, ma che in realtà non è così diversa dalle promesse di alcune religioni.

Siamo fragili, la morte ci spaventa, la perdita dei nostri cari o di noi stessi ci terrorizza. Ma non Overton. Lui ha già perso tutto, e dal suo dolore, ho voluto forgiare un eroe, un ragazzo che supera gli insegnamenti del maestro, diventando a sua volta un maestro non solo di sé stesso, ma anche della sua generazione. Una generazione che non sapeva desiderare, ma che ora, grazie all'amore di una madre, al mistero della vita, alla tragica resilienza di un maestro vissuto nell'illusione, intraprende un viaggio verso l'orizzonte.

Il libro è una speranza, un desiderio di preparare la nuova generazione alle sfide spirituali ed esistenziali che dovrà affrontare. Il futuro promette meraviglie, ma queste meraviglie tecnologiche hanno un costo. Cosa resta dell'umanità quando le macchine la superano in tutto? L'anima? Il nostro io? I nostri desideri? E oltre ai desideri, cosa c'è? L'amore? Queste sono le domande che ho voluto esplorare nel libro, per comprendere un pezzo di me stesso e tracciare un percorso oltre il quale speravo di scoprire un'altra parte di me.

E così è stato. La Divina Avventura mi ha aperto il cuore e l'anima, e ancora oggi ringrazio il momento in cui ho deciso di scriverla. È un testo denso e a tratti complesso, ma ricco di entusiasmo che sarà difficile eguagliare. Se l'avete letto, grazie. Se non lo avete ancora fatto, vi consiglio di acquistarlo, di conservarlo e di leggerlo quando avrete tempo. E se avete un figlio, un nipote o un giovane in procinto di affrontare l'oceano della vita, sono certo che, come per le centinaia di persone che hanno lasciato una recensione positiva, toccherà corde importanti, che spero si porteranno dietro nel tempo.